Orientarsi nella giungla degli ammortizzatori sociali

Proviamo a fare chiarezza tra le nuove sigle circolate nelle ultime settimane, ossia NASpI, ASDI e Dis-Coll, con il supporto di due esperti di lavoro: Fabio Rusconi, presidente AGI (Associazione Giuslavoristi Italiani) e Livia Ricciardi, membro del Dipartimento politiche del lavoro e della formazione della Cisl Nazionale. È l’acronimo di Nuova prestazione di Assicurazione Sociale […]

Proviamo a fare chiarezza tra le nuove sigle circolate nelle ultime settimane, ossia NASpI, ASDI e Dis-Coll, con il supporto di due esperti di lavoro: Fabio Rusconi, presidente AGI (Associazione Giuslavoristi Italiani) e Livia Ricciardi, membro del Dipartimento politiche del lavoro e della formazione della Cisl Nazionale.

È l’acronimo di Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego, in parole povere un’indennità mensile di disoccupazione che dal primo maggio 2015 (paradossalmente il giorno della festa dei lavoratori) sostituirà ASpI e mini ASpI, istituite neppure tre anni fa dalla cosiddetta legge Fornero ed entrate in vigore il primo gennaio 2013.
Destinatari della NASpI lavoratori dipendenti che abbiano perso involontariamente il lavoro, compresi gli apprendisti, a eccezione degli assunti a tempo indeterminato della Pubblica Amministrazione e degli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato, soggetti a un’altra legislazione. Può richiedere la NASpI chi risulta in stato di disoccupazione, ha versato almeno 13 settimane di contributi nei quattro anni precedenti l’inizio della disoccupazione e ha lavorato per almeno 18 giorni nell’anno precedente.

 

Criteri più ampi rispetto a quanto previsto finora: per ottenere l’attuale ASpI è necessario avere almeno un anno di contribuiti versati nel biennio precedente la richiesta e un’anzianità assicurativa di due anni. Per la mini ASpI invece servono almeno 13 settimane di contribuzione nei 12 mesi precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, mentre non è previsto il requisito dell’anzianità assicurativa. «In sostanza la NASpI comporta un rilevante abbassamento della misura del trattamento rispetto all’ASpI e lo lega più strettamente alla storia lavorativa del soggetto, aumentando la possibilità di accesso», spiega Rusconi. La richiesta deve essere fatta all’Inps per via telematica «entro il termine di decadenza di 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro» e spetta dal giorno successivo alla presentazione della domanda e comunque non prima dell’ottavo giorno successivo alla fine del rapporto di lavoro. Modalità simili a quanto già fissato per l’ASpI dalla legge Fornero.
Come si calcola? Se la retribuzione mensile percepita fino a quel momento è pari o inferiore a 1195 euro, l’indennità corrisponde al 75 per cento di essa. Nel caso in cui sia superiore a questo importo, la NASpI è pari al 75 della retribuzione, più una somma corrispondente al 25 per cento della differenza tra la retribuzione e il precedente importo. In ogni caso l’indennità non può superare per il 2015 i 1300 euro mensili e, a partire dal quinto mese di fruizione, viene progressivamente ridotta del tre per cento. Modalità di calcolo non differenti rispetto a quanto già previsto per l’ASpI, con la differenza che per l’ASpI la riduzione è del 15% dopo i primi sei mesi e di un ulteriore 15% dopo il dodicesimo. Quanto alla durata, la NASpI è percepita per un numero di settimane «pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni», si legge nel decreto. Inoltre rispetto all’ASpI, come sottolinea Livia Ricciardi «la Naspi durerà di più, ossia fino a 24 mesi fino al 2016, fino a 18 dal  2017, con impegno a portare a regime i 24 mesi».
La legge Fornero lega invece la durata massima dell’ASpI all’età anagrafica, fino ad arrivare a un massimo di 16 mesi. Non cambiano invece le ipotesi di decadenza dall’indennità, tra cui il raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato o l’inizio di un lavoro subordinato o autonomo senza l’opportuna comunicazione prevista dal decreto.
Altra novità del decreto è l’ASDI, assegno di disoccupazione istituito in via sperimentale sempre dal primo maggio 2015 con uno stanziamento di 300 milioni di euro per l’anno in corso.
Si tratta di un contributo aggiuntivo erogato a chi ha già usufruito della NASpI per tutto il periodo senza riuscire a trovare un’occupazione, in presenza di particolari condizioni: situazioni di disagio sociale, testimoniate dall’ISEE, appartenenza a nuclei familiari con minorenni o età vicina al pensionamento in mancanza però dei requisiti necessari. L’importo dell’assegno è pari al 75% dell’ultima NASpI percepita e non può superare il tetto già fissato per l’assegno sociale, ossia circa 450 euro. L’ASDI rappresenta un’assoluta novità nel panorama italiano: «si tratta di una tipologia di prestazione in caso di disoccupazione sconosciuta al sistema italiano di ammortizzatori sociali, sebbene forme di assistenza simili siano previste in altri ordinamenti europei, come quello tedesco», chiarisce Rusconi.

A una prima analisi è già abbastanza chiaro che l’assegno spetti a chi comunque non viene da periodi di disoccupazione lunghi, avendo comunque già beneficiato della NASpI, «un ammortizzatore sociale di ultima istanza», lo definisce la Ricciardi, «sicuramente positivo, ma non uno strumento organico di contrasto alla povertà». Resta valido l’assegno sociale. Va chiarito però che si tratta di due misure di natura diversa: «la prima ha lo scopo di garantire un sostegno al reddito a soggetti che abbiano già fruito della Naspi per l’intera sua durata senza trovare occupazione e che si trovino in una condizione economica di bisogno. L’assegno sociale, invece, può essere riconosciuto solo a soggetti in stato di bisogno economico che abbiano compiuto 65 anni e tre mesi di età; risponde quindi alla funzione di sostenere il reddito di coloro che si trovano in stato di indigenza e per i quali l’età rende difficile svolgere attività lavorativa», spiega il presidente AGI.

Ma il governo Renzi guarda o quantomeno prova a guardare anche a chi un contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato forse non l’ha mai visto e conia a questo proposito un nuovo acronimo: Dis-Coll. Il «neologismo» fa riferimento a un’indennità di disoccupazione, istituita in via sperimentale dal primo maggio 2015 alla fine dell’anno e riconosciuta, come recita l’articolo 16 del decreto, «ai collaboratori coordinati e continuativi a progetto, iscritti in via esclusiva alla Gestione separata, non pensionati e privi di partita IVA, che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione». Necessaria anche qui la presenza di una serie di condizioni: essere in stato di disoccupazione, aver versato tre mesi di contributi nell’anno solare precedente la fine del lavoro, aver lavorato almeno un mese nell’anno in cui si è verificata poi la perdita dell’occupazione, dando luogo a un reddito «almeno pari alla metà dell’importo che dà diritto all’accredito di un mese di contribuzione». Le modalità di calcolo sono le stesse della NASpI, così come modi e tempi per la richiesta. La durata massima dell’indennità di disoccupazione non può superare i sei mesi.
Già la legge Fornero aveva previsto un’indennità una tantum, ma con la Dis-Coll viene fatto un passo in più, per una serie di ragioni, su tutte il fatto di essere una prestazione continuativa e un beneficio esteso non più solo ai co.co.pro. ma anche ai co.co.co.
Fin qui sicuramente nulla di negativo, se non fosse che sul tavolo delle riforme c’è proprio l’eliminazione delle collaborazioni continuative e a progetto. In quel caso è ovvio che la Dis-Coll non avrebbe più senso. Ma, come sostiene anche Rusconi, è ancora troppo presto per tirare le somme: «la nuova misura è prevista in via sperimentale per il 2015 e quindi ogni considerazione in proposito appartiene, al momento, più che al diritto alla politica del diritto».
Come a dire, è ancora presto per trarre conclusioni e fare bilanci, al momento bisogna solo aspettare che il Jobs Act diventi finalmente realtà.

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