Popolo della partita Iva: precario lui, precarie le imprese

Ha suscitato un vespaio di polemiche il fatto che oltre 350 notai abbiano chiesto il bonus di 600 euro, previsto dal D.L. 18/2020 come sostegno alle partite Iva in difficoltà a causa dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. La notizia invece non ha sorpreso per niente gli addetti ai lavori, quelli che per mestiere, competenze ed esperienze […]

Ha suscitato un vespaio di polemiche il fatto che oltre 350 notai abbiano chiesto il bonus di 600 euro, previsto dal D.L. 18/2020 come sostegno alle partite Iva in difficoltà a causa dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. La notizia invece non ha sorpreso per niente gli addetti ai lavori, quelli che per mestiere, competenze ed esperienze professionali assistono quotidianamente i cosiddetti “autonomi”, comunemente conosciuti come il “popolo della Partita Iva”.

Un mito da sfatare, quello delle libere professioni, un tempo considerate una casta in cui era difficilissimo entrare; ma una volta che si riusciva a farne parte, agli onori seguivano fior di compensi e redditi elevati. Sono anni che non è più così, e non solo per le professioni intellettuali: anche per tutti i lavoratori autonomi in senso lato, dai piccoli imprenditori ai commercianti, dagli artigiani alle nuove professioni emergenti. Il numero delle partite Iva è cresciuto molto negli ultimi anni, e di certo non perché ci sia stato un andamento economico favorevole che lo giustificasse. Anzi. Molti sono stati attratti dalla falsa prospettiva di maggiori guadagni, ma i più si sono ingegnati in qualche modo a inventarsi un lavoro che non c’era e non c’è, come oggi continua a non esserci. Perché, per essere lavoratori dipendenti, ci vogliono le imprese che ti assumano e che siano capaci di fare veramente impresa, il che significa anche garantire, attraverso il valore economico generato, continuità occupazionale e retributiva.

A che cosa è dovuta la crescita del popolo della partita Iva?

Personalmente non ricordo un periodo, dagli anni Ottanta ad oggi, in cui sia stato facile trovare lavoro, soprattutto un “posto di lavoro”. Nella mia ormai lunga vita professionale ho sempre constatato quanto fosse difficile trovare un’occupazione, e soprattutto mantenerla, anche negli anni Novanta e poi nel nuovo millennio, sempre costellato dalla precarietà del lavoro. Di partite Iva ne abbiamo tante anche per questo.

Imprese precarie, lavoro precario e partite Iva precarie. Fino alla crisi del 2008 il mondo delle partite Iva ha indubbiamente risentito dell’impulso delle professioni emergenti: quelle del mondo digitale, delle consulenze online su qualsiasi argomento, senza un vero contradditorio. Professioni e mestieri nuovi, che per un certo periodo hanno fatto la fortuna di tanti, che si sono costruiti un personaggio e intorno a esso un mercato e una clientela, magari anche attraverso il sostegno mediatico dei gruppi presenti all’interno dei social. Anche per queste partite Iva, però, i tempi duri sono già cominciati, e quei mercati emergenti hanno fatto presto a essere inflazionati in un mondo – quello digitale – in cui distinguere le competenze dalla fuffa è sempre più difficile, e si è seguiti e si fa fatturato soprattutto se c’è un bel numero di persone che sostiene e diffonde il messaggio che si è bravi; che ciò corrisponda esattamente al vero o no, fa poca differenza. O almeno la faceva, in un mondo effimero in cui la fame di contenuti digitali e di nuovo, vero o apparente, era molta.

Oggi tutti fanno più fatica, e i riflessi negativi che deriveranno dal prolungato lockdown, oltre alle misure necessarie per riaprire fabbriche e imprese alla ripartenza, a emergenza epidemiologica conclusa, produrranno inevitabilmente nuovi disoccupati. Dipendenti, certo, ma anche tanti autonomi. Tante di quelle partite Iva aperte non per essere padroni di sé stessi, delle proprie capacità e del proprio tempo, ma perché sollecitati e “invitati” caldamente a farlo da quelle stesse imprese in cui, fino a poco tempo prima, si era a libro paga.

Il regime fiscale dei contribuenti minimi prima e quello forfettario poi hanno contribuito non poco a questo fenomeno di fuoriuscita da imprese e studi professionali di lavoratori dipendenti, trasformati forzatamente in autonomi ma che di fatto non lo sono, che continuano a fare né più né meno quello che facevano prima. Con la sola differenza di ricevere un bonifico, a fine mese, dietro presentazione di fattura, invece che in pagamento del cedolino paga.

 

Il nuovo medioevo delle partite Iva ricche (di famiglia)

Ci sono ancora alcune partite Iva ricche, indubbiamente. Non è più però l’appartenenza alla “casta” a determinare il successo e la ricchezza, ed è questo il motivo per cui anche tanti notai hanno chiesto il bonus dei 600 euro. I più giovani, gli ultimi entrati nel mondo delle professioni e dell’autonomia in generale, sono quelli che soffrono maggiormente l’andamento di mercati in cui i clienti sono sempre meno e sempre meno disposti a spendere, mentre i concorrenti sono tanti e tali da determinare fenomeni di dumping su prezzi e tariffe. Come i notai anche i consulenti del lavoro, dei quali il 63% ha chiesto il bonus avendone i requisiti previsti (fonte: ENPACL), il che significa, legge alla mano, avere un reddito complessivo lordo inferiore a 35.000 euro. E nella stessa situazione dei quasi 500.000 professionisti c’è l’esercito di tre milioni di iscritti alle gestioni previdenziali dell’INPS. Come dire: piccoli commercianti, artigiani, collaboratori delle imprese famigliari, soci di piccole società.

Le partite Iva ricche, oggi, sono per lo più quelle di chi ha cominciato 25 o 30 anni fa e che si è costruito la propria nicchia di mercato; quelle di chi, nella maggior parte dei casi, è “figlio d’arte” del professionista o ha ereditato l’impresa di famiglia, forte del sostegno economico dei propri predecessori, oltre che del loro patrimonio di competenze, esperienze, know-how, ma anche e soprattutto di relazioni.

È una situazione che investe un po’ tutto il mondo degli autonomi; professionisti, commercianti, artigiani, imprenditori. Lo studio, il negozio, l’impresa più ricca è quella che hanno fondato e sviluppato i genitori, a volte i nonni, e ha quindi le “spalle larghe” per reggere anche l’urto della crisi e avere il tempo, magari, di fagocitare i clienti delle partite Iva più povere, che alla prova dello stesso urto, invece, chiuderanno i battenti. Un processo che rischia di scaraventarci all’indietro, in un nuovo medioevo in cui le attività economiche si tramandano in via praticamente esclusiva di padre in figlio, come al tempo delle corporazioni delle arti e dei mestieri, con barriere all’entrata che rendono molto difficile l’accesso al mercato anche da parte dei più bravi e preparati, privi però dei sostegni che sono appannaggio dei già ricchi.

 

Ricchezza virtuosa e meno virtuosa: chi innova e guadagna, chi evade le tasse

Ci sono poi le eccezioni, rappresentate da quelle partite Iva ricche non per motivi di famiglia, ma per aver sfruttato la loro capacità di creare innovazione. Si sono affermate nello spazio della ricerca, dell’applicazione delle nuove tecnologie e della consulenza, della formazione, dell’educazione al mondo del digitale per imprese, persone e professionisti.

C’è però da considerare il fatto che la ricchezza di alcune partite Iva può essere effimera. A volte è basata sulla proprietà acquisita dai predecessori di asset impiegati nell’attività economica, come gli immobili: negozi e botteghe, studi, capannoni, che creano l’illusione di maggiori guadagni perché non vengono iscritti in bilancio i costi per il loro utilizzo (affitti e locazioni). Sono costi che però ci sono ugualmente, anche se nascosti, e il fatto che non vengano considerati fa emergere situazioni economiche non corrispondenti allo stato reale delle cose. In altri casi, poi, la ricchezza è scambiata con il semplice possesso del denaro trattenuto presso di sé grazie ai mancati o ritardati pagamenti dei propri fornitori, e soprattutto dello Stato per imposte dovute e non versate, quando addirittura non vengano evase. Queste situazioni non sono ricchezza, ma anzi costituiscono per queste Partite Iva un punto debole destinato a cedere.

Di fronte all’incertezza del futuro non sappiamo esattamente che cosa succederà al popolo della partita Iva. Chi potrà lavorare da remoto e fare a meno di un ufficio o di una sede fisica avrà maggiori possibilità di continuare la propria attività; per coloro che hanno bisogno invece di contatti reali potranno esserci nuovi problemi da affrontare, almeno nei primi tempi. Sarà importante imparare a collaborare o, come sostiene la nuova filosofia dell’innovazione, ad adottare strategie di “coopetition”, di competizione collaborativa, anche attraverso la conoscenza e l’applicazione di strumenti come le Società tra Professionisti (StP) e le Reti di Impresa.

Per tutti vale ancora, oggi più che mai, quello che ha sempre sostenuto Peter Drucker quando chiedeva “qual è, quale sarà e quale dovrebbe essere la nostra attività?”, per sottolineare l’importanza di mettere sempre in discussione e ripensare il proprio business.

 

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