Professione musicisti, quasi operai

Siamo in un locale fumoso alle due di notte (sì, lo so che non si fuma più nei locali da vent’anni, ma questo ha ancora nell’aria il fumo acre delle cicche disperate e alcoliche degli anni Novanta). Il concerto è finito. I musicisti, che per comodità chiameremo Berto e Leo, stanno smontando l’impianto, intrigati sopra […]

Siamo in un locale fumoso alle due di notte (sì, lo so che non si fuma più nei locali da vent’anni, ma questo ha ancora nell’aria il fumo acre delle cicche disperate e alcoliche degli anni Novanta). Il concerto è finito. I musicisti, che per comodità chiameremo Berto e Leo, stanno smontando l’impianto, intrigati sopra il palchetto due metri per due. Tirano su cavi e bestemmie perché sono le due di notte e domattina alle sette dovranno alzarsi per lavorare. Perché suonare nei locali non ti permette di camparci. Ma devono ancora compilare il borderò, beccare il cachet e farsi i trenta chilometri per tornare a casa.

Sono le due di notte e loro sono in quel locale dalle 18.30. Testimone inconfutabile ne è Facebook, che li geolocalizza da quelle parti da circa otto ore. Alle due e tre minuti si avvicina un tizio sulla cinquantina, bello carico del grande spirito. Il concerto gli è piaciuto molto e lo dice con slancio:

Bravi ostia! Da dove saltè fora vialtri do?!” (“Di dove siete?”).

“Siamo di queste parti”.

Poi, dopo uno sguardo di sottecchi, la fatale domanda scivola fuori dalle labbra del tizio, che chiameremo per comodità Ersilio, come una boccata di fumo in faccia.

Ma de lavoro cossa fè veramente?!” (“Ma di lavoro che cosa fate veramente?”).

Ersilio chiede perché per lui intrattenere due dozzine di avvinazzati in un pub non è un lavoro. Berto e Leo suonano tra l’altro canzoni originali. Testo e musica dal loro ingegno. In otto anni ne hanno scritte un centinaio. Il buontempo passato a scrivere non è considerato lavoro. Hanno inciso cinque dischi costati tempo e denaro. Ma il tempo passato in studio non è lavoro. Da musicastri sono arrivati al pub alle 18.30 e hanno montato l’impianto, fatto il sound check, suonato due ore e ora stanno smontando tutto.

“Lavoro nella ditta di famiglia” dice Leo.

De cossa?” chiede Ersilio.

“Alluminio”. Gli occhi di Ersilio si fanno rispettosi.

E ti?!” chiede a Berto.

“Mensa e doposcuola alle elementari”, dice Berto.

Cooperativa?”, chiede Ersilio allarmato.

“Già” dice Berto.

“Ah!” dice Ersilio con gli stessi occhi vitrei di Edgar Hoover.

“Se vuole un CD sono solo dieci sacchi”, dice Berto.

Ah no! No grassie!”, risponde Ersilio mentre svanisce come il fumo di un pessimo sigaro.

Arriva il gestore del locale. Non ride. “Pensavo più gente”, dice.

Tre quarti dei presenti sono venuti per i ragazzi. Gli altri sono i dipendenti.

“Che facciamo?”, chiede sapendo già la risposta.

È a questo punto che tutto diventa pazzesco. In un angolo del pub John Lee Hooker comincia a pizzicare la sua Gibson fiammeggiante: “HeyHeyHey… HawHawHaw…”.

“Certo che ne avete bevuta di birra, ragazzi”, dice il gestore, che ora indossa un cappello da cowboy.

“Ma quando siamo arrivati – dice Berto – la sua signora al banco ci ha offerto il primo giro, e allora credevamo che la birra fosse una specie di omaggio per la banda, capisce?”

“Ah. No. No, no, no.”

Ersilio chiede che mestiere fanno i musicisti perché suonare nei locali non sembra un mestiere. Infatti è un incanto dove un pub di provincia può diventare il Bob’s Country Bunker e due musicastri qualunque Jake e Elwood, the Blues Brothers.

Però un mestiere lo è eccome, caspita. Un mestiere di ore, mesi, anni di fatica e impegno, tempo e indomabile dedizione. Perciò se vi capitasse un giorno di entrare in un pub di provincia e trovarci una band che suona, non dovete per forza comprare il loro CD e nemmeno ascoltarli, se non vi piacciono. Tuttavia guardateli come qualcuno che sta lavorando. Vi assicuro che ve ne saranno immensamente grati.

 

 

Foto di copertina: Maria Conte

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