Falsa etica nelle aziende: impariamo a riconoscerla

Quanto costa alle aziende perseguire un modello etico, al di là dei proclami? Risponde Marco Lucchini, segretario generale del Banco Alimentare.

Esaltata magari a parole ma non sempre nei fatti, spesso strumentalizzata o anche saccheggiata, in diversi casi messa in pratica e valorizzata al massimo. L’etica – soprattutto quando parliamo dell’ambito lavorativo – conosce questi diversi destini, tracciati a seconda di chi ne abusa o la vive come stella polare del proprio percorso, fino a esiti che diventano storie emblematiche in positivo o in negativo. Non dimentichiamo infatti l’esistenza della falsa etica, strumento subdolo di pubbliche relazioni, parole che attraversano a stile libero i canali social e le descrizioni delle varie vision svettanti sui siti web aziendali.

Per parlare senza retorica di vera etica, che non si arena nelle sole parole ma si traduce in fatti, ci confrontiamo con Marco Lucchini, segretario generale del Banco Alimentare.

Etica, quanto costa? Marco Lucchini: “L’investimento più importante è nell’educazione”

Il Banco Alimentare è una realtà che ha messo a segno più di 30 anni di lotta allo spreco attraverso il recupero del cibo, e con effetti tangibili. Numeri alla mano, nel solo 2019 sono state quasi un milione e mezzo le persone indigenti aiutate, 75.449 le tonnellate di cibo distribuite, 76.448 le strutture caritative convenzionate.

“Il Banco Alimentare registra circa 1.500 volontari e 150 dipendenti”, sottolinea Lucchini. “In pratica i volontari hanno creato le basi per generare lavoro, e non di certo per toglierlo”, spiega rispondendo a una nostra domanda provocatoria sul tema dei casi di volontariato selvaggio e in qualche modo forzato, che arrivano a togliere opportunità di lavoro anziché supportarle.

Si parla molto degli effetti benefici dell’etica in un’azienda, e nello specifico su vari fronti. Mettendo però al bando ogni retorica e ragionando in termini concreti: quanto costa l’etica per un’impresa, e quanto è insegnabile? Non chiediamo un business plan, ma riflettiamo in generale senza ancorarci al solo tema delle risorse economiche, riferendoci anche al tempo impiegato, ai monitoraggi attivati, alle risorse umane valorizzate.

“Parto da un concetto per me basilare, che evita gli assoluti”, risponde Marco Lucchini. “Non esiste una persona etica, ma ci sono le persone che ogni istante decidono, con la loro coscienza e liberamente, se fare un gesto etico o meno. Il primo costo dell’etica non può quindi essere messo nel bilancio di un’azienda: si tratta del costo più difficile, perché nessuno chiede di farlo; parte da noi che crediamo in quello che scegliamo. Poi c’è anche il discorso del contesto in cui si è inseriti, soprattutto se pensiamo al lavoro, e che può indirizzare verso certe decisioni prese non più così liberamente”.

Gli altri costi quali sono?

Un altro costo è determinato dal fatto di creare un team che condivida il valore che stiamo perseguendo. Con il risultato che se prima magari eravamo soli in questa operazione, poi arriva a essere in minoranza chi non ci crede. Una sorta di secondo atto sul tema dei costi dell’etica. Il terzo costo è quello che sostiene gli strumenti messi in campo per aiutare a ricordare quello abbiamo deciso.

Possiamo definirli incentivi?

Sì, permettono di mantenere la decisione nel tempo. Il costo più importante credo però sia quello legato all’azione educativa e formativa a sostegno dell’etica. Penso ad esempio all’educazione civica nelle scuole e a momenti formativi in azienda, che siano gestiti da persone in grado di coinvolgere, dimostrando che chi concretizza certi valori è una persona valida. Non vanno invece bene proposte che creano situazioni di stress da performance.

Ma l’etica si può insegnare ai lavoratori e alle lavoratrici in un’azienda?

Diciamo piuttosto che si può sostenere solo se esistono già una motivazione e un interesse verso quello che si sta facendo. Ovviamente i corsi e chi li gestisce hanno un costo. Si tratta di un investimento per l’azienda,e come ogni investimento necessita di un tempo adatto per maturare. La formazione non è una panacea; è necessario un lavoro che coinvolga tutti i livelli in un dialogo che non sia competitivo.

L’etica viene spesso strumentalizzata per far lievitare le pubbliche relazioni e magari prendere all’amo potenziali stakeholder. Come gestire questo insidioso competitor, mettendoci nei panni di chi adotta una vera etica in ambito imprenditoriale?

Non credo che queste dinamiche abbiano vita lunga. I social sicuramente possono essere uno strumento positivo ma anche pericoloso; dipende da come vengono guidati. I social però sono uno strumento di marketing, devono vendere qualcosa, e qui gioca un ruolo importante il pubblico che legge e crede subito a una cosa, oppure quello che vuole trovare conferma nei fatti. Io credo che nell’etica valga sempre l’esempio vero.

A proposito di questo, un esempio?

Torniamo indietro nel 1989, quando è nato il Banco Alimentare. Allora chi donava cibo commestibile ma non più vendibile pagava tutte le tasse, e chi invece lo buttava in discarica aveva delle agevolazioni: un paradosso! Tutto va però sempre contestualizzato. A quei tempi mancava l’odierna sensibilità ambientale: più sprecavi più eri figo, lo spreco era qualcosa di cui vantarsi. In questo contesto noi del Banco Alimentare incontriamo Danilo Fossati della Star, che dice: “Chi se ne frega di pagare le tasse, io il cibo non lo butto!”. L’esempio prosegue in queste condizioni dal 1989 al 1997, periodo in cui cerchiamo di aumentare il numero di supereroi come Fossati. Fino a che non ci siamo chiesti: perché non rendere civile questo gesto ideale? Abbiamo così scoperto un retroterra vastissimo di motivazioni, fino a che non siamo riusciti a inserire la parità fiscale che invece di penalizzare l’investimento etico dell’anti-spreco lo incentiva. Ma ripeto: non basta una legge, deve esserci una scelta alla base. La legge aiuta a sostenerla.

L’emergenza sanitaria ha creato le cosiddette nuove povertà, per mancanza o perdita di occupazione. L’azione etica del Banco Alimentare come sta affrontando questo periodo complesso fatto di emergenze nell’emergenza?

All’inizio abbiamo avuto un collasso, perché il lockdown ha fermato molte persone. Pian piano ci siamo poi riorganizzati, pur con la difficoltà di trovare presidi e l’impossibilità di muoversi da un comune all’altro. Successivamente siamo stati per fortuna riconosciuti come servizio essenziale, quello dell’aiuto alimentare. Da marzo a oggi la richiesta di aiuto alimentare è aumentata di circa il 40%, con punte che arrivano al 70% al Sud. Il mondo della ristorazione chiudeva, e siamo stati quindi contattati per recuperare tempestivamente il cibo: non è stato facile perché c’erano molti prodotti deperibili. Abbiamo dovuto organizzare un modo differente di recupero e di redistribuzione. Anche la filiera agricola, dei salumi e dei latticini, non avendo la parte di ristorazione da rifornire, si è trovata con molte eccedenze. Il ministro dell’Agricoltura ha dato disponibilità di 300 milioni per acquistare le nuove eccedenze e distribuirle alle persone in difficoltà. Se mercato rifiuta un bene alimentare si genera un’eccedenza, per non sprecarlo è recuperarlo e donarlo a chi non ha disponibilità economiche. Questo è quello che ogni giorno fa il Banco Alimentare da 31 anni. Adesso la situazione è leggermente migliorata grazie alla cassa integrazione. Temiamo molto, però, perché se dovesse terminare ci troveremmo a gestire un’ondata di piena di cui nemmeno noi conosciamo le conseguenze.      

In copertina, con il microfono Marco Lucchini, segretario generale del Banco Alimentare. Foto di Domenico Grossi           

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