Quando la musica leggera prende le distanze dal mondo del lavoro

Al Festival di Sanremo 1967 il complesso dei Giganti si classifica terzo con la canzone «Proposta», più nota per il refrain «mettete dei fiori nei vostri cannoni» che traduce al pubbico italiano le originali istanze del movimento americano «Flower Power»: più che di un brano di di protesta si tratta di un esempio di teatro-canzone […]

Al Festival di Sanremo 1967 il complesso dei Giganti si classifica terzo con la canzone «Proposta», più nota per il refrain «mettete dei fiori nei vostri cannoni» che traduce al pubbico italiano le originali istanze del movimento americano «Flower Power»: più che di un brano di di protesta si tratta di un esempio di teatro-canzone sulla scia di quel cabaret leggero visto più di una volta sul palco del Salone delle Feste.La messa in scena riprende le inchieste televisive alla «TV7»: un cronista, interpretato dal baritono Enrico Maria Papes, intervista alcuni giovani che sfilano esibendo cartelli con slogan pacifisti. Facile immaginarli studenti: la canzone mostra al contrario tre lavoratori.
Il primo giovane a prendere la parola è di estrazione sociale medio-bassa, e ricorre spesso a dialettalismi: «Me ciami Brambilla e fu l’operari, lauri la ghisa per pochi denari» racconta, lamentandosi di guadagnare troppo poco per potere accompagnare la partner a ballare. «Mi piace il lavoro» sottolinea, ribadendo che il suo problema non è tanto il salario quanto le aspettative di una gioventù da cui si attendeva di più di un impiego in fonderia.

Il secondo è un artista nemmeno ventenne, un «pittore che non vende quadri», e desidera solo la propria libertà: lavora anche lui, svolgendo un mestiere che in Italia non esiste e che gli autori hanno con ogni probabilità mutuato dalle pellicole americane, quello dello strillone.

Il terzo intervistato viene da una famiglia borghese dove si discute soprattutto sul modo di vestire. Come si guadagni da vivere non è dato, si sa solo che lo fa «lontano da casa» avendo rinunciato «a un posto tranquillo» rifiutando gli «impegni che mio padre ha preso per me». Insoddisfatti e confusi in un momento ancora fecondo di opportunità, tutti e tre gli intervistati si presentano parlando di lavoro, ma ognuno di essi sembra rifiutare di farne il proprio dato identitario principale, preferendo identificarsi nella delusione, nei sogni e nel disimpegno, a debita distanza dagli sviluppi sociali e tecnologici dell’Italia del dopo boom come da ogni tipo di rivendicazione pur alla vigilia di una stagione di aspro confronto sindacale.

L’innocua «inchiesta» dei Giganti racconta quanto sia marginale, sfocata e distante dalla realtà la comprensione del mondo del lavoro degli autori di musica leggera, che anzi da esso prendono dichiaratamente le distanze, quasi che lavorare non sia un mezzo ma un ostacolo per la realizzazione individuale.

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