Quanto fa male vestirsi bene

Quando i vestiti danneggiano il pianeta. Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia: “Fino a 2.700 litri d’acqua necessari per produrre una maglietta. Le campagne sostenibili dei marchi sono solo greenwashing”. Lo dicono i dati

Vestiti e inquinamento: un volatile plana su una discarica di abbigliamento

Subito dopo questa intervista, il primo, irrefrenabile impulso è stato quello di rovistare in tutto il mio armadio. Di certe bufale rifilate da alcuni marchi della moda ero al corrente, ma non ho potuto fare a meno di rivedere tutte le etichette dei miei vestiti per capire a quanto ammontava il danno. Premesso che non compro nei fast fashion e che cerco di riciclare tutto il possibile, sia dei vestiti di mia figlia (che arrivano dalle cugine e poi passano ad altre sue amiche) che dei miei, mi sono resa conto che il mio armadio è comunque pieno di capi sbagliati. Anche se non posso tornare indietro, posso essere più consapevole – e cercare di rendere più consapevoli anche voi.

Ad esempio da oggi, durante la settimana della moda, saremo tutti innamorati di Milano e delle firme prestigiose che popolano la città. Ma per renderla elegantissima e glamour che cosa succede nel resto del pianeta?

Partiamo dagli anni più bui, cioè quelli della globalizzazione, e quindi della delocalizzazione sfrenata. Sappiamo tutti che le aziende di qualsiasi marca e modello hanno trasferito la produzione in Asia o in generale nel Sud del mondo, e non solo per sfruttare la manodopera a basso costo. In quei Paesi potevano violare con serenità tutte le norme ambientali, e nel settore tessile il problema si è estremizzato, perché alcune imprese hanno utilizzato le acque come vere e proprie fogne.

Il tessile, nella sua globalità e con la lunghezza della sua filiera, è uno dei settori industriali più impattanti al mondo; in particolare è il secondo dopo quello agricolo per impatto sulle acque, e nel 2011 Greenpeace ha lanciato la campagna Detox per cercare di arginare questo scempio ambientale.

Con Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, ho cercato di capire a che punto siamo. Diciamolo subito: rispetto al 2011 abbiamo fatto passi da gigante sulla chimica per cercare di rendere la produzione di abiti più sostenibile, soprattutto in Italia; ma la strada è ancora molto lunga, e se è difficile cambiare una per una le abitudini di acquisto dei consumatori, qui Giuseppe Ungherese fa nomi e cognomi dei marchi che ancora devono adeguarsi al Detox. Oltre a dare qualche consiglio per gli acquisti.

 

Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia
Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia

 

La completa assenza di regole in tutto il Sud del mondo e in tutta l’area asiatica ha fatto danni enormi dal punto di vista ambientale. È così?

Nel 2011 abbiamo iniziato a fare campionamenti nei grossi distretti tessili e il problema fu subito evidente. Abbiamo fatto analisi anche in posti inaccessibili, con risultati drammatici. Così abbiamo avviato la campagna Detox, un percorso difficile perché il settore tessile è frammentatissimo, pieno di piccoli fornitori e subfornitori difficili da individuare. Scoprimmo subito che i colossi non avevano la conoscenza della loro intera filiera produttiva: Gucci, Armani, Prada, Levis, Adidas e Nike, tanto per dirne alcuni, non conoscevano i loro fornitori. Quando abbiamo cominciato a fare i test sulle acque in diversi Paesi del mondo siamo riusciti a ricostruire una filiera che a loro era quasi sconosciuta. Li cogliemmo del tutto impreparati perché non avevano nessun meccanismo di tracciabilità.

La vostra campagna Detox li ha esposti alla gogna mediatica, ma con quali risultati?

Li abbiamo messi davanti alle loro responsabilità, nei confronti delle comunità locali, che su quelle acque basavano il loro sostentamento, e nei confronti di tutto il mondo. Così li abbiamo forzati all’implementazione di un percorso di tracciabilità, una strada lunghissima che però sta dando risultati. Ma il cambiamento non è semplice, anche a causa della struttura produttiva del settore: tutte le lavorazioni a umido e le fasi di colorazione sono il regno della chimica, in mano a poche aziende multinazionali, e lì dentro, lo dico senza freni, ci sono le peggio porcherie. Ci sono sostanze estremamente cancerogene e i lavoratori ne pagano il prezzo più alto, perché non hanno sistemi di sicurezza e nessuna precauzione. Anche la lavorazione della pelle, ad esempio, è molto inquinante.

Quindi ci sono fasi della lavorazione più difficili da ripulire?

Fare una zip di un pantalone si porta dietro l’uso di metalli pesanti che sono molto problematici dal punto di vista ambientale; allo stesso modo è difficile eliminare il cromo dalla lavorazione della pelle. Dal 2011 siamo riusciti a sensibilizzare diversi marchi, e circa il 15 % della produzione globale ha aderito ai nostri standard. Oggi poi ci sono tante piccole e medie imprese che hanno messo in piedi sistemi di tracciabilità basati sulla nostra campagna, per cui anche i grandi marchi loro clienti se non hanno aderito formalmente a Detox hanno una produzione responsabile.

Leggevo dai vostri report che tante di quelle aziende sono italiane.

Vero, nelle nostre PMI c’è una grande capacità di innovazione, e quando gli imprenditori si sono resi conto che non potevano competere coi costi di manodopera dei Paesi del Sud del mondo hanno deciso di distinguersi per qualità. E oggi, per fortuna, qualità e sostenibilità vanno a braccetto. Attualmente abbiamo una bella collaborazione in atto con diverse aziende nel distretto tessile di Prato. Lì ci sono realtà che forniscono Burberry, Gucci e Prada; hanno cominciato a fare Detox e hanno sorpreso i loro grandi clienti. Immaginiamo Prada, ad esempio, poco attiva dal punto di vista della sostenibilità chimica, che si ritrova il piccolo fornitore di otto dipendenti che all’improvviso produce in maniera sostenibile.

Questo cambia tutte le regole del gioco.

Certo, perché dimostra che, se le piccole imprese possono essere sostenibili, anche le grandi non devono essere da meno: ad oggi, per esempio, alcune piccole imprese si sono attivate con un Chemical manager, una figura che in alcune grandi imprese ancora manca. Allo stato attuale, su 80 aziende virtuose, 60 sono italiane, e c’è da considerare un altro effetto: se le PMI che forniscono i grandi marchi seguono la sostenibilità, anche Gucci, Prada e Armani si ritrovano con un prodotto sostenibile. Il cambiamento è in atto e ha un effetto domino, ma le difficoltà sono ancora tante.

Se sulla chimica abbiamo fatto molti passi avanti. Dove dobbiamo ancora migliorare?

Il grosso problema è legato alla produzione mastodontica di capi di abbigliamento. Il fast fashion e l’ultra fast fashion dovrebbero essere fuori dal mercato. Dal 2000 al 2015 abbiamo raddoppiato la produzione di vestiti in tutto il mondo. Compriamo molti più abiti, ma li utilizziamo per meno tempo. Quindi da una parte servono le leggi, e le norme europee ci aiuteranno, anche perché di solito producono un effetto domino su scala globale, ma dall’altra parte bisogna sensibilizzare la popolazione e farle scoprire che cosa c’è dietro questo mondo. Dietro le etichette e i cartellini c’è una trafila che dobbiamo conoscere: se tutti sapessero che servono 2.700 litri di acqua per produrre una semplice maglietta forse ci penserebbero due volte prima di acquistarla. Il settore tessile costa tantissimo alla nostra salute e a quella del pianeta, e fa man bassa di risorse. Shein, ad esempio, produce una collezione al giorno, e questo sistema consuma con voracità materie prime non rinnovabili. Oggi gran parte del materiale che si usa nel tessile è composto di fibre sintetiche derivate dal petrolio (poliestere, acrilico), e quella è roba che non si ricicla. I numeri sono spaventosi: ribadisco che per fare una maglietta serve il quantitativo di acqua che noi beviamo in due-tre anni, e ci sono magliette che arrivano sul mercato a due euro.

 

Acque reflue industriali contenenti sostanze chimiche pericolose scaricate nel fiume Cihaur, un affluente del fiume Citarum a Giava. Foto@Greenpeace
Acque reflue industriali contenenti sostanze chimiche pericolose scaricate nel fiume Cihaur, un affluente del fiume Citarum, a Giava. Foto@Greenpeace

 

E questa immagine spiega bene l’impatto che il tessile ha sull’intero pianeta.

Il settore tessile secondo alcune stime, è responsabile dell’8-10% delle emissioni di gas serra. In sostanza contribuisce al surriscaldamento globale più del settore aereo e marittimo messi insieme. Poi oggi parlano tutti di economia circolare, ma la realtà è che solo l’1% dei vestiti in tutto il mondo viene prodotto a partire da abiti riciclati.

Tutti oggi fanno campagne di riciclo, penso ad esempio a H&M che fa portare i vestiti usati (anche non loro) per poi offrire un buono sconto. Sono tutte bufale?

Solo il 3 % di tutto il tessile è circolare e solo l’1% degli abiti viene fabbricato a partire da vestiti vecchi. Per quando riguarda H&M, ricordo bene che in Danimarca sono stati beccati buttare gli abiti vecchi negli inceneritori, altro che riciclo. Comunque, in generale, quando un capo di abbigliamento arriva a fine vita viene riprocessato e vengono ottenute fibre di peggior qualità, che trovano applicazione nelle imbottiture dei divani o nei pannelli fonoassorbenti. E alla fine di quella vita il tessuto è di qualità così infima che non lo ricicli più. Si parla tanto di circolarità, ma la circolarità nel tessile è un miraggio. Un camion di rifiuti tessili, al ritmo di uno al secondo, ogni giorno, finisce in discarica o all’inceneritore.

È una quantità mostruosa.

Con Greenpeace abbiamo analizzato le etichette per capire la reale sostenibilità di alcuni marchi e ci siamo resi conto che spesso le loro campagne sostenibili sono pure operazioni di marketing non supportate da dati reali. H&M, Zara e Benetton hanno delle linee sostenibili, ma sono linee autoprodotte e non controllate da un ente di certificazione esterno. H&M in particolare ha la linea “Conscious”, ma conscious di che? Che cosa stiamo misurando? In realtà sono tutte iniziative di greenwashing che servono a vendere una falsa percezione, mantenendo inalterato il modello di business.

La strategia europea per i prodotti tessili definisce però alcune direttrici importantissime.

L’Europa sta facendo un bel lavoro. Entro il 2030 i prodotti dovranno essere riciclabili, di lunga durata, realizzati il più possibile con fibre riciclate, privi di sostanze chimiche pericolose e prodotti nel rispetto dei diritti sociali e dell’ambiente. In particolare, una delle strategie più importanti è l’ecodesign, che impone di disegnare i prodotti in modo tale che siano riciclabili a fine vita. Se leggiamo le etichette della maggior parte dei nostri vestiti vediamo che contengono sempre un mix di fibre, ma il mix di fibre è già un deterrente al riciclo. Anche i jeans, che prima erano solo di cotone, ora hanno l’elastam (una fibra sintetica di poliuretano molto utilizzata per elasticizzare i tessuti) che non li rende riciclabili. Il maglione va progettato pensando già a come sarà riciclato, e acquistare un capo che sia di un unico materiale è già un passo avanti. Inoltre è assolutamente necessario allungare il ciclo di vita dei prodotti. La fast fashion dovrebbe essere eliminata, e se arriveranno le regole europee tutti quei marchi (anche i cinesi) dovranno adeguarsi se non vogliono perdere il mercato del Vecchio Continente.

Io non compro fast fashion, ma non riesco sempre a essere morigerata negli acquisti. Però poi penso di non fare troppi danni perché, una volta che non posso o non voglio più indossare un capo, lo metto nei raccoglitori della Caritas, oppure lo consegno a un’associazione che porta beni di prima necessità in Romania. Ma ora che ti ascolto mi chiedo: se in quei Paesi non c’è un buon sistema di riciclo, faccio un danno ancora più grande?

L’anno scorso siamo andati a documentare che fine fanno i vestiti europei che, una volta usati, prendono la via dell’Africa (Ghana, Kenya e Tanzania). Lì le persone li comprano a blocchi, acquistano 10 kg di vestiti a sorpresa da un container, e molto spesso sono di qualità talmente bassa da non poter essere utilizzati, così le persone li abbandonano creando vere e proprie discariche. Li abbiamo chiamati “poisoned gift”, regali avvelenati che finiscono nelle discariche a cielo aperto. Noi pensiamo di far bene, di regalare a chi ha bisogno, invece spesso doniamo solo inquinamento.

 

Discarica tessile nel deserto di Atacama in Cile, vestiti vecchi importati dall'Europa, dall'Asia e dagli Stati Uniti. Foto@Greenpeace
Discarica tessile nel deserto di Atacama in Cile, vestiti vecchi importati dall'Europa, dall'Asia e dagli Stati Uniti. Foto@Greenpeace

 

Dacci qualche consiglio, perché è davvero difficile districarsi in questa giungla.

Dobbiamo seguire poche regole basilari: comprare abiti di buona qualità, mono-fibra, e cercare di farli durare il più possibile. Questo implica diffidare del fast fashion, perché non è a misura di pianeta. Inoltre, dovremmo preferire capi fatti con fibre riciclate. Il pacchetto europeo di cui parlavamo prima prevede anche il passaporto digitale del prodotto, e quando verrà approvato i consumatori potranno fare acquisti consapevoli con facilità. Ci sarà un QR code che ci dirà vita, morte e miracoli di quel vestito; da chi è prodotto, dove, con quali materiali, con che sostanze. E la trasparenza è già un incentivo a fare le cose per bene.

 

 

 

Foto di copertina: Rifiuti tessili e plastici nella discarica di Dandora a Nairobi. Cicogne Marabow intorno. Vestiti usati e nuovi vengono inviati in Kenya dall’Europa e dalla Cina per essere venduti come cosiddetti “Mitumba”, ma spesso finiscono come discarica e smaltimento dei rifiuti a causa dell’enorme quantità. Foto@Greenpeace

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