Riccardo Cucchi, le mie prime volte “minuto per minuto”

Non si poteva scegliere giorno migliore: il 10 gennaio, anniversario (il 58°) della prima, storica puntata di Tutto il calcio minuto per minuto. Per un pomeriggio il telefono veste i panni della vecchia radiolina, fedele compagna di tante domeniche pomeriggio dell’adolescenza. Giunge l’inconfondibile voce di Riccardo Cucchi. Per una volta non devo dividerla con altri […]

Non si poteva scegliere giorno migliore: il 10 gennaio, anniversario (il 58°) della prima, storica puntata di Tutto il calcio minuto per minuto. Per un pomeriggio il telefono veste i panni della vecchia radiolina, fedele compagna di tante domeniche pomeriggio dell’adolescenza. Giunge l’inconfondibile voce di Riccardo Cucchi. Per una volta non devo dividerla con altri milioni di appassionati: è un privilegio tutto mio. No, niente radiocronache. Ma il racconto di una bella storia, lunga 65 anni, fatta di calcio, giornalismo, emozioni e prime volte. Tante prime volte.

Quasi un anno fa, il 12 febbraio 2017, Riccardo Cucchi ha salutato la celebre trasmissione radiofonica per lasciare spazio alle nuove leve. E per dedicarsi a tante passioni accantonate nel tempo. Prima che il richiamo del calcio e la corte di mamma Rai lo indirizzassero verso una nuova avventura: in tv, alla conduzione della Domenica Sportiva, un altro pezzo di storia del giornalismo sportivo di casa nostra. L’ultimo capitolo, in ordine di tempo, di una carriera passata a regalare emozioni ai tifosi di tutta Italia.

Partiamo quasi dalla fine. Dopo oltre 35 anni, il 19 febbraio 2017, Tutto il calcio minuto per minuto va in onda per la prima volta senza Riccardo Cucchi. O meglio, Riccardo Cucchi non è in postazione per Tutto il calcio minuto per minuto. Com’è stata quella domenica?

Sicuramente diversa dalle altre, passata senza un microfono in mano. Diciamo che è stato un salto all’indietro, mi sono ritrovato nuovamente nei panni dell’ascoltatore. Come quando lo facevo da ragazzo. Ascoltare la trasmissione senza esserci dentro è stato divertente, ma anche coinvolgente. Nostalgia? Quella no, sono convinto che ci sia un tempo per ogni cosa e bisogna capire quando è il momento di cambiare o di lasciare.

Riavvolgiamo il nastro. La vera prima volta, cioè quando è nata la passione per il giornalismo.

È nata insieme alla passione per il calcio e per la radio. Io sono nato nel 1952 e quando ero ragazzo non potevo contare su tutti gli strumenti di oggi. Tutto il calcio minuto per minuto era uno dei pochi modi, e all’inizio trasmetteva solo i secondi tempi delle partite. Io mi rinchiudevo nella mia stanza, ascoltavo le voci di Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Roberto Bortoluzzi, Alfredo Provenzali, e sognavo i campi di gioco. Sognavo di fare un giorno questo mestiere. Ora posso dire di essere stato fortunato a coronare il mio desiderio di bambino.

Quando il sogno di Riccardo Cucchi ha cominciato a diventare realtà?

Piuttosto tardi. Prima ho studiato, mi sono laureato in Lettere e nel frattempo portavo avanti delle collaborazioni. Anche allora era difficile accedere alla professione, io non avevo raccomandazioni o un papà potente che era nel mondo del giornalismo. Stavo già insegnando nei licei quando nel 1979, in occasione della nascita della terza rete tv, la Rai bandì un concorso riservato ai laureati. Presi parte e lo vinsi. Il capo della commissione d’esame era Sergio Zavoli, il quale mi chiese quale fosse il mio sogno in caso di assunzione: gli dissi che volevo raccontare il calcio alla radio. Feci i corsi di formazione e iniziai questa avventura.

Cosa voleva dire essere un giovane giornalista Rai all’inizio degli anni ’80?

In quel periodo l’azienda era molto severa nella preparazione, direi giustamente. Anzi, a volte bisognerebbe tornare a quei tempi. Prima di andare in onda, un giornalista doveva essere adeguatamente formato. Basti pensare che il nostro insegnante di dizione era Arnoldo Foà, uno dei grandi attori dell’epoca, e devo a lui e alla sua severità la perdita del mio accento romano. In più eravamo sottoposti a difficili prove pratiche, come raccontare una foto in diretta con una telecamera puntata sulla faccia o improvvisare un servizio. In più venivamo mandati nelle sedi regionali a farci le ossa, e a me capitò Campobasso.

Appunto, Campobasso. La cittadina molisana non ha lasciato segni indelebili nel calcio che conta, ma sicuramente ne ha lasciati nel cuore di Riccardo Cucchi.

Sì, la mia prima radiocronaca, nell’agosto del 1982. Fu un altro colpo di fortuna. C’era Campobasso-Fiorentina di Coppa Italia, il designato Ezio Luzzi si ammalò. Fui chiamato da Mario Giobbe, che fino ad allora conoscevo solo da spettatore. Mi chiese se me la sentissi di andare in onda e accettai con entusiasmo. Iniziai raccontando una partita incredibile, finita con la clamorosa vittoria del Campobasso contro una Fiorentina piena di campioni: 1-0 con un gol di D’Ottavio, molisano doc. Da lì è partito il percorso, passato poi dalla Serie B, dalla pallavolo, dal basket, fino alla Serie A.

Ecco un’altra prima volta. Il 3 ottobre 1982 l’esordio in Serie A, a seguire la Roma, il colmo per un tifoso laziale…

Fui mandato all’Olimpico per Roma-Ascoli. Ricordo che a fine partita il presidente marchigiano Costantino Rozzi si arrabbiò molto per le decisioni arbitrali. L’esordio con la Roma, contro l’Ascoli allenato da Carlo Mazzone, nella stagione che si chiuse con lo Scudetto giallorosso. Sì, davvero il massimo per un laziale come me. Ora posso riderci su, ma durante la carriera ho sempre tenuto nascosta la mia fede calcistica, non ho mai voluto farla capire. Un radiocronista, per giunta del servizio pubblico, dovrebbe mantenere il giusto distacco per rispetto degli ascoltatori. Comunque, questo fatto mi ha fatto venire in mente un episodio.

Quale?

Ai tempi in cui era presidente della Lazio, Gianmarco Calleri un lunedì mattina telefonò a Mario Giobbe per lamentarsi della mia radiocronaca della partita del giorno prima a Genova, contro la Sampdoria. Disse le testuali parole: “Mario, quando la pianti di mandarmi dei romanisti a fare la radiocronaca?”. Giobbe si fece una risata e gli confessò “Guarda che Riccardo Cucchi è laziale”. Effettivamente, a volte, per mantenere il distacco si rischia anche di essere più severi.

Nel 2000 però può annunciare che la Lazio è Campione d’Italia!

Fu una domenica strana, avevamo scelto Perugia come campo principale perché eravamo convinti di dover raccontare lo Scudetto della Juventus. Invece arrivò quella specie di diluvio universale a cambiare tutto. A distanza di anni posso dire che neanche il più abile narratore di noir sarebbe stato capace di scrivere una trama così avvincente. Fu davvero straordinario dal punto di vista narrativo. Seppi poi da mio figlio, che quella domenica era all’Olimpico, che la mia radiocronaca era stata trasmessa in diretta tramite gli altoparlanti dello stadio, con la gente ferma sugli spalti in attesa di capire che cosa sarebbe successo: 90 mila persone che pendevano dalle mie labbra. Per me fu una soddisfazione enorme, ma cercai di soffocare la tentazione di andare oltre il limite, anche per rispetto degli juventini. In particolare per il loro allenatore Carlo Ancelotti, una persona a cui ho sempre voluto bene. Mi dispiacque molto per lui.

Che calcio era quello? Da appassionato e da addetto ai lavori.

Era un calcio di grande qualità e straordinari professionisti: i vari Platini, Maradona, Van Basten, Gullit, Baggio. Ogni tanto mi fermo a pensare su che cosa ho raccontato, quanti grandi calciatori ho visto da vicino. In quegli anni il gioco era meno tattico, meno fisico e anche meno polemico. Oggi è tutto troppo eccessivo. Da giornalista? Basta dire che la domenica mattina noi avevamo una trasmissione, su Radio 2, durante la quale andavamo negli alberghi delle squadre. A mezzogiorno intervistavamo in diretta uno degli allenatori, il quale spesso ci dava anche la formazione. Tutte queste cose oggi sono soggette a contratto. Si viaggiava sugli aerei con le squadre e c’era un rapporto diverso con i giocatori. Non c’erano tutti i filtri di oggi, che forse in parte sono necessari. Tutt’ora i miei amici sono i calciatori del passato, gente come Tardelli e Brio, quasi miei coetanei.

Anni ’90, un’altra prima volta. Riccardo Cucchi diventa la prima voce di Tutto il calcio minuto per minuto, succedendo a Sandro Ciotti.

Un motivo di orgoglio, ma anche di grande responsabilità. Sapere che dopo Carosio, Ameri e Ciotti sarebbe toccato a me portare avanti la tradizione. Farsi carico della qualità, del ritmo, dell’onesta intellettuale della trasmissione. I primi tempi mi chiedevo “Sarò all’altezza di non far rimpiangere i miei predecessori?”

Si apre anche il capitolo con la Nazionale, durato a lungo e impreziosito dall’apoteosi del 2006.

Per un radiocronista, andare a seguito della Nazionale è l’obiettivo più grande. Nel 1994 Ciotti mi ha lasciato anche questo timone ed è iniziata un’avventura durata 20 anni, coronata dal racconto del Mondiale vinto in Germania. Come Carosio nel 1934 e nel 1938 e Ameri nel 1982, raccontare quel trionfo azzurro fu incredibile per me. Come incredibile fu tutto quello che accadde in quel 2006. A distanza di tempo posso dire che per me i veri protagonisti di quell’impresa furono i calciatori della Juventus. Arrivavano da un momento difficile per lo scoppio di Calciopoli, ma seppero trasformare quella grande rabbia agonistica in qualità. Penso che i loro meriti non siano mai stati analizzati fino in fondo come avrebbero meritato.

Dopo 20 anni il nuovo passaggio di testimone.

Avrei potuto ancora continuare a seguire la Nazionale, ma ho pensato che fosse giusto dare il meritato spazio ai colleghi più giovani, come Francesco Repice che tutt’ora racconta le gesta degli azzurri. Non sono mai stato dell’idea di voler occupare un posto fino all’ultimo giorno impedendo agli altri di crescere. Inoltre dal 2008 ero diventato capo redattore, un’altra responsabilità che non mi aspettavo e che mi ha riempito d’orgoglio. Ho avuto la possibilità di ripercorrere la strada di maestri come Giobbe e Moretti da cui ho imparato molto. Si è trattato di un passaggio importante, emotivo. Non ho mai voluto considerarmi come un capo, ma come un capitano giocatore: per questo mi sono sempre tenuto un piccolo spazio per andare sui campi la domenica. Ho pensato fosse giusto essere parte attiva. Il ruolo di giornalista si basa sulle individualità, ma è necessario avere la squadra. Direi “uno in mezzo agli altri”.

Da allievo a maestro, pronto a insegnare alle nuove leve. Che differenze ci sono tra i giovani giornalisti di ieri e di oggi?

I ragazzi di oggi hanno una maggiore preparazione, sono laureati, parlano più lingue, hanno seguito corsi di formazione giornalistica, hanno le conoscenze tecnologiche e più fonti da cui trovare le notizie. Ma manca il “fare”, il classico apprendista che mette il naso nella bottega, sporcandosi le mani e cercando di rubare i segreti al maestro. Troppo spesso manca questo aspetto artigianale che non viene più insegnato e anche l’aspetto umano a volte è carente.

Tra le conoscenze moderne ci sono anche quelle dei social network.

Prendo spunto da quello che Karl Popper diceva in Cattiva maestra televisione, cioè che la tv non è di per sé buona o cattiva, dipende da come si usa. Per i social è lo stesso. Se usati bene sono straordinari, un vero arricchimento, ma se usati male sono diabolici. Certamente sono molto utili per noi giornalisti perché possiamo trovare di tutto e hanno valorizzato enormemente il patrimonio di memoria. Ma al tempo stesso hanno dato a tutti la titolarità per parlare, il filtro è meno rigoroso e si può passare in fretta dal dialogo all’insulto. Inoltre possono essere un pretesto per la pigrizia; io non credo al giornalismo da desk che piace agli editori. Io credo che i cronisti debbano muovere il sedere dalla scrivania per cercare le notizie.

Mondiali e Olimpiadi: il massimo per un giornalista. Differenze viste da chi ne ha seguite tante?

Anche sotto questo aspetto posso definirmi fortunato: ho potuto seguire nove Olimpiadi, conoscere altre discipline, atleti e persone. Il calcio è il mio sport da sempre, ma ho avuto modo di scoprire altre discipline di cui mi sono innamorato, come la scherma. Ogni esperienza con gli altri sport è stata un arricchimento per il mio lavoro.

L’ultima prima volta di Riccardo Cucchi. In tv, alla Domenica Sportiva.

Un ruolo non previsto. Avevo deciso di chiudere lo scorso febbraio perché era giunto il momento. Pensavo di iniziare una vita diversa, dandomi alla scrittura e alla musica, le mie grandi passioni. Ma nel frattempo la Rai mi ha cercato. Non ero convinto, i tempi e i linguaggi sono diversi da quelli della radio, compresa la presenza scenica. In radio conta la sostanza, in tv l’immagine. Ma dopo lunghe pressioni ho accettato. Diciamo che è un’esperienza nuova per imparare. Per ora mi sto divertendo, ma amo di più la radio, la trovo più emozionante. Non mi piace questa esigenza per cui se non si alza il tono della voce e della polemica non si fanno ascolti. Conta cosa si dice, non come.

Da innamorato, che futuro vede per la radio?

Avrà lunga vita, soprattutto per la stanchezza che il pubblico inizia a provare per la tv generalista. E vedo un futuro roseo anche per lo sport in radio. Quando nel calcio sono arrivati gli anticipi e i posticipi del campionato in molti pensavamo che si dovesse pagare un dazio. Invece non è avvenuto: ci sono poche partite la domenica pomeriggio, ma la radio c’è sempre. Anzi, alla fine queste suddivisioni hanno aiutato, accrescendo nei tifosi una fame di calcio che la televisione da sola non può soddisfare. La radio ha sopperito a questa mancanza, subentrando quando la tv non c’è. Paradossalmente, oggi sarebbe più difficile per la radio trovare un suo spazio se le partite fossero tutte in contemporanea.

Il 2017 è stato l’anno di un’altra prima volta: il Var. Si dice che spezzi le emozioni. Per la radio vale di più?

Io sono favorevole al Var, anche se deve essere perfezionato. Sta cambiando culturalmente il modo di essere spettatore, ma anche di chi deve raccontare il calcio. Forse si perde spontaneità, ma vale la pena smorzare un po’ di entusiasmo per limitare il numero di errori. Se l’obiettivo è questo, ben venga l’attesa. L’entusiasmo alla notizia del gol viene diminuito, ma pensiamo a quante polemiche in meno avremo, anche se temo non si elimineranno mai. Il calcio non sarà mai perfetto, però è giusto puntare su tutto ciò che può limitare gli errori.

Ultima cosa. In quasi 40 anni Riccardo Cucchi ha mai pensato a quante persone ha tenuto compagnia la domenica?

Tutto il calcio minuto per minuto ha avuto la capacità di reinventare la radio e rendere il calcio popolare. Soprattutto negli anni ’60, quando il calcio si vedeva allo stadio o sui giornali il lunedì. L’ha trasformato in un fenomeno sociale, in un romanzo popolare a puntate. Abbiamo tenuto compagnia a tantissime persone. Come disse una volta Candidò Cannavò, siamo stati la colonna sonora delle domeniche degli italiani. Ognuno di noi ha un episodio della propria vita legato a questa trasmissione. Molte persone che incontro mi dicono che abbiamo accompagnato la loro infanzia. Solo la radio può creare questo rapporto diretto tra chi racconta e chi ascolta. È stato così e continuerà a esserlo.

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