Riti del colloquio, ritmi delle aziende

Hard e soft skills, saper essere e saper fare, know-how e attitude. Esistono diversi modi per distinguere le competenze tecniche da quelle trasversali e riuscire a farlo dovrebbe essere tra le priorità di chi, oggi, si approccia al mercato del lavoro alla ricerca di una svolta professionale. Che esista una netta differenza tra soft e […]

Hard e soft skills, saper essere e saper fare, know-how e attitude. Esistono diversi modi per distinguere le competenze tecniche da quelle trasversali e riuscire a farlo dovrebbe essere tra le priorità di chi, oggi, si approccia al mercato del lavoro alla ricerca di una svolta professionale. Che esista una netta differenza tra soft e hard skills e che i processi di selezione del personale si basino in larga parte sulla loro valutazione, non è una novità: pur tenendo in considerazione le differenze tra il mondo HR statunitense e quello italiano, sono ormai passati sei anni dalla pubblicazione, da parte di Mark Murphy, di Hiring for Attitude, compendio in salsa pop delle tecniche di valutazione delle competenze trasversali. Quindi tutti noi, dai recruiter ai direttori del personale, dagli outplacer ai candidati, abbiamo imparato la lezione e maneggiano l’argomento con disinvoltura. Vero? No, niente affatto.

“Che la nostra azienda non fosse il posto adatto a quella persona emergeva con chiarezza quando il gruppo decideva di prendere una pausa: una manciata di minuti a cui dedicare un caffè, una sigaretta. Lui non prendeva mai parte a quei momenti” mi racconta al telefono E.F., direttore del personale di un’azienda milanese del settore automotive. “Preferiva rimanere chiuso in ufficio e fare un break da solo. Al rientro del gruppo, il ritmo del lavoro era cambiato, la sinergia del team si era rinfrescata, l’intesa era rinvigorita e lui era rimasto escluso da questa trasformazione. Questo aveva un impatto notevole sull’avanzamento del progetto e il rispetto delle tempistiche del cliente”. Quando gli chiedo come l’azienda avrebbe potuto prevenire il problema, E.F. mi risponde “Con un processo di selezione diverso, più attento al match tra la personalità dei candidati e quella del nostro team di progettisti”.

Ritenere che il bagaglio tecnico e l’esperienza del professionista trascendano le capacità trasversali di comprensione della ritualità presente nel nuovo posto di lavoro e di ascolto del ritmo creativo del team di appartenenza, continua a rivelarsi un errore sia da parte di chi seleziona che di chi si candida. Sostenere che le competenze tecniche siano di serie A e che quelle trasversali siano di serie B è la strada più veloce per la frustrazione professionale di tutte le parti coinvolte nel processo di inserimento in azienda di un neoassunto. Attenzione: non si tratta solo di analizzare il brand aziendale con una ricerca su Google e di coglierne l’immagine social per potersi fare un make-up su misura. Un discorso sul ritmo del gruppo di lavoro prende le mosse dalle pieghe quotidiane e riguarda gestualità piccole, condivisioni aneddotiche, energie impalpabili e impossibili da cogliere con un’occhiata superficiale, eppure fondanti dell’attività professionale e, il più delle volte, determinanti per il proprio successo sul posto di lavoro.

Non si pensi, inoltre, che sia solo una questione d’età: l’inserimento collaborativo in un team di lavoro precostituito può diventare un ostacolo sia per i dirigenti over 50 che per i millennials alle prime armi: lo spirito di adattamento dei giovani – supposto o effettivo che sia – fa poca differenza. S.M., responsabile di una società di servizi di Torino, racconta la difficoltà riscontrata durante la ricerca di una stagista da inserire nell’ufficio amministrativo: “Non erano richieste specifiche competenze tecniche, perché cercavo una giovane risorsa da formare internamente. Uno standing adeguato al contesto e una buona dose di entusiasmo erano sufficienti per passare all’unico test che fosse davvero determinante: l’impatto con il mio team di lavoro.” E a quel punto? “Assistevo ad una battuta d’arresto. Nonostante l’impegno del gruppo nell’accoglienza della potenziale nuova collega, molte delle candidate ritenevano che i vari membri della squadra fossero semplicemente da conquistare o impressionare, altre ritenevano che contasse solo il mio parere sulla loro performance, ma la maggior parte delle ragazze sembrava del tutto inconsapevole dell’importanza dell’ascolto e dell’osservazione della dinamica del gruppo, dell’esistenza di un ritmo da cogliere e su cui provare ad assestarsi, portando gradualmente la propria impronta”.

Le strategie di valutazione durante i colloqui

Sempre più consapevoli dell’importanza delle competenze trasversali nel processo di inserimento in un team di lavoro, le procedure di selezione più attente adottano strategie per valutare il match tra il candidato e il gruppo. Una tra tante: il mirroring.

“Il mirroring è un meccanismo che ci riguarda tutti, al lavoro e nella vita privata, ma spesso non ce ne rendiamo conto” spiega G.T., professionista dell’Outplacement. “Si tratta della naturale tendenza, in alcune persone più spiccata che in altre, a rispecchiare i modi di fare e le modalità comunicative del nostro interlocutore, in modo da rendere più efficace la relazione. Il segreto è non copiare grottescamente l’altro, ma riconoscere la frequenza su cui si muove: immaginiamo di dover distinguere il ritmo dei bassi all’interno di una canzone e seguirlo danzando. Così, per selezionare un professionista che potrebbe entrare a far parte di un team molto formale e che funziona basandosi su una certa rigidità relazionale, un recruiter può adottare uno specifico tipo di prossemica per osservare la reazione del candidato. Se, nonostante la riservatezza del selezionatore, il candidato occuperà con il busto metà della scrivania, scherzerà, farà domande private e chiederà di darsi del tu, alla fine dell’incontro sarà chiaro che quella persona e il team di riferimento faticherebbero a lavorare insieme, a prescindere dalle competenze tecniche messe in campo.”

Esistono, poi, indovinelli, quiz, test psicologici e domande trabocchetto escogitate proprio per valutare alcune capacità personali, posti anche da colossi del calibro di Google Inc e Amazon.

Ad esempio, Quante palline da tennis crede possano stare nella Torre di Pisa? è una domanda che ricerca la sua risposta nella forma e non nel contenuto, nella reazione piuttosto che nell’esattezza del calcolo – che, comunque, di certo non guasta. Sorridere e ammettere di essere in difficoltà, chiedere in prestito un foglio e una penna per prendere appunti, ragionare a mente o ad alta voce, infastidirsi e rispondere con sarcasmo, ammutolirsi o cercare la risposta su Wikipedia, sono tutte reazioni che svelano il portfolio delle nostre competenze trasversali e suggeriscono in quale tipologia di quotidianità potremmo inserirci con maggior soddisfazione.

Certo, fare un bilancio delle nostre soft skills ed essere sinceri con noi stessi rispetto a come sappiamo e non sappiamo essere, oltre che valutare ciò che sappiamo o non sappiamo fare, è il miglior modo per cominciare. Conoscere le strategie utilizzate in sede di colloquio può dare un supporto e allenarsi all’ascolto del ritmo degli altri è cruciale, ma ricordiamo sempre la buona notizia: vestire i panni di chi non siamo è una fatica improba, destinata al fallimento. La nostra personalità, nel tempo, desidererà fare capolino e portare un contributo insostituibile al nostro lavoro. Infiliamoci in tasca, dunque, anche una piccola e sana dose di fatalismo: a parità di competenze tecniche, non siamo tutti ugualmente adatti a ricoprire lo stesso ruolo.

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