Rivoluzione coronavirus: lavorare da casa senza vergognarsi del privato

Non abbiamo fatto in tempo ad attrezzare le aziende che abbiamo dovuto lavorare sulle abitazioni. Eppure, fino a qualche mese fa, quella di attrezzare una postazione per le videochiamate in azienda era un progetto più velleitario di quello di Samuele Bersani di “esportare in India la piadina romagnola”. Capitava spesso – che strano parlare al […]

Non abbiamo fatto in tempo ad attrezzare le aziende che abbiamo dovuto lavorare sulle abitazioni. Eppure, fino a qualche mese fa, quella di attrezzare una postazione per le videochiamate in azienda era un progetto più velleitario di quello di Samuele Bersani di “esportare in India la piadina romagnola”. Capitava spesso – che strano parlare al passato delle nostre vite in azienda – di dover cercare, muniti di laptop, spazi silenziosi, illuminati, possibilmente di design (piante grasse e oggetti feng shui sempre graditi) per un collegamento Skype. Ma si trattava il più delle volte di soluzioni improvvisate: alzi la mano chi ha avuto in dotazione dalla propria azienda, oltre a un pc e a un telefono, un microfono, una videocamera, una buona cuffia in grado di attutire i rumori provenienti dall’esterno. Self smart made man.

Ci si è organizzati, in un’epoca in cui fare una call era un buon pretesto per concludere le conversazioni con l’ormai vintage: “Quando passi da Milano ci prendiamo un caffè e ne parliamo di persona”. Come se quella della chiamata su Skype fosse una soluzione surrogata, non una possibilità in più per abbattere le distanze, entrare nel merito di progetti grazie a uno schermo condiviso, fare brainstorming, evitare di passare ore sulla tangenziale imbottigliati nel traffico. Non è un caso che le app più scaricate da qualche settimana a questa parte si chiamino Zoom, Teams, Houseparty, Gotowebinar, Meet, e appunto Skype. Molti professionisti non le avevano nemmeno sul proprio smartphone. Ma se per scaricare una app ci vogliono meno di due minuti, per acquisire un’attitudine c’è spesso bisogno di una rivoluzione. Che, inaspettatamente, è arrivata. Ed è una rivoluzione sì tecnologica, ma anche culturale. Sociale.

 

La rivoluzione delle videochiamate, improvvisa e necessaria

Proprio quando abbiamo iniziato a usare seriamente gli strumenti di videoconferenza – che soddisfazione dirlo in italiano – abbiamo aperto le porte delle nostre abitazioni ai nostri capi, ai clienti, ai fornitori, ai dipendenti. Quella famosa postazione per le videochiamate, da allestire in azienda, dovrà aspettare ancora un po’; nel frattempo continueremo a mostrare, senza troppo pudore, il nostro privato. Gli studi professionali dei più fortunati (quelli che non devono condividere gli spazi lavorativi con nessuno), le camerette dei manager rientrati nelle case dei ragazzi che non sono più, le librerie – c’è sempre una libreria Ikea nelle call che contano –, le cucine di chi è stato spodestato da una compagna che ha una chiamata più importante.

Persino la domanda “dove sei?”, all’inizio della chiamata, assume tutto un altro significato. Se fino a poco tempo fa era una scusa molto simile a quella del tempo – a proposito, avete notato che nessuno usa più il meteo come conversation starter, eppure parliamo del re della conversazione di circostanza? –, oggi si tratta soltanto di capire in quale stanza della casa siamo, mentre è totalmente indifferente, almeno fino all’arrivo ormai prossimo della bella stagione e dei terrazzi per chi ha la fortuna di averli, che l’interlocutore sia a Milano, Roma, Torino o Posillipo.

La call è una livella: come sono i lontani i tempi degli startupper che si collegavano (o facevano finta di farlo) dalle spiagge delle Maldive. Così come il meteo si è pian piano ritirato dalla letteratura, e in qualche modo si è trasformato, passando da minaccia imprevedibile, “era una notte buia e tempestosa” a quotidiano argomento di conversazione (a tal proposito consiglio un bellissimo articolo di Davide Coppo da cui è tratta questa citazione), allo stesso modo il nostro privato è passato, molto più rapidamente in verità, da essere complemento della videochiamata a diventare assoluto protagonista.

 

Videochiamate: e se ci stessimo prendendo gusto?

In un video di qualche anno fa, poi diventato virale, il giornalista della BBC Robert Kelly sta pontificando dal suo studio mentre irrompono i due figli, uno dei due addirittura nel girello. La scena diventa un tormentone social anche grazie alla madre, costretta ad arrivare in tackle scivolato sui due piccoli, onde evitare che possano disturbare il padre durante il collegamento televisivo.

Oggi reagiremmo allo stesso modo davanti a immagini come quelle? Ci farebbe tanto ridere l’irruzione di due bambini in uno studio di un padre collegato con la più prestigiosa emittente nazionale? Certamente no. A nessuno in questi giorni verrebbe in mente di lamentarsi perché il nostro interlocutore, magari la brand manager della multinazionale di turno, deve accendere il microfono di Skype o Meet solo se chiamata in causa mentre i bambini urlano o guardano i cartoni in TV. E tutti ci stiamo abituando a un fenomeno chiamato videobombing: il compagno o la compagna che entrano involontariamente nella call di progettazione, il cane che non ne vuol sapere di stare al suo posto, i bambini che sentono il bisogno di leggere ad alta voce il nome dell’interlocutore: il CEO dell’azienda. E chissà che non ci si sia resi conto che tutto questo – al netto della tragedia che stiamo vivendo, qui proviamo a concentrarci solo sull’aspetto professionale – vale molto di più di tante presunte facilities aziendali come l’asilo, la palestra, la babysitter, il campetto da calcio; ma l’importante è che durante il lavoro ‘sti figli non si palesino mai.

E se scoprissimo, all’improvviso e in un momento di lucidità, che tutto questo ci piace? Che parlare con un collega, o con un cliente, e perché no anche con il capo, e ammettere che a un certo punto possa palesarsi un bambino, un gatto, un compagno distratto che chiede a che ora si mangia, migliora la conversazione, la alleggerisce; cosa succederebbe? Lavorare da casa senza vergognarsi del privato potrebbe diventare una possibilità.

 

Tornare alla normalità e portare un po’ di casa nell’ufficio (non viceversa)

Quando questo periodo sarà alle spalle, speriamo presto, potremo valutare i pro e i contro di molte cose, anche di quelle apparentemente meno importanti. Dopo gli argomenti più urgenti verrà il momento di valutare attentamente se a livello di smart working – non di telelavoro, che è una cosa diversa – potremo apprendere delle cose, opzioni nuove prima ancora che migliori, da questa quarantena forzata. In primis sulla nostra presenza in ufficio. E se, nell’ottica di ricominciare poco alla volta, dovessimo lavorare tre giorni in azienda e due a casa? In questo momento storico la crisi ci impedisce di valutare serenamente le performance, o come dicono quelli bravi i KPI, di chi è costretto a lavorare da casa.

Ci impedisce di fare riflessioni serie e pacate su quanto l’ambiente che ci circonda ci può rendere più produttivi, su quanto alcuni spazi ci migliorano rispetto ad altri in attività di relazione e negoziazione. È più semplice – paradossalmente – chiudere un affare parlando con l’interlocutore della passione per i cani che sono lì ad abbaiare in sottofondo. “Che razza è il tuo?”. “Un pastore maremmano”. “Adoro i pastori maremmani, ne avevo uno quando ero piccolo”. Affare fatto.

Se si potessero inserire queste voci nel foglio excel dei KPI aziendali, sono certo che ne verremmo fuori con un quadro molto più costruttivo del momento economico che stiamo vivendo. Non vergognarsi del privato significa anche mostrarci per quello che siamo e non solo per quello che sappiamo. E la gente, notoriamente, ci sceglie anche per il primo punto. Ed ecco perché le videochiamate sono diventate più spontanee, meno costruite e artefatte, con attacchi meno ingessati che permettono di stabilire una connessione reale – non quella del WiFi – con l’interlocutore di turno.

Una rivoluzione digitale che avrebbe richiesto come minimo altre due decadi, e che è arrivata all’improvviso annullando persino il gap generazionale: quelli delle chat contro quelli del “io ho bisogno del face to face”. Perché adesso il face to face, l’unico possibile, è online ed entra direttamente a casa nostra. E, potete giurarci, ha trovato uno spazio molto comodo. E chissà che le aziende, non solo le più importanti, non decidano di allestirlo, un luogo per le videochiamate all’interno degli uffici, per una volta invertendo l’assioma “riproduco a casa l’ambiente dell’ufficio”. È arrivato – inaspettato – il momento di togliere l’artefatto e di ripartire da quanto di più prezioso abbiamo: la nostra dimensione umana.

 

 

Photo credits: Piero Micheletti

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