Sanremo 1972, lo sciopero rientra

Nessun artista in concorso, qui al 65° Festival della canzone italiana, canta di lavoro: delle ventotto canzoni in gara l’unica che contiene incidentalmente il verbo «lavorare» è il rap datato e di maniera del diciassettenne capitolino Gabriele Rosciglione, in arte Kaligola, che narra la dannazione terrena di un randagio in preda al rimpianto per non […]

Nessun artista in concorso, qui al 65° Festival della canzone italiana, canta di lavoro: delle ventotto canzoni in gara l’unica che contiene incidentalmente il verbo «lavorare» è il rap datato e di maniera del diciassettenne capitolino Gabriele Rosciglione, in arte Kaligola, che narra la dannazione terrena di un randagio in preda al rimpianto per non avere dedicato il tempo dovuto al figlioletto prematuramente scomparso, in preda a una frenesia professionale.

C’è da giurare in ogni caso che nessuno tra “Campioni” e “Nuove proposte” arriverebbe ad agitare la minaccia di uno sciopero dell’ugola per rivendicare l’ammissione al Festival di un collega ritenuto meritevole. Succede nel 1972, quando i partecipanti alla kermesse guidati da Domenico Modugno, Lucio Dalla e Claudio Villa cercano di posticipare l’inizio del Festival per allargare il numero dei partecipanti ai primi degli esclusi: Rosalino (Ron) e Orietta Berti.

Se quest’anno quasi tutti i motivi in gara parlano d’amore, nel 1972 sono ben tre le canzoni a riferirsi esplicitamente, con toni e accenti diversi, al lavoro. Gianni Morandi debutta al Festival con «Vado a lavorare», un’allegra marcetta dal carattere bucolico che celebra il lavoro nei campi, l’alternarsi delle stagioni e l’amore tra i covoni di fieno. Il lavoro è finalmente un valore che dona maturità: «come un uomo lavoravo già», pur scontando i limiti di uno stile non popolare ma popolareggiante.

Non raggiunge la finale Anna Identici, che dopo gli esordi disimpegnati ha virato verso un repertorio politicizzato, nei versi di «Era bello il mio ragazzo», opera di Pier Paolo Preti, affronta il difficile tema delle morti sul lavoro: il protagonista della canzone è un piccolo imprenditore edile – non un dipendente, come avremmo atteso da un motivo dal carattere “militante”- che, per lesinare sulla sicurezza, precipita dall’impalcatura: trasportato all’ospedale, riesce a tranquillizzare la fidanzata per poi venire a mancare.

Infine, Domenico Modugno presenta «Un calcio alla città», scritta insieme a Riccardo Pazzaglia e Mario Castellacci, che i critici etichettano come inno all’assenteismo: stanco di anni di umiliazioni professionali «incatenato a questa scrivania», Modugno rappresenta un uomo che rifiuta una vita da «semplice lacchè» e, stanco dell’ «aria dei termosifoni» e della «pastasciutta stanca della mensa» non raggiunge l’ufficio e si rifugia in campagna, invitando gli ascoltatori a unirsi a lui arrampicandosi sugli alberi e cogliendo margherite: «Non lo timbrate, il cartellino! Non la firmate, la presenza!».

Lo stato di agitazione dei cantanti del 1972 ha comunque termine a poche ore dall’inizio del festival quando, dopo una notte trascorsa in una concitata assemblea, una delegazione di cantanti raggiunge il patron Elio Gigante dissociandosi dall’iniziativa: «Noi scioperare? Siamo matti? Un’occasione del genere quando ci capita più?».

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