Se il lavoro perfetto ti manda in burnout

Non vale più la pena di identificarsi con il proprio lavoro: un’autrice giapponese lo racconta in una storia che parla anche all’Italia. Recensiamo “Un lavoro perfetto” di Tsumura Kikuko.

La protagonista di Un lavoro perfetto si è licenziata dal suo posto di lavoro dopo aver avuto un esaurimento nervoso. Lo ripete di continuo, nelle oltre trecento pagine di questo librone con la copertina rosa (ci tornerò più avanti) che, in realtà, di lezioso non ha granché.

L’autrice è la giapponese Tsumura Kikuko, vincitrice di numerosi premi in patria e non solo, un talento emergente che ora arriva anche in Italia, pubblicata da Marsilio e tradotta da Francesco Vitucci. Kikuko ha spiegato di aver scelto di non dare un nome né caratteristiche fisiche precise al suo personaggio, in modo che ognuno ci potesse appiccicare sopra la propria faccia e il proprio vissuto.

È proprio quello che ho fatto io: i pensieri di questa donna che potrebbe avere più o meno la mia età non erano forse anche i miei? Anch’io a un certo punto mi ero sentita “logorata e abbattuta da un lavoro che amavo”. D’altra parte “chiunque può sentirsi così, con la voglia di scappare da un lavoro in cui un tempo credeva, di allontanarsi da un percorso quando capisce che non è più quello giusto da seguire”.

Lavori assurdi ed esaurimenti nervosi: una storia inventata, ma non troppo

Quale sia il lavoro che le ha fatto venire l’esaurimento nervoso lo scopriamo solo nelle ultime pagine (ma anche in questo caso l’autrice è piuttosto avara di dettagli); nel frattempo, ci divertiamo a seguire la narratrice senza nome nel suo barcamenarsi tra diverse esperienze professionali, una più strampalata dell’altra e tutte rigorosamente inesistenti nel pur variegato mercato del lavoro odierno (peccato: avrei voluto lavorare in almeno un paio dei posti descritti).

Cerca un lavoroprivo di sostanza”, che non preveda assunzioni di responsabilità né lotte per un avanzamento di carriera, che non la coinvolga troppo e non le succhi energie. La lavoratrice X trova una spalla nella signora Masakado, la sua consulente del lavoro che, per professionalità e quantità di posti vacanti messi sul piatto, faccio fatica a far corrispondere a una qualunque impiegata di un centro per l’impiego o agenzia interinale io abbia mai conosciuto.

La prima occupazione che la giovane donna accetta consiste nello spiare uno scrittore sospettato di contrabbando visionando i filmati della videosorveglianza per turni lunghissimi ed estenuanti. Lato positivo: il lavoro è vicino casa, potrebbe perfino andarci in pigiama. A seguire, la vediamo occuparsi degli annunci pubblicitari che verranno registrati e trasmessi su una linea di autobus; scrivere consigli da stampare sulle confezioni di una nota marca di cracker di riso; appendere manifesti negli spazi comuni dei condomini della città; alloggiare nel capanno all’interno di un parco sterminato, forando i biglietti per una mostra sull’arte scandinava che si terrà di lì a breve e disegnando una mappa dopo aver perlustrato i dintorni.

Nella diversità delle esperienze, il comune denominatore di ogni lavoro è l’insofferenza della giovane donna che monta non appena le responsabilità aumentano e i compiti assegnati, per quanto asettici e strambi, la spingono a essere propositiva, dinamica, proattiva e qualunque altro aggettivo piaccia tanto a chi scrive gli annunci di lavoro.

Identificarsi con il proprio lavoro, lasciarsi incasellare da una certa idea di carriera, farsi coinvolgere più di quanto strettamente necessario: ne vale ancora la pena? Forse no, o non sempre, sembra suggerire Tsumura Kikuko, autrice di puntuta intelligenza, che fa dire al signor Morinaga: “Proprio perché è il tuo lavoro non dovresti impegnarti tanto”.

Giappone vs Italia, quanto cambia il lavoro

Il mondo del lavoro giapponese è così diverso dal nostro?

Sì, se consideriamo che la narratrice conosce a malapena i nomi di battesimo di colleghi e colleghe, ed è tutto un signorina Eriguchi, signor Kazetani, signora Katori; un tipo di formalità che a noi occidentali dalle mille strette di mano e pacche sulle spalle appare straniante.

No, se come al solito i capi sono tutti maschi e le impiegate quasi tutte femmine.

Sì, se pensiamo che il lavoro che ha provocato l’esaurimento nervoso alla protagonista era il suo “primissimo impiego”, trovato subito dopo la laurea e durato 14 anni (quanti neolaureati italiani possono dire lo stesso?).

No, se consideriamo che nel romanzo, oltre alla vicenda personale della protagonista, abbondano i casi di burnout e depressione da troppo lavoro. Chissà per quanto tempo ancora in Italia ci faremo un vanto di essere rimasti in ufficio – COVID-19 permettendo – ben oltre l’orario e di non poter mai staccare, fieri della reperibilità a tutte le ore e del tavolo da ping pong piazzato dal capo ventenne accanto alla scrivania per farci sposare ancora di più la causa della startup.

Perché leggere Un lavoro perfetto

Ironico, amaro, paradossale, tenero. Si possono usare tutti questi aggettivi per descrivere il libro di Tsumura Kikuko, un gioiellino che avrebbe meritato più cura nella scelta della copertina (un’immagine di stock che avrò visto duecento volte).

Ne aggiungo un altro: coraggioso. Un lavoro perfetto parla del coraggio che ci vuole a scegliere di scendere dalla giostra e prendersi una pausa (dal lavoro, dagli obblighi, dallo stress, da un’idea di sé che non ci corrisponde più); il coraggio di rivedere le proprie ambizioni senza perdere consapevolezza del proprio valore; il coraggio di dire: un lavoro è solo un lavoro.

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