Sono contento di essere arrivato uno

Qualche sera fa sentivo parlare con competenza e trasporto un ex pallavolista che oggi si dedica alla formazione in azienda. Mentre raccontava con candore e senza autocelebrazioni la sua esperienza di sportivo e la sua storia personale, fatta di momenti difficilissimi e di battaglie vinte, riflettevo sul valore del mio interlocutore. Indubbiamente una persona splendida, semplice […]

Qualche sera fa sentivo parlare con competenza e trasporto un ex pallavolista che oggi si dedica alla formazione in azienda. Mentre raccontava con candore e senza autocelebrazioni la sua esperienza di sportivo e la sua storia personale, fatta di momenti difficilissimi e di battaglie vinte, riflettevo sul valore del mio interlocutore. Indubbiamente una persona splendida, semplice e piena di contenuti e valori.

Ma allora perché – mi sono chiesto – quando sento gli sportivi intervistati in televisione ho sempre la sensazione che siano delle persone di scarso contenuto?

 

Dipende sempre dalle domande

Nei giorni successivi ho avuto la possibilità di approfondire il tema e, chiacchierando con altri campioni in attività che praticano sport ad altissimo livello, ho potuto confermare la tesi per cui molto spesso è la domanda la causa di tutto.  Questo per lo meno vale quando di domanda si tratta perché la tendenza del momento è quella di leggere le statistiche, seguite da una analisi della partita traendo alcune conclusioni, salvo poi avvicinare il microfono all’intervistato appunto senza che alcuna domanda sia stata formulata. Si tratta spesso di una garbata richiesta di conferma della bontà dell’opinione o peggio di una risposta suggerita, con il rischio di risultare polemici se si contraddice l’interlocutore.  Ma cosa si porta a casa l’ascoltatore da una non-domanda? Nella migliore delle ipotesi una non-risposta.

Sbaglierò ma da semplice telespettatore mi aspetto che il protagonista dell’intervista sia l’intervistato e non l’intervistatore. E immagino che per gli sportivi sia a volte necessario resistere alla tentazione di spiegare loro che il fatto di seguire quello sport da tanti anni non rende automatico l’expertise ed è lo stesso motivo per il quale, pur avendo mangiato per anni e anni al ristorante, non siamo tutti chef.

Ma come si è arrivati a questo punto e perché?

L’immagine dello sportivo di cinquant’anni fa era il più delle volte quella della persona semplice, magari di estrazione contadina, poco colto ma molto pratico, efficace e concreto. Chi non ricorda la famosa frase “Sono contento di essere arrivato uno” che la storia attribuisce ad un giovane Gustavo Thoeni ma fu resa celebre da Walter Chiari con il personaggio del ciclista? Proprio il ciclismo, insieme al pugilato e al calcio, in quell’epoca ha rappresentato più di tutti una delle principali possibilità di svoltare, di costruirsi un futuro migliore in alternativa al lavoro nei campi ma che con la vita contadina aveva in comune i principi di sacrificio, fatica, costanza.

Quegli sportivi, sia pur con qualche difficoltà espressiva, davano comunque la sensazione di avere qualcosa da dire mentre oggi l’eccessiva cura della forma e dello stile va spesso e volentieri a discapito dei contenuti e della sostanza. Lo sportivo medio è di norma più istruito e si colloca ad un livello sociale più alto. In estrema sintesi, non sbaglia quasi più un congiuntivo ma non è capace di dire nulla.

Poca fortuna e materiale avrebbe oggi una trasmissione come Mai Dire Gol che nacque ironizzando su strafalcioni, interviste impossibili e dichiarazioni senza capo ne’ coda. E che nostalgia se penso a Ravanelli, un vero precursore che parlava di sé in terza persona e quanto rimpiango la purezza delle bombe di Mosca e i finti Processi di Biscardi che quantomeno cercavano di dire qualcosa.

E’ certamente un fatto che fare il giornalista sportivo oggi è tutt’altro che facile: ci si è trovati a fare i conti soprattutto con la potenza del web e la disponibilità di accesso ad ogni informazione. In alcuni casi raccontare eventi che nessuno avrebbe mai visto con i propri occhi era un’arte nobile. Si pensi a Niccolo’ Carosio nel calcio, al grandissimo Gianni Brera, indubbiamente quel gran maestro del giornalismo sportivo italiano che raccontava gli incontri di Cassius Clay. Oggi li si racconta mentre tutti gli spettatori o ascoltatori li vedono in diretta, come e meglio del telecronista, con ottomila telecamere e instant replay o statistiche on line.

 

Alzare l’asticella, sempre

Ma proprio per questo, come in ogni altro campo e professione, è richiesto qualcosa in più: dove non è la globalizzazione è la tecnologia a spingerci o meglio ad obbligarci ad alzare il livello di preparazione. Basti pensare che trent’anni fa si faceva carriera con un diploma, vent’anni fa con una laurea, dieci anni fa serviva almeno un master o un Phd, ed oggi in aggiunta è richiesta almeno un’esperienza internazionale.

Ma c’è un ulteriore elemento che contribuisce al generale impoverimento: in un mondo in cui, soprattutto in base all’etica ed intelligenza degli utenti, social costituiscono una grande opportunità ma anche un potenziale immane pericolo, il rischio di subire veri e propri attacchi personali per aver espresso una semplice opinione fa sì che in molti casi si eviti a priori ogni parere o interpretazione.

Tanto il fenomeno è dilagante che negli Stati Uniti gli atleti dell’NBA vengono “educati” dalle società al rapporto con la stampa anche se in realtà si tratta solo di tecniche. Viene insegnato loro ad evitare le domande scomode e a gestire un giornalista che cerca la polemica o la provocazione a tutti i costi fornendo risposte precotte e confezionate con tanti saluti alla libera espressione e al pensiero critico. Ma per una volta non guardiamo oltre oceano come modello da seguire.

Perché sappiamo benissimo che se si segue questa deriva il modo migliore per evitare di commettere errori è da sempre uno solo: non fare o, nel nostro caso, non dire.

E’ pur vero che esistono alcune eccezioni, piccole o grandi società sportive che hanno il coraggio di investire sulle persone oltre che sugli atleti, permettendo loro di studiare e laurearsi pur saltando qualche allenamento, di avere attività artistiche o culturali parallele, ma soprattutto di lasciarli liberi di esprimere la propria opinione, proponendo ed accettando un rapporto di fiducia che quasi sempre viene ripagato sul campo con la creazione di team motivati, motivanti e vincenti.

Ma queste interviste sono davvero lo specchio della nostra società? E’ questa l’evoluzione (o forse sarebbe meglio parlare di involuzione) della nostra cultura?

E’ indubbio che l’eccesso di democrazia del web, al limite dell’impunità, crea una difesa naturale ma anche una eccellente scusa per non prendersi responsabilità. Se non dico, nessuno si aspetta nulla e non avrò fallimenti da giustificare.

Ma questa paura della responsabilità permea oggi tutti i settori della nostra società e della nostra cultura, passando per i politici sino ad arrivare ai manager di aziende private e pubbliche. Con l’ulteriore possibilità di invocare la crisi si è poi passati dai piani quinquennali ai piani a trimestrali, i quali poi si sono ulteriormente modificati in corsa con cadenze ravvicinatissime, a sicuro discapito della fiducia dei dipendenti o dei cittadini.

Come Martin Luther King, nel mio piccolo I have a dream: sentire un politico o un manager di un ente pubblico o un presidente di una società sportiva dichiarare senza timore: “Nei prossimi due anni voglio arrivare uno e questo è il piano! E se fallisco me ne vado.”

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