Susanna Camusso: “Disparità salariale? Nelle aziende si taglia troppo su controlli e ispezioni”

La prima legge che si proponeva la parità di diritti e di trattamento economico uomo-donna nei luoghi di lavoro in Italia, risale al ’91. Ciò fa pensare che oggi dovremmo avere una generazione perfettamente allineata con i principi di uguaglianza, e attenta, per l’educazione ricevuta a casa e a scuola, a tutte le esigenze che […]

La prima legge che si proponeva la parità di diritti e di trattamento economico uomo-donna nei luoghi di lavoro in Italia, risale al ’91. Ciò fa pensare che oggi dovremmo avere una generazione perfettamente allineata con i principi di uguaglianza, e attenta, per l’educazione ricevuta a casa e a scuola, a tutte le esigenze che ruotano necessariamente intorno ad una lavoratrice che è anche madre. Non serve un esperto per capire che non è così. Lacuna normativa o mancata applicazione della legge?

Ci risponde Susanna Camusso che, dopo gli anni alla guida della CGIL, oggi è la Responsabile nazionale CGIL per le Politiche di genere, Politiche europee ed Internazionali.

“Ci sono due elementi da guardare. Il primo riguarda la cultura nel lavoro, la mentalità, che nonostante gli sforzi non sono cambiati. Ci sono ancora pregiudizi, sessismo ed essenzialmente le tecniche per evadere meglio la normativa si sono fatte più raffinate. Dopo molte battaglie contro le dimissioni in bianco in caso di maternità, che non ci sono più, si è passati da atti illeciti come questo a metodi più indiretti e ammessi dalla legge. Ci sono molti modi, infatti, per indurre al licenziamento una donna dopo la nascita dei figli. Ad esempio il demansionamento: quando la lavoratrice rientra le si dice che il suo posto non c’è più; in realtà l’ha preso un’altra persona. Oppure con l’orario di lavoro così spezzettato da costringere la donna a restare fuori casa tutto il giorno per fare le sue otto ore. O applicandole turni impossibili.”

 

Sono sostanzialmente forme di mobbing?

In Italia non figura come reato, ma sì, non c’è parità di trattamento al lavoro. Basta guardare alle dimissioni che si registrano dopo la nascita dei figli. Il secondo problema è che il nostro Paese non è organizzato per affrontare una società in cui entrambi i genitori lavorano. Mancano nidi, scuole a tempo pieno; welfare, in sintesi. La legge del ’91, che negli anni è stata rivista fino a diventare oggi Testo Unico, ha incontrato la crisi economica. Che ha prodotto due effetti: una nuova contraddizione occupazionale con più donne al lavoro, di cui quasi un terzo al sud, con una età media sopra i quarant’anni; ma anche il peggioramento della qualità del lavoro e di vita delle donne, a partire dal part-time involontario. Perché se si fa ancora tanta fatica nel nostro Paese a ottenere quello volontario, l’involontario è diffuso, e quello che si dovrebbe leggere come un miglioramento del lavoro, e quindi della qualità di vita, ha determinato in realtà un peggioramento, perché fa sì che la donna non possa essere indipendente, oltre a incidere sulla carriera previdenziale. Il part-time involontario, infatti, interessa un universo lavorativo riservato quasi totalmente a donne e a migranti: commesse, cassiere, addette alle pulizie, che finiscono così col percepire 400-500 euro al mese. Se ci sono uomini in questi settori sono studenti, che non puntano a un percorso professionalizzante ma semplicemente a pagarsi gli studi. Per loro è una condizione solo temporanea. La maggior parte delle imprese applica questi orari e queste forme contrattuali ai cosidetti lavori poveri. Dal punto di vista organizzativo, il part-time involontario che si sta diffondendo è distribuito a pezzetti con continui cambi di turno da un giorno all’altro, magari in base ai picchi di consegne o di clienti previsti, ad esempio. Francamente non so quali algoritmi vengano usati per queste disposizioni, ma è certo che in questo modo la lavoratrice, che dal part-time dovrebbe ottenere una maggiore libertà, in realtà non ha più il controllo del suo tempo perché non è programmabile. Di conseguenza vediamo che si rinforzano i pregiudizi nei confronti dei lavori meno qualificati, e sulla maggiore o minore flessibilità della vita delle persone che vi sono impiegate. C’è poi un fenomeno parallelo. In altre professioni il lavoro ha raggiunto un’invasività totale. Per questo si parla oggi di “diritto alla disconnessione”: perché diversamente l’orario di lavoro viene allungato all’infinito, dall’alba fino all’alba.

Che cosa si sta facendo per la parità di trattamento economico?

È in corso una commissione parlamentare sul lavoro. Oggi il Testo Unico in materia riguarda tutto il filone, perché c’è ancora diversità e si vuole puntare alla parità salariare uomo donna. Lo squilibrio è ancora evidente: il 4% in più a favore degli uomini nella Pubblica Amministrazione, e il 17-19% nel privato. C’è un progetto di legge, e bisogna riprendere i rapporti legge-aziende, in particolare quelle con oltre cento dipendenti. Ad oggi le aziende contano molto sulla precarietà e la flessibilità delle donne, principalmente perché non c’è nessuno che controlla. È stato progressivamente ridotto il numero degli ispettori del lavoro e i loro compiti, nel senso che le direttive dei ministri hanno molto alleggerito l’effettiva ispezione, e quindi non ci sono più quei controlli a tappeto e a sorpresa che venivano fatti nelle aziende. Inoltre è andata radicandosi progressivamente la filosofia dei governi secondo la quale “ti premio se rispetti la regola”. Cioè si dà la sensazione che “devo aiutarti a rispettare la norma”; si crea così tutta una logica secondo la quale la regola non va rispettata perché tale, ma è facoltativa. Ecco perché non c’è una cultura anti-discriminatoria: perché “non è così grave”.

Ciclicamente i governi, dati Istat alla mano scoprono che il nostro Paese sta inesorabilmente invecchiando. Dato che i figli li possono fare solo le donne, il governo di turno si lancia in provvedimenti che dovrebbero incentivare le nascite. Qual è la realtà?

Credo ci siano due aspetti da valutare. Un versante che non si misura, con le difficoltà delle donne – e dei giovani, si badi – nel fatto di guadagnare poco, di raggiungere la stabilità tardi, e soprattutto nel trovarsi senza servizi. Avere un figlio costa, e costa tanto di più in un Paese che non ha un sistema pubblico accettabile. Sono quindi costretta a rivolgermi al privato, per nido, per la babysitter quando il bambino si ammala, quando ho esaurito i permessi. Finalmente le deputate hanno capito l’importanza che ha per tutte le donne avere scuole pubbliche a tempo lungo, avere un sistema pubblico diffuso su tutto il territorio nazionale. Il secondo aspetto è la forte di cultura di destra che in realtà usa anche questo argomento.

Siamo tornati al motto mussoliniano “le culle non devono restare vuote”?

E il problema non è solo nostro. Le destre in Europa diffondono un’idea che raffigura il regime con una scena pubblica che vede un maschio bianco, e la donna a casa. È quasi un sottofondo.

Che cosa potrebbe veramente cambiare la cultura?

Bisogna sempre tener conto delle qualità delle donne, grandi lottatrici. Se si lascia correre, se si rinuncia alla denuncia, si starà peggio. È indubbio che siamo in una fase difficile, per la quale non esiste una singola misura. Io immagino una strategia in tre punti. Anzitutto investimenti. Non bastano cemento e infrastrutture, servono investimenti anche sui servizi, che sono un diritto dei cittadini. Poi reintrodurre a scuola l’educazione civica, aggiungendo anche l’educazione al sentimento, ovvero una cultura del rispetto reciproco in contrapposizione a quella della paura. Infine ricostruire la cultura del dovere, quindi il rispetto delle leggi da parte di tutti i cittadini, non solo lavoratori, ma anche imprenditori. Ci sentiamo dire da sempre che senza di loro non ci sarebbero i posti di lavoro, ma dimenticano che in cambio loro hanno i profitti. È necessario attuare una distribuzione equa del reddito e il rispetto diffuso delle regole, per superare gli stereotipi.

 

 

Foto di copertina: cgilbo.it

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