Ti pago per giocare: il nuovo ruolo del gregario

Il consulente che non sa di sport usa le metafore sbagliate. Lo riconosci subito, è quello che per catturare l’attenzione del team di lavoro parla di “squadra” e individualità citando sempre gli stessi esempi: quelli noti di Messi, Cristiano Ronaldo o Totti, quando è particolarmente ispirato. È un peccato, perché dietro certe metafore c’è sempre […]

Il consulente che non sa di sport usa le metafore sbagliate. Lo riconosci subito, è quello che per catturare l’attenzione del team di lavoro parla di “squadra” e individualità citando sempre gli stessi esempi: quelli noti di Messi, Cristiano Ronaldo o Totti, quando è particolarmente ispirato. È un peccato, perché dietro certe metafore c’è sempre un’occasione persa: quella del contesto di lavoro e dell’ambiente. Tanto per restare sull’esempio di questi tre campioni, non tutti sanno che Messi è cresciuto nella cantera (il settore giovanile) del Barcellona, al quale è grato perché è stato proprio il club catalano ad occuparsi di lui quando era piccolo e doveva sottoporsi a cure molto costose, e che quindi Leo è più catalano che argentino, e lo dimostra l’ultima immagine, in ordine cronologico, che tutti gli sportivi hanno in testa: quella di Messi che mostra la sua maglia al pubblico del Santiago Bernabeu. Non tutti sanno che Cristiano Ronaldo è sì un grande campione, ma è uno dei più seri professionisti che ci sono in giro. Primo ad arrivare al campo di allenamento e ultimo ad andare via, la leggenda (poi confermata dai fatti) narra che, nel giorno in cui il Real Madrid conquistò la sua decima Champions League lui, anziché andare a festeggiare con i compagni, andò al centro sportivo madridista a sottoporsi ad una seduta di massaggi e crioterapia. Di Totti si è detto tutto e il contrario di tutto, spesso a sproposito. Di certo c’è che per restare un’icona della romanità ha rinunciato a vincere tutto altrove, e che per giocare fino a 40 anni ed oltre ha cambiato e curato scrupolosamente la sua alimentazione tanto che oggi è più in forma di quando aveva 25 anni.

Sacrifici e dettagli dei gregari che hanno fatto la storia

Storie diverse, per metafore diverse. Il campione è spesso visto, nel gergo aziendale, come il corpo estraneo, l’altezzoso, quello che costringe gli altri a lavorare per lui. Quasi sempre c’è un grande errore di fondo in questa considerazione, che riguarda più talenti mai espressi – sono quelli che vivacchiano nelle serie minori, e che sono più presuntuosi di Messi e Ronaldo messi insieme – che grandi campioni. Cambiando sport, a nessuno verrebbe in mente di dire che Michael Jordan sia un lavativo, perché era proprio lui, all’interno dei Chicago Bulls, uno dei grandi fautori del sacrificio, dell’allenamento, e della cultura del lavoro. Certe metafore, aziendalmente parlando, lasciano il tempo che trovano. Oggi le grandi squadre sono fatte di campioni dediti al sacrificio e alla cura del dettaglio — sempre a proposito di Cristiano Ronaldo, interessante la sua frequentazione con Usain Bolt per migliorare la tecnica di corsa — e di gregari imprescindibili.

Ma anche il concetto di gregario è cambiato molto, nel corso del tempo. Una volta si parlava in questi termini del ciclista che, letteralmente parlando, portava le borracce ai campioni. Quello che “spingeva” il campione e lanciava la volata dei Coppi, dei Pantani, dei Nibali. Nell’Olimpia Milano, mitica squadra di basket degli anni ’80 allenata da Dan Peterson, circolava una curiosa leggenda raccontata dalla stesso coach: ogni anno il Presidente chiedeva a Peterson chi avrebbe voluto per fare il definitivo salto di qualità e vincere. Peterson era rimasto colpito da un goriziano soprannominato “L’Ariete” che non aveva paura di nulla e di nessuno, durante una partita della sua squadra. E ogni estate chiedeva al suo datore di lavoro lo stesso giocatore “Roberto Premier, Gorizia”. Peccato che quel giocatore fosse così sgraziato e poco adatto al palato fine del pubblico milanese. Un gregario, appunto. Per tre stagioni Peterson dovette insistere su quel nome, finché Roberto Premier non arrivò davvero. Il resto è scritto negli albi d’oro della società.

Nella letteratura calcistica italica il gregario per antonomasia è Oriali, non per niente Ligabue gli ha dedicato una canzone che dice “anni di fatiche e botte e vinci caso mai un Mondiale“. Probabilmente un giorno avremo anche dei versi su Gattuso e per tutti quei giocatori di calcio che hanno speso i loro anni migliori a correre per gli altri. Gattuso diceva sempre di sentirsi un privilegiato, perché in Serie B c’erano molti giocatori più forti di lui, ma che lui aveva grinta, corsa e spirito. “Se giochiamo con 11 Gattuso forse non vinciamo, ma di certo non perdiamo“. Ipse dixit. Il gregario ha cambiato aspetto perché nello sport moderno il concetto stesso di talento è stato rivisitato. Sono giorni tristi per lo sport italiano, perché le Marche hanno perso da poco Michele Scarponi, un ciclista eccezionale, un “campione” che nessuno definiva “gregario” sebbene il suo compito principale fosse quello di far vincere Nibali. Scarponi, di talento, ne aveva eccome, ha semplicemente dimostrato che si può essere campioni e gregari allo stesso tempo, senza snaturarsi. Che si trattasse di gareggiare per la maglia rosa o per aiutare un compagno. Come nella tappa più importante del Giro 2016, quella del 27 maggio da Pinerolo a Risoul. Era andato in fuga, passando per primo sul Colle dell’Agnello, era chiaro che ne aveva più di tuttima non ha esitato ad aspettare il capitano per permettergli di recuperare le forze in vista dell’attacco decisivo a Chaves. Una vittoria di prestigio in una tappa come quella la sognano tutti i ciclisti, ma in quel momento la cosa giusta da fare era un’altra e lui l’ha fatta senza pensarci un attimo.

Il ciclo incredibile del Barcellona non sarebbe stato mai tale senza il mediano Busquets, uno dei giocatori più antipatici del nuovo secolo: e ci credo, provate voi a giocare nello stesso contesto di Messi, Neymar, Ronadinho, Eto,o, Iniesta e Xavi, tanto per citarne qualcuno. Lui, da buon catalano, ha tenuto in piedi gli equilibri, non solo tecnici, di quella squadra. È un gregario atipico Busquets, perché ha talento e sa giocare il pallone, solo che lo fa esclusivamente quando serve. Quando è funzionale alle esigenze della squadra. Vi dice niente questa metafora? Per il resto del tempo, corre e dà botte (sportivamente parlando) per permettere ai compagni più dotati di esprimersi al meglio. Il suo segreto? Ancora una volta il contesto. Non sappiamo se uno come Busquets avrebbe reso alla stessa maniera lontano dalla “azienda Barcellona“, un’impresa con dei valori dichiarati fin dal settore giovanile “È il pallone che deve correre e sudare, non i giocatori“, perché di certo il contesto barcelonista gli ha permesso di esprimersi al meglio. Non per niente il contratto di Busquets è stato rinnovato due anni fa e adeguato alle cifre di alcuni campioni, proprio perché a Barcellona ci si è resi conto della sua imprescindibilità. Una volta, a centrocampo, c’era sempre un giocatore meno tecnico, dedito alla rottura del gioco più che alla costruzione. Oggi quel giocatore non è più un generico “mediano” o un “gregario”, ma è un atleta dotato di corsa e intelligenza, che sposa le idee dell’allenatore, i valori del club, conosce i pregi ma sopratutto i limiti dei compagni. Ecco perché è diventato importantissimo, per vincere, trovare il gregario giusto a patto che possa definirsi ancora così.

Cosa resta allora di certi consulenti e delle loro metafore? Nulla. Fuffa sono e fuffa rimarranno, imprigionati da stereotipi che non hanno nulla né di cultura sportiva, né di cultura aziendale. Come se non fosse abbastanza evidente che di Messi o di Cristiano Ronaldo ce n’è uno solo. Ma anche di Busquets, statene certi. Perché i gregari, oggi, sono molto più preziosi di quello che sembra. E vanno pagati per quello che valgono.

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