L’X Factor dello sviluppo economico è lo sviluppo umano

Sono stati definiti bamboccioni, fannulloni, choosy e inoccupabili. I giovani che non vogliono lavorare e le news (sulla vicenda Expo 2015 pubblicata anche dal Corriere.it) smentite dagli stessi interessati, ha comunque delineato un quadro poco esaltante. Abbiamo incontrato l’economista ed esperto di politiche attive, Romano Benini. È ideatore e autore di Il Posto giusto, format […]

Sono stati definiti bamboccioni, fannulloni, choosy e inoccupabili. I giovani che non vogliono lavorare e le news (sulla vicenda Expo 2015 pubblicata anche dal Corriere.it) smentite dagli stessi interessati, ha comunque delineato un quadro poco esaltante. Abbiamo incontrato l’economista ed esperto di politiche attive, Romano Benini. È ideatore e autore di Il Posto giusto, format Rai sul lavoro e le opportunità promosso con il Ministero del Lavoro e la consulenza scientifica di Isfol. E’ consulente delle maggiori istituzioni pubbliche e agenzie per il lavoro italiane e coordina numerosi progetti europei per lo sviluppo occupazionale. È stato autore di Okkupati, il primo format Rai sui temi del lavoro. Collabora con la Fondazione studi dei Consulenti del lavoro e si occupa di Cna Impresasensibile, associazione di promozione sociale della Confederazione nazionale dell’artigianato. Ha pubblicato numerosi saggi e pubblicazioni in materia di politica, cultura e storia economica e del lavoro. L’ultimo, in ordine di tempo: Nella tela del ragno. Perché in Italia non c’è lavoro e come si può fare per crearlo, edito da Donzelli Editore, 2014.

Romano Benini, qual è la sua opinione? Oggi i giovani pur di lavorare farebbero di tutto oppure preferiscono fossilizzarsi sul loro sogno rimanendo inoccupati o disoccupati?

È sempre sbagliato generalizzare, anche se certo l’educazione avuta dalle famiglie incide sui comportamenti dei più giovani. Esistono certo molti giovani che non si sono staccati dai vincoli famigliari e forse sono troppo protetti rispetto al necessario, ma sono italiani i giovani europei che si spostano di più per cercare lavoro. Si è parlato a sproposito della vicenda di Expo, ma poco delle migliaia di italiani che fanno esperienza nei campi agricoli in Australia. Il punto è semplice: i giovani italiani si spostano se riescono almeno a coprirsi le spese e non è facile dagli torto. Semmai è vero che molti nostri giovani non hanno qualifica professionale e sono NEET (“Not in Education, Employment or Training” cioè giovani che non lavorano e non studiano ndr), quindi non sono in condizione di immediata occupabilità. La riflessione riguarda l’educazione ed il ruolo della scuola, non loro. Il lavoro deve sempre rispondere ad un sogno, ad una passione, l’importante è la disciplina e l’impegno necessari per raggiungere ogni risultato. Il programma Garanzia giovani ha avuto più di 500mila iscritti: a dimostrazione che i giovani se trovano un riferimento non stanno fermi e sdraiati. Sono luoghi comuni che non rappresentano la realtà.

È di ieri la notizia dell’allarme lanciato dall’Ocse sull’ occupazione tra i giovani (news del Sole 24 ore): siamo passati dal 64,33% al 52,79% dal 2007 al 2013. Come lo spiega? Di chi è la colpa?

Raccogliamo quanto non abbiamo seminato. Negli ultimi dieci anni: lo Stato non ha investito sulla scuola, la formazione, i servizi per il lavoro e l’innovazione e le imprese italiane sono ultime in Europa per investimenti in ricerca e formazione continua. Siamo adagiati sui nostri vizi e ne paghiamo le logiche conseguenze. Le colpe sono ugualmente distribuite tra pubblico e privato. Abbiamo anche sistemi arretrati di istituzioni del mercato del lavoro che sono ripiegate su se stesse e che non hanno un sistema nazionale di riferimento, come invece troviamo in Germania e Francia. Il Titolo V della Costituzione che ha dato tutti i poteri alle regioni sull’attivazione al lavoro e sulla formazione ha prodotto risultati fallimentari che vanno messi in discussione. C’è molto da cambiare e da rifare, siamo tutti troppo indulgenti con noi stessi, iniziando dagli amministratori e dai politici.

E ancora sempre l’Ocse sottolinea come in Italia: sono sempre più i giovani che svolgono un lavoro che non richiede competenze specifiche. E’ questa la vera causa? Come si interviene?

L’Ocse dice che il mercato del lavoro si biforca tra basse ed alte qualifiche, mentre quelle medie calano. Se un Paese non fa innovazione e ricerca vuol dire che manda i ricercatori all’estero ed assume camerieri. In ogni caso poi le basse qualifiche vanno verso la maggiore disponibilità degli extracomunitari. Non è vero che la qualifica non serve: portiamo almeno seicentomila neet ad avere una qualifica per un mestiere artigiano e poi forse vedremo cambiare le cose. Nelle Marche ed in Umbria qualcosa si sta facendo, il problema è al SUD; che ha un sistema di istruzione tecnica inadeguato.

Lei è stato tra tecnici nello staff del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, per preparare il terreno all’introduzione della “Youth Guarantee”, la famosa Garanzia Giovani. Che bilancio si può fare?

Buono per la presa in carico e la disponibilità dei giovani, ma il problema è un altro. Garanzia giovani introduce la logica europea della presa in carico e ci sono stati due ordini di problemi per accompagnare i giovani al lavoro. Il primo è che abbiamo una infrastrutturazione di servizi ridotta ai minimi termini ed il secondo che le Regioni hanno preso “Garanzia giovani” per sviluppare quanto già facevano più che per innovare. Per esempio in molti casi gli strumenti di autoimpiego non sono partiti ed in altri si opera ancora con la vecchia logica del bando e non attraverso il sistema della dote. In molte regioni l’accompagnamento anche tramite servizi privati non è stato sostenuto. Anche la scarsa domanda delle imprese non aiuta, ma il conservatorismo di questi mesi di alcune regioni è preoccupante. Quanto non funziona va cambiato.

Nel suo libro Nella tela del ragno offre alcune ricette perché l’Italia esca dalla crisi. Può esporle per noi brevemente? Quanto tempo sarà necessario perchè per l’Italia sia la #voltabuona?

Dobbiamo essere più consapevoli del nostro declino e di quanto possa essere dolce il suicidio che stiamo mettendo in atto: un paese che spende per la scuola tre volte meno che per le pensioni non va da nessuna parte. Nel mio libro io sostengo , ovviamente con dati alla mano, che l’X Factor dello sviluppo economico sia lo sviluppo umano. Sostenere la scuola, i servizi per il lavoro, l’innovazione e la creazione di impresa con maggiori investimenti. Serve poi promuovere l’export e portare più imprese a saper esportare. Va aggredito il problema del costo e delle tasse sull’energia che sta ammazzando il nostro manifatturiero e vanno fatte sul serio le riforme del mercato del lavoro: dobbiamo passare dal finanziamento della disoccupazione a quello dell’occupazione facendo in modo che tutti i titolari di trattamenti di disoccupazione e gli altri disoccupati di lunga durata che hanno finito ogni ammortizzatore siano accompagnati al lavoro con interventi di attivazione. Io sono per il lavoro di cittadinanza: il reddito di cittadinanza è una misura assistenziale costosa e culturalmente pericolosa. Un Paese con solo il 56 per cento di occupati come il nostro deve dare lavoro e non redditi.

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