Licenziamenti, reintegrazione e indennità: cosa cambia con i primi due quesiti

I primi due referendum sul lavoro, dedicati alla reintegrazione dopo licenziamenti illegittimi e alla rimozione del tetto alle indennità di licenziamento nelle PMI, cambierebbero i rapporti di forza all’interno delle aziende, al netto di alcuni paradossi. La nostra analisi, con l’intervento dell’economista Lorenzo Sacconi

04.06.2025
Licenziamenti, reintegrazione e indennità: un uomo vota per il secondo quesito referendario

Quello chiesto dalla CGIL per il referendum dell’8 e 9 giugno è un Sì per far tornare l’articolo 18 per tutti i lavoratori. Attenzione, però, perché non stiamo parlando dell’articolo 18 così come scritto dal Parlamento nel 1970, anno di approvazione dello Statuto dei lavoratori. Parliamo, invece, di quello già parecchio depotenziato dalla riforma Fornero nel 2012. Detto in modo ancora più netto: se dovesse passare il primo quesito referendario, non avremmo un ritorno del diritto alla reintegrazione per qualunque lavoratore licenziato ingiustamente.

Ecco perché il referendum sul Jobs Act, che ha una grossa valenza politica e sociale, ha il chiaro obiettivo di far aumentare le tutele per chi lavora in Italia, ma ha anche bisogno di qualche nota a margine.

Quesito sui licenziamenti illegittimi: che cosa cambia con un Sì?

Partiamo dalla prima: dieci anni fa, la riforma del lavoro del governo Renzi ha stabilito che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non andava più applicato per tutte le persone assunte dopo il 7 marzo 2015. La nuova norma all’inizio aveva mantenuto il diritto alla reintegrazione solo per i licenziamenti discriminatori o con causa del tutto inesistente; per esempio quando il datore mette alla porta una persona per la sua fede religiosa, o inventando di sana pianta la motivazione. Per tutti gli altri, in particolare per tutte le forme di licenziamento economico, solo il diritto a un risarcimento economico, con un sistema di indennizzi fissi e parametrati solo in base all’anzianità di servizio della persona licenziata.

Negli anni successivi, però, la Corte costituzionale è intervenuta e ha più volte modificato il Jobs Act. Tanto per iniziare, nel 2018 ha bocciato questo meccanismo dei risarcimenti in base alla sola anzianità di servizio: deve essere il giudice a stabilire il danno subito dal lavoratore, non solo un criterio oggettivo e predeterminato. Poi, la Corte ha anche riesumato il diritto alla reintegrazione per i casi di licenziamento economico intimato con motivazione del tutto insussistente. Insomma, la Consulta ha già reso un po’ meno severo il Jobs Act.

Quindi, se dovesse vincere il Sì, per quali tipologie di licenziamento tornerebbe il diritto alla reintegrazione? Di certo tornerebbe per i licenziamenti economici in cui il datore ha violato l’obbligo di provare a ricollocare la persona in altra mansione prima di cacciarla. Per quanto riguarda i licenziamenti disciplinari, il diritto alla riassunzione tornerebbe per alcuni casi meno gravi.

Obiettivi politici (e paradossi pratici) del primo Sì

Ci sono poi gli effetti paradossali, cioè alcune tipologie di licenziamento per le quali si potrebbe verificare addirittura una riduzione di tutele in caso di vittoria del Sì. Sono i casi di licenziamenti decisi dalle imprese nei confronti di lavoratori in malattia e intimati prima della fine del periodo massimo, e quelli per disabilità psichica. Casi molto specifici, nei quali si passerebbe dalla tutela cosiddetta “reintegratoria forte” del Jobs Act a quella “attenuata” dell’articolo 18 forneriano.

Inoltre, considerando che il decreto Dignità ha modificato il Jobs Act innalzando fino a 36 mensilità gli indennizzi massimi per i licenziamenti, con l’abrogazione referendaria si passerebbe al massimo di 24 mensilità. Sono distorsioni dovute al fatto che l’attuale normativa è confusa, frutto della sedimentazione di varie riforme, mai organiche, e spesso oggetto di complesse interpretazioni giurisprudenziali.

Secondo il professor Carlo Cester, dell’Università di Padova, “sembra che, da un punto di vista concreto, l’impatto di un eventuale successo del referendum non si preannunci come particolarmente sconvolgente,” come ha scritto sulla rivista Lavoro Diritti Europa. Quindi qual è la partita che si gioca dentro questo quesito?

La CGIL punta ad abolire il Jobs Act come primo passo per smontare tutte le norme che negli ultimi trent’anni hanno destrutturato i diritti e liberalizzato il mercato del lavoro, favorendo la precarietà in nome della crescita economica. Inoltre colpire la riforma renziana significa, sul piano politico, un passo indietro da parte del Partito democratico rispetto a una stagione in cui ha ceduto in maniera evidente alle lusinghe del mercato.

Quesito sul tetto alle indennità di licenziamento: cambiano i rapporti di forza nelle aziende

Connesso al quesito sul Jobs Act c’è quello che propone di abolire il limite massimo di sei mensilità per i licenziamenti nelle piccole imprese, dove non è prevista reintegrazione, sempre per permettere ai giudici di quantificare i risarcimenti in modo più equo, tale da funzionare come deterrente contro i licenziamenti facili.

Secondo Lorenzo Sacconi, economista e filosofo dell’Università di Milano e componente del Forum Disuguaglianze e Diversità, la questione non va affrontata guardando all’influenza di queste norme sul numero di licenziamenti, ma a come queste determinano i rapporti di forza all’interno delle aziende, e a ciò che avviene nei casi in cui si crea un conflitto dentro l’impresa stessa. Quindi il tema affronta anche il problema dei salari, che in Italia si sono ridotti negli ultimi trent’anni, mentre nel resto dei Paesi OCSE sono cresciuti.

“Il contratto di lavoro – spiega il docente – è il classico contratto gerarchico, c’è qualcuno che può licenziare. Gli effetti che il licenziamento può avere non vanno contati con il numero di licenziamenti, ma con il potere dei lavoratori di accettare le condizioni. Se il potere di licenziare è più alto, queste condizioni saranno più basse”. Ecco perché le norme sui licenziamenti hanno un impatto sul livello salariale, anche se non sono l’unico fattore. “La prospettiva – prosegue Sacconi – è un’impresa che investe poco sulla tecnologia, sulla formazione, quindi è meno efficiente e meno equa, perché non riconosce i meriti e le legittime pretese di chi la compone”.

L’obiettivo del Jobs Act era dare certezze all’imprenditore, permettergli di prevedere quale fosse il rischio corso in caso di licenziamento ingiusto. Grossomodo la stessa funzione che è svolta dalla norma che pone il limite massimo di sei mensilità come indennizzo nelle piccole imprese. “Se tu dai troppa certezza su quanto ti costa licenziare – fa notare Sacconi – avrai licenziamenti tutte le volte in cui il conflitto darebbe un valore superiore”.

Quindi, ristabilendo – per determinati tipi di licenziamento – la facoltà del giudice di disporre la reintegra, questo farà tornare al proprio posto di lavoro tutti i lavoratori ingiustamente licenziati? Non proprio, perché la stessa storia dell’articolo 18 mostra che spesso queste cause si sono chiuse con accordi tra le parti. Tuttavia, un conto è negoziare un accordo con un imprenditore che rischia di essere condannato a reintegrarti, o a pagarti un indennizzo superiore alle sei mensilità, un altro è farlo con condizioni favorevoli all’impresa. “Creare un margine di incertezza – insiste Sacconi – per il datore di lavoro significa spingere a negoziare in modo favorevole. Prima del Jobs Act non c’erano tanti casi nei tribunali, ma c’era ricorso a degli accordi che poi sono stati svalutati dalla riforma”.

Sacconi: “Un meccanismo che non conviene neppure alle imprese”

Questa però è un’impostazione che vuole guardare solo ai diritti dei lavoratori e non anche agli interessi di chi fa impresa? Secondo Sacconi non è così, perché il meccanismo che innalza il potere datoriale va a svantaggio delle imprese stesse, creando concorrenza sleale tra loro e lasciando gran parte di esse in una piccolissima dimensione.

Se l’impresa funziona, cresce dimensionalmente. Da noi non succede: come mai? Abbiamo ragioni di efficienza? Forse la ragione è proprio la logica di quel modello.”

Sacconi allora si serve di un esempio: “Se io sono imprenditore, e tu pure, abbiamo fatto entrambi investimenti. Se volessimo fonderci, io dovrei passare il potere discrezionale a te, magari diventando direttore. A quel punto, diventando dipendente, quali protezioni ho? Passa un anno, si rende necessaria una rinegoziazione e l’acquisitore mi licenzia perché costo troppo. Prevedendo questo, il piccolo imprenditore non si fonde. Preferisce il piccolo vantaggio della sua impresa piuttosto che subire il rischio dell’autorità discrezionale”.

Estendere il potere del giudice, aumentare le incertezze in caso di licenziamento, migliora i rapporti di forza interni anche quando il conflitto è solo potenziale, non per forza già esploso e finito davanti a un tribunale. Questa però non sarebbe la soluzione ideale e definitiva. Secondo Sacconi, un altro passo sarebbe far entrare i lavoratori nel potere decisionale delle imprese.

 

 

 

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In copertina: foto di Marco Merlini da CGIL Nazionale, su Flickr

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