Questa però è un’impostazione che vuole guardare solo ai diritti dei lavoratori e non anche agli interessi di chi fa impresa? Secondo Sacconi non è così, perché il meccanismo che innalza il potere datoriale va a svantaggio delle imprese stesse, creando concorrenza sleale tra loro e lasciando gran parte di esse in una piccolissima dimensione.
“Se l’impresa funziona, cresce dimensionalmente. Da noi non succede: come mai? Abbiamo ragioni di efficienza? Forse la ragione è proprio la logica di quel modello.”
Sacconi allora si serve di un esempio: “Se io sono imprenditore, e tu pure, abbiamo fatto entrambi investimenti. Se volessimo fonderci, io dovrei passare il potere discrezionale a te, magari diventando direttore. A quel punto, diventando dipendente, quali protezioni ho? Passa un anno, si rende necessaria una rinegoziazione e l’acquisitore mi licenzia perché costo troppo. Prevedendo questo, il piccolo imprenditore non si fonde. Preferisce il piccolo vantaggio della sua impresa piuttosto che subire il rischio dell’autorità discrezionale”.
Estendere il potere del giudice, aumentare le incertezze in caso di licenziamento, migliora i rapporti di forza interni anche quando il conflitto è solo potenziale, non per forza già esploso e finito davanti a un tribunale. Questa però non sarebbe la soluzione ideale e definitiva. Secondo Sacconi, un altro passo sarebbe far entrare i lavoratori nel potere decisionale delle imprese.
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In copertina: foto di Marco Merlini da CGIL Nazionale, su Flickr