Reggio Film Festival: il coraggio di dire no agli sponsor

Quanto avvenuto al Reggio Film Festival in occasione della presenza di Giulia Innocenzi è una lezione fondamentale che molte aziende faticano ad imparare

12.11.2025
Giulia Innocenzi e il taglio alle sponsorizzazioni del Reggio Film Festival

Il Reggio Film Festival, alla sua ventiquattresima edizione, rappresenta un punto di riferimento per la città emiliana e per gli appassionati di cinema d’autore. Gestito dal Cine Club Reggio e da un gruppo di intellettuali e volontari, con un budget di 30.000 euro, quest’anno aveva scelto come tema il “proibito“: censura, tabù, divieti sociali e limiti del nostro tempo.

Il programma 2025 includeva ospiti di prestigio: il regista Matteo Garrone, il fumettista Milo Manara e la giornalista Giulia Innocenzi con il docufilm Food for Profit. Il direttore Alessandro Scillitani aveva concepito il tema come chiave di lettura di un tempo segnato da conflitti e spazi pubblici ridotti, invitando a interrogarsi su ciò che è giustamente vietato e ciò che viene ingiustamente censurato.

Eppure, proprio il tema scelto si sarebbe rivelato profetico in modo inaspettato. Gli organizzatori hanno osservato con ironia di non aver immaginato che il proibito li avrebbe toccati così da vicino.

Quel difficile rapporto fra Parmigiano Reggiano e Comunicazione

La rottura è arrivata venerdì 31 ottobre, quando il consiglio di sezione di Reggio del Consorzio Parmigiano Reggiano ha deliberato il ritiro della propria sponsorizzazione al festival, pari a 2.000 euro. Una cifra irrisoria rispetto al budget complessivo della manifestazione, ma dall’alto valore simbolico. Il motivo? La presenza nel programma di Giulia Innocenzi, giornalista impegnata sui temi ambientalisti e animalisti, attesa a Cavriago il 10 novembre per la proiezione del suo docufilm Food for Profit, preceduto da un incontro dal titolo significativo: Cibo proibito, verità indigeste.

Il presidente del Consorzio, Giorgio Catellani, è stato netto: non condivide forma, metodo e sostanza delle affermazioni della Innocenzi. Il Consorzio, ha spiegato, è sempre disponibile al confronto su opinioni logiche e argomenti seri, ma in questo caso ha ritenuto necessaria una risposta forte a nome degli allevatori. “Non si possono mettere insieme nello stesso luogo il diavolo e l’acqua santa” ha dichiarato.

Le dichiarazioni contestate si riferiscono a un post Instagram pubblicato dalla giornalista il 13 agosto, in cui mostrava ventilatori e nebulizzazioni d’acqua nelle stalle per rinfrescare le mucche durante l’estate. Innocenzi aveva interpretato questi sistemi come metodi finalizzati non al benessere animale, ma all’aumento della produzione di latte, collegando l’osservazione ai rincari del prezzo del Parmigiano Reggiano, e concludendo che gli allevamenti intensivi rappresentano un cortocircuito dannoso per tutti.

C’è da dire che il Parmigiano Reggiano e la comunicazione hanno un rapporto di totale incomprensione da anni. Molti ricorderanno senza dubbio il capitombolo comunicativo dello spot in cui il povero Renatino era felice di lavorare 365 giorni all’anno, per non parlare della causa contro Pornhub, che, in uno spot geniale, aveva nominato il “parmigiano”, regalando milioni di visualizzazioni gratuite. Ne hanno parlato (malissimo) i giornali di tutto il mondo, ma a quanto pare, non è servito a cambiare direzione – o quantomeno a uscire da un provincialismo indifendibile.

Non cedere alle pressioni per mantenere la propria coerenza

Gli organizzatori del Reggio Film Festival si sono trovati di fronte a una scelta: cedere alla pressione economica o mantenere la coerenza con il proprio progetto culturale. Hanno scelto la seconda strada. Alessandro Scillitani ha espresso sorpresa e dispiacere, spiegando che non immaginavano di trovarsi in contrasto con un partner con cui c’era entusiasmo nell’idea di collaborare.

Il direttore artistico ha rivendicato il diritto del festival di dare voce a storie diverse, sottolineando che l’obiettivo è discutere temi importanti come ambiente e crisi climatica, senza voler mettere in difficoltà il Consorzio. Ha anche riconosciuto il ruolo dell’ente nel vigilare sul rispetto degli animali e della natura, aggiungendo però che se un’inchiesta giornalistica genera provocazioni, il confronto non dovrebbe diventare un tabù.

Per compensare il buco nel budget, è stato lanciato un crowdfunding sulla piattaforma Produzionidalbasso.com. La risposta è stata immediata e significativa: in poche ore sono stati raccolti oltre 5.000 euro, superando ampiamente l’importo della sponsorizzazione ritirata. Un segnale chiaro che le persone, quando coinvolte su tematiche etiche, rispondono agli appelli.

Giulia Innocenzi ha commentato la vicenda con un video diventato virale, definendo l’accaduto un esempio lampante di come l’industria zootecnica cerchi di silenziare attraverso il potere economico chi racconta cosa avviene negli allevamenti. “Ma questa volta il tentativo di censura gli è andato male” ha sottolineato, invitando le persone a dimostrare di non aver bisogno dei loro soldi, e che insieme si è più forti.

Un aspetto interessante riguarda la copertura mediatica. Nonostante la visibilità ottenuta grazie alla controversia, di fatto l’unico giornale più importante a seguire la vicenda è stato il Resto del Carlino. Una situazione che solleva interrogativi sul rapporto tra editoria e grandi inserzionisti: il Consorzio investe ingenti somme in pubblicità sui giornali nazionali, il che potrebbe influenzare le scelte editoriali, creando forme sottili di autocensura preventiva.

Le sponsorizzazioni culturali: necessità e contraddizioni

La vicenda apre una riflessione sul ruolo delle sponsorizzazioni private nel settore culturale italiano.

Con i continui tagli ai finanziamenti pubblici, le partnership con le aziende sono diventate essenziali. Nel 2022, i finanziamenti privati alla cultura hanno raggiunto trecentocinquanta milioni di euro.

Tuttavia c’è un rovescio: molte aziende usano le sponsorizzazioni culturali non come reale sostegno, ma come strumento di marketing ewashing“. Pubblicità, video affidati a registi famosi, paginate intere sui giornali per raccontare certificazioni e vicinanza a temi sociali sono diventati il mezzo migliore per ripulire l’immagine aziendale, mascherando comportamenti poco etici: greenwashing (finta sostenibilità ambientale), pinkwashing (strumentalizzazione dei temi inerenti la parità di genere e i diritti LGBTQ+), socialwashing (finto impegno sociale) sono i temi più cavalcati.

Il caso Eni: la narrazione che diventa Matrix

Il caso più emblematico è quello di Eni. Come documentato da A Sud, la più grande compagnia fossile italiana ha intrapreso negli ultimi anni un imponente marketing culturale, finanziando eventi dal Festival di Sanremo alla Serie A, da Agrigento a Mantova, fino a piccoli festival in territori come Taranto, Crotone, Livorno, Porto Marghera. Non luoghi casuali, ma realtà martoriate dall’attività estrattiva e industriale legata ai combustibili fossili.

La comunicazione di Eni, attraverso Plenitude, Be Charge ed Enilive, presenta un mondo parallelo di paesaggi bucolici ed energia pulita. Una vera Matrix dove si vedono prati verdi invece dell’inquinamento reale. Questo mentre nel 2022 le attività di Eni hanno causato più inquinamento da gas serra dell’Italia stessa, secondo Oil Change International.

Ma in rete si trovano tantissimi documenti che riguardano la narrazione di un’azienda votata alla sostenibilità, che nei fatti dimostra tutt’altra storia. Per non parlare della causa improntata da Greenpeace contro il colosso del fossile italiano, causa che proprio quest’estate ha portato a casa un primo risultato importante.

La proporzione è significativa: nel 2023, su 9,2 miliardi di investimenti totali, Eni ha destinato solo 95 milioni allo sviluppo locale (1,03%), contro 75 milioni per pubblicità e comunicazione.

Il Piccolo Teatro di Milano ha difeso la sponsorizzazione annuale di 250.000 euro da Eni, affermando che la multinazionale sarebbe “fattivamente” impegnata verso la neutralità carbonica. Nell’ottobre 2021, mentre il teatro organizzava Ogni volta unica, la fine del mondo: esercizi di sostenibilità, l’AD di Eni era in Costa d’Avorio per il primo pozzo esplorativo, con un potenziale di oltre 2 miliardi di barili di olio e 2,4 trilioni di piedi cubi di gas. Così, tanto per dire.

Ma non sono assenti da questa incongruenza etico-valoriale neppure i tre sindacati di maggioranza, che hanno accettato le sponsorizzazioni di Glovo, Deliveroo e Banca Intesa in occasione del Concertone del Primo Maggio dedicato al Lavoro.

Il dilemma degli organizzatori culturali

Per chi organizza eventi culturali, il dilemma è reale e doloroso: rinunciare a sponsorizzazioni importanti significa spesso mettere a rischio la sopravvivenza stessa della manifestazione, ma accettarle significa correre il rischio di creare cortocircuiti di coerenza tra ciò che le aziende propagandano in materia di etica e sostenibilità e i loro comportamenti reali. Significa anche, potenzialmente, autocensurarsi sui temi scomodi per lo sponsor.

Alcune realtà hanno scelto la strada dell’indipendenza.

FestiValori, il festival di Valori.it e Fondazione Finanza Etica, rinuncia in modo esplicito a ogni finanziamento o sponsorizzazione proveniente da aziende del fossile, che commerciano in armi o che non rispettino minimi parametri etici. Una scelta che comporta sacrifici economici, ma che garantisce libertà di programmazione e coerenza con i valori dichiarati.

Il conto corrente di chi è sceso in piazza per Gaza

La questione delle sponsorizzazioni etiche si intreccia con un altro tema spesso ignorato: il ruolo delle banche nel finanziamento delle guerre. Secondo i dati del ministero dell’Economia e delle Finanze relativi alle operazioni disciplinate dalla legge 185/1990 sul commercio di armi, nel 2024 le principali banche italiane hanno intermediato operazioni per miliardi di euro.

UniCredit ha gestito operazioni per 1,3 miliardi di euro, Intesa Sanpaolo per 722 milioni, Deutsche Bank per 1 miliardo. Queste banche sono spesso sponsor di eventi culturali, sportivi e sociali. Quante delle persone scese in piazza per manifestare contro la posizione del governo italiano su Gaza, o quante di quelle che hanno seguito la Global Sumud Flotilla, conoscono i comportamenti delle loro banche in merito ai finanziamenti alle guerre?

È una domanda scomoda, che mette in luce la complessità della questione etica nel mondo contemporaneo. La coerenza tra valori dichiarati e comportamenti effettivi non riguarda solo le grandi aziende o i consorzi, ma anche le istituzioni finanziarie che usiamo ogni giorno, e che attraverso le sponsorizzazioni costruiscono un’immagine pubblica spesso lontana dalla realtà dei loro investimenti.

Un nuovo patto con la cultura

Il caso del Reggio Film Festival rappresenta una lezione di libertà culturale. Gli organizzatori hanno scelto di non cedere alla pressione economica, rivendicando il diritto di ospitare voci diverse. La risposta del pubblico, che ha donato oltre 5.000 euro superando l’importo della sponsorizzazione ritirata, dimostra che esiste una domanda di cultura libera.

Il successo del crowdfunding suggerisce che le persone sono disposte a sostenere iniziative coerenti con i propri valori. È un segnale importante: forse esiste una terza via tra la dipendenza dalle sponsorizzazioni condizionanti e l’insufficienza dei fondi pubblici. Una via fatta di partecipazione diretta, piccole donazioni moltiplicate, comunità che si riconoscono in progetti culturali.

Come ha detto Scillitani: “Crediamo nella libertà di opinione. La raccolta fondi servirà per sostenere le battaglie su tematiche sociali e ambientali. Per evitare che sia considerato proibito ciò che è e deve restare libero”. In un’epoca in cui il potere economico cerca di influenzare la vita pubblica, questa affermazione suona come un manifesto di resistenza culturale.

La vicenda racconta la tensione tra libertà culturale e condizionamenti economici, tra sopravvivenza delle istituzioni e necessità di indipendenza.

C’è bisogno di un nuovo patto fra lettori e editori, fra chi divulga e chi riceve l’informazione.

Non è una questione di intelligenza artificiale o nuove tecnologie. Le Persone devono iniziare a guardare sotto il cofano di tutto ciò che acquistano o ricevono e pretendere coerenza e consapevolezza.

La consapevolezza di sapere che quelle aziende e quelle istituzioni hanno bisogno delle Persone (e non il contrario). E qualche volta, anche quando pensiamo che una scelta possa procurare un tornaconto, avere il coraggio di dire di no.

 

 

 

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