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Marco Tullio Giordana, la meglio gioventù con la vita accanto
Il mestiere del cinema secondo il regista de “La vita accanto”, in una visione eretica e integrale: “Scelgo gli attori con grande scrupolo, anche chi in scena deve dire solo Prego, e quando metto nel film un personaggio che suona, allora quel personaggio deve saper suonare realmente nella vita. Così il film diventa un pezzo […]
Un milanese alle prese con un film su Peppino Impastato faceva capire, già ventiquattro anni fa, la grana di Marco Tullio Giordana: un impavido col pallino di dire come stavano le cose italiane che non si potevano dire, le cose civili. Nell’ultimo film – è venuto a presentarlo ad Arezzo allo storico cinema Eden – per la prima volta mette in panchina l’occhio sulla società, sul sistema, via la politica vista di fronte: l’unico ancoraggio a cui attacca il film sono gli anni Ottanta di una Vicenza beghina e una storia di famiglia asfissiata da forme d’amore vario: materno, professionale, di coppia, fratelli e sorelle.
“Che rapporto c’è tra lei e Bellocchio?”, gli chiedono dalla platea. “Non un rapporto omosessuale, signora”.
Riporto la domanda perché rivela la plancia emotiva su cui la gente muove i comandi delle emozioni quando sta davanti a un regista. “La vita accanto è un film in cui Marco Bellocchio mi ha proposto di subentrargli nella regia, aveva deciso di abbandonarlo, è rimasto tra i produttori. Davanti alla proposta ho provato una di quelle sensazioni che arrivano quando ci chiediamo se saremo o meno capaci di farcela. Ora che il film è vostro posso confessare che avevo subito sentito di sì, ce l’avrei fatta, che per me è abbastanza rara come suggestione. Per quanto sono i progetti in cui non sai dove mettere le mani quelli che diventano straordinari se le mani ce le metti. Mi era successo con I cento passi, mi ripetevo di continuo che ero milanese, cosa potevo saperne io della Sicilia e della mafia, avrei potuto dire solo ovvietà, non ce l’avrei fatta, mi dicevo, e invece l’ho fatto, e non è venuto maluccio”.
Sorridiamo tutti, lui per primo.
Va detto: non è uno che vorrebbe stare sul palco a spiegare il film, lo ripete più volte, così come dichiara l’amore per gli spettatori ogni volta che li vede negli occhi; gli piace proprio avere un pubblico davanti, gli piace smentire chi ripete con ossessione che la gente al cinema non ci va più.
Dal pubblico gli chiedono qual è secondo lui il miglior film di Venezia 2024, “di quest’anno o anche dell’anno scorso, se preferisce”; il regista si dimena dalla morbosità in meno di un secondo. “Per fortuna faccio il regista e non il critico. Non dirò mai come sono i film degli altri perché so cosa vuol dire fare un film, quanta fatica ci vuole, persino il film più brutto ne richiede tanta. È il motivo per cui non ho mai accettato in tutta la mia vita di stare in una giuria, e chi sono io per decidere il destino di un film? Magari il giorno della valutazione potrei essere indispettito per ragioni tutte mie e rovinare indirettamente la carriera a qualcuno. Mi piace tutto; quando non mi piace, resto in silenzio”.
Marco Tullio Giordana, il cinema che diventa teatro
Lo scambio in sala va avanti, non si risparmia, aspetto che gli escano dalla bocca le tre parole per cui mi sono precipitata quando ho letto sul giornale che sarebbe venuto ad Arezzo. Seduta sulle poltrone verdi, aspetto che dica La meglio gioventù anche se è venuto qui per altro.
“Anche quella volta andò così, il film non volevo farlo quando il produttore Angelo Barbagallo mi propose questa serie per la televisione. La televisione io? Ma no, mai. Finché capii che io li conoscevo tutti, i personaggi di quella sceneggiatura, dentro di me ce li avevo tutti in mente. Siccome era un produttore molto illuminato gli chiesi ‘posso scegliere gli attori, uno ad uno, ma non dal parco delle solite facce, dei soliti nomi?’. Volevo inventare una nuova generazione tra quelli che avevano stoffa anche se erano giovanissimi, li vedevo a teatro, li avrei saputi riconoscere per i loro talenti senza che fossero raccomandati o protetti. Barbagallo mi disse: faremo così. Un episodio raro nel mondo del cinema. L’anno scorso abbiamo festeggiato i vent’anni con tutto il cast de La meglio gioventù: loro erano rimasti uguali, bellissimi, ancora giovani, io sembravo invecchiato come nel ritratto di Dorian Gray”.
Non gli piace ripetere sempre le stesse versioni, le stesse parole per raccontare qualcosa (all’Eden deve chiudere la prima proiezione col pubblico e aprire la successiva, muovendosi sul crinale di non rivelare il finale a chi non ha ancora visto il film), raccontare per inerzia non è il suo: “Mi annoio. Diventa un problema quando vado dai produttori a proporre un film, ogni volta glielo racconto in modo diverso, restano disorientati, spiazzati, sono fatto così”.
Se il cinema è l’arte più artefatta e costruita che esista – parole sue – “quando metto nel film un personaggio che suona, allora quel personaggio deve saper suonare realmente nella vita. Come Sonia Bergamasco qui, lei del resto è diplomata in pianoforte, e Beatrice Barison, che non è un’attrice di mestiere, ma appunto una giovane pianista. Se un musicista suona in un film succede una cosa molto strana: il film diventa all’improvviso un pezzo di teatro, torna vivo, non c’è artificio, non c’è montaggio, non c’è la faccia di uno attaccata alle mani di un altro”.
Mi sposto dalla poltrona perché il collo fisso da mezz’ora sotto l’aria condizionata dell’Eden mi ricorda che non faccio più parte della meglio gioventù; mentre mi sposto gli sento dire una frase che mi spinge verso Luchino Visconti, maniaco delle cose minime rese perfette anche se al cinema non le avrebbe mai viste nessuno. “Scelgo gli attori con grande scrupolo, anche chi in scena deve dire solo prego, sennò tutto il film cade in quella battuta. Poi sul set non do mai istruzioni su come girare, chiedo sempre agli attori fatemi vedere voi, e me lo posso permettere perché a monte so di aver scelto professionisti seri, che si preparano prima, studiano, che non danno niente per scontato. Tanto che io di nascosto giro comunque le scene, e spesso vanno bene così. Altro aspetto centrale per me è che non parlino tutti romano”.
La vita accanto, “un viaggio nell’anima”
Marco Tullio Giordana in questo film va giù nel personale, niente collettività, ogni scena scava l’individuo, i conti ce li fa fare con le nostre madri, con i padri, con i legami, con le famiglie che ci partoriscono e poi ci tengono o ci sputano.
“La vita accanto è il mio film più personale, guardate cosa vi dico. Non lo ripeterò più a nessuno, tanto nessuno sta registrando.”
Io registravo, mi perdoni, ma una frase così me la sarei ricordata comunque. Fa per andarsene. “Ho scoperto da poco che sono passati quarantaquattro anni dal mio debutto, sono un sacco di tempo. Credo di aver immagazzinato le influenze di tutti i cineasti del mondo e di non saperli nemmeno più riconoscere. In me c’è stato Scola, Bellocchio, Visconti, Valerio Zurlini. E mi fa sorridere quando i critici dicono che nei film ci vedono questo o quell’altro, perché nei film di cosa vuoi parlare se non di famiglia e di amore, di vita, del giorno per giorno? Per La vita accanto abbiamo finito le riprese prima del previsto, io sono uno che spesso anticipa rispetto alla media dei colleghi che sforano sempre. Alla fine, però, mi sembrava mancasse una scena. Ho chiesto a Bellocchio se si potesse girare, una in più. Girala mi ha detto, senza esitare. Ho apprezzato molto, la maggior parte dei produttori avrebbe detto che andava bene così e si sarebbe tenuto in tasca i soldi avanzati”.
Gli chiedo anch’io una cosa: se gira i film con l’intenzione di parlare anche al momento storico in cui escono e non solo al pubblico, se c’è o no il bisogno di aderire a un tempo. “Gli artisti devono inevitabilmente raccontare il loro tempo perché è lì che agiscono, dovrebbero anzi andare oltre il loro tempo, anticipare. Non so se è il caso di questo film, che è un viaggio nell’anima, non è un viaggio nella storia, anche se c’è, la storia. Certo sono cambiati i riferimenti di quegli anni, anche l’importanza della chiesa è cambiata, ma i meccanismi di afflizione dell’anima, il dolore e il riscatto per venirne fuori, sono gli stessi di oggi”.
Se ne va. “Se avete altre cose da chiedermi, scrivetemi”. Saluta. Applausi.
Mentre lascia la sala e supera le tende di velluto mi alzo di corsa per chiedergli semmai dove scrivergli. Tentenna, sento che sta per darmi un contatto personale e non lo fa, trattiene, magari ho colto male.
“Lei scriva qui al cinema e loro me la girano. Ma non mi mandi una sceneggiatura, per carità”. Confido nell’Eden, e non parlo di fede.
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Photo credits: rbcasting.com
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