Aldo Bonomi e il diamante del lavoro scheggiato

Il sociologo Aldo Bonomi, intervistato da Senza Filtro, descrive il cambiamento di paradigma del lavoro e della società di oggi e i modi per capirli.

Aldo Bonomi è un sociologo di
lunga navigazione che guarda al lavoro e alle categorie che il movimento operaio ha utilizzato, dalla
sua nascita, per interpretare il mondo del lavoro, con uno spirito eterodosso,
disincantato e saggiamente critico. Assetato di curiosità e modernità,
ricercatore minuzioso della società, delle sue pieghe invisibili, dei suoi
micro mutamenti e delle parole che definiscono o ridefiniscono le grandi
trasformazioni sociali, si proclama con autoironia un uomo del ‘900 che a un certo punto della sua formazione, a
cavallo tra la fine del fordismo e l’avvento della share economy, ha dovuto rivedere la cassetta degli attrezzi”,
le chiavi con le quali leggeva la realtà economico-sociale, e dotarsi di una
nuova attrezzatura concettuale.

Quando a Nobìlita ho sentito il suo intervento, le sue suggestive riflessioni sul lavoro che cambia, sui servi della gleba all’ombra delle reti, sulla nuova schiavitù, sul “diamante del lavoro scheggiato” frammentato nel territorio, mi sono incuriosito; forse perché mi sono in parte riconosciuto in quelle inquadrature di fine secolo. Gli ho proposto, in occasione del numero speciale di Senza Filtro su Nobìlita, di fare una conversazione sui suoi temi. Non un’intervista classica, ma una breve riflessione a bassa voce tra due “ragazzi” del ‘900.

Quando hai iniziato a parlare di
“paradigma novecentesco capitale-lavoro”, nuova schiavitù, “scomparsa della
fabbrica” come luogo preminente della produzione, mi hai fatto tornare indietro
ai tempi in cui il mestiere dell’intellettuale o del politico consisteva anche
nel riflettere sulle cose del mondo, attraverso seminari, discussioni e
convegni che non avessero l’incubo di diventare una passerella dei politici di
turno. Un esempio felice, per capirci, mi pare quello di Nobìlita. Oggi forse
non è più così: le cose del mondo passano in rete con una velocità inedita, ma
in profondità rimane poco. Tu che cosa ne pensi?

Ti posso raccontare che cosa è accaduto a me. Quando anni fa ho iniziato a occuparmi di lavoro, il primo sentimento che mi ha assalito è stato quello dello spaesamento. Mi sono chiesto se la cassetta degli attrezzi, delle categorie in mio possesso derivanti dalla mia formazione novecentesca, sarebbero state sufficienti per comprendere la composizione e la realtà sociale del mondo del lavoro. Tu che sei di quella generazione sai bene che la frase cardine di quell’epoca era “dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei”. Una sorta di certificato di appartenenza a una classe sociale ben definita. Quando iniziai a riflettere e a studiare i mutamenti in corso mi resi conto che quella cassetta degli attrezzi era davvero inadeguata; quella domanda non era più sufficiente per connotare la realtà sociale. Il primo a mettermi in guardia sui mutamenti in atto fu il mio grande maestro Giovanni Arrighi.

Scusa se ti interrompo, ma quel nome
mi evoca molte cose. Temo che siano in pochi a ricordarsi di un grande
intellettuale come Giovanni Arrighi, ma certamente lui fu uno dei primi a
intuire i processi di globalizzazione dell’economia e i mutamenti sottostanti.
Forse perché capì prima di altri che mentre lo scontro tra ovest e est, tra
Stati Uniti e Unione Sovietica, sembrava dovesse decidere i destini
dell’umanità del secondo dopoguerra, il conflitto tra nord e sud del mondo, tra
Paesi poveri e ricchi, preparava silenziosamente le condizioni per fenomeni
epocali come ad esempio l’emigrazione di massa o il terrorismo.

Già, proprio così. Lui lo chiamava il sistema mondo. E fu proprio Arrighi a
suggerirmi di aggiungere qualche domanda per connotare i mutamenti in atto: “Dimmi
di che genere sei”, “dimmi di che etnia sei”. All’operaio-massa dell’epoca del
fordismo non si chiedeva l’etnia, bastava che facesse parte della catena del
valore ben rappresentata dalla catena di montaggio. Fu quello un altro tema di
riflessione per rinnovare la cassetta degli attrezzi. Non più e non solo la
catena del valore, ma anche la ragnatela del valore, dove ad esempio il
consumatore finale assumeva e assume un ruolo chiave. Da lì nasce poi la
riflessione per passare da una dimensione del lavoro a una dimensione dei
lavori.

Nel tuo intervento a Nobìlita hai
introdotto un’immagine suggestiva: “Il diamante del lavoro scheggiato”. Che
cos’è questo oggetto misterioso? Presumo tu voglia parlare della frammentazione
del lavoro.

Certo, è così. Potrà sembrare singolare, ma guardando con la lente di
ingrandimento la frammentazione del diamante mi resi conto che rinascevano i
lavori servili, o se vuoi nuove forme di schiavitù. Una provocazione? Quello
che accade a Rosarno o il caporalato nelle campagne del sud e del nord
cos’altro è se non una nuova forma di schiavitù? Certo, lo so bene che è
possibile che queste nuove forme di schiavitù vengano tutelate o normate, ma il
fatto che riaffiorino con tanta forza e sia così difficile sradicarle, come
avviene per il caporalato, è sintomo di un mutamento profondo, endemico al
sistema. Vuoi un’altra provocazione? I nuovi servi della gleba. Se interroghi
le migliaia di piccoli imprenditori che operano in Italia ti rendi conto che
molte forme di sub appalto ci riportano ai servi della gleba, che dipendevano
in tutto e per tutto dal feudatario, come i piccoli imprenditori dipendono dai
grandi gruppi industriali. Così come le nuove gilde, ovvero l’economia dei
lavoretti, connotano una gran parte del mercato del lavoro.

Mi pare che a questo punto la
cassetta degli attrezzi debba essere completamente rinnovata per poter leggere
il mondo del lavoro che ci ha consegnato il nuovo secolo.

In effetti è qui che c’è lo spartiacque. Giunti a fine secolo il paradigma
novecentesco capitale- lavoro, con i suoi dispositivi di inclusione sociale,
viene drammaticamente sostituito dal paradigma flussi-luoghi. Nel corso degli
anni Novanta si consuma infatti il declino della dialettica novecentesca
capitale-lavoro, con lo Stato in mezzo in funzione redistributiva, in favore
del paradigma flussi-luoghi, con lo Stato in funzione regolativa. La fabbrica
sparisce, o comunque viene fortemente ridimensionata, e viene sostituita dal
territorio, dalla geopolitica, che diventa lo scenario della dinamica tra
flussi globali di merci, persone e informazioni. Che cosa sono i flussi? il
sistema finanziario globale, il Web, le tecnologie di comunicazione, i sistemi
logistici, le migrazioni, i linguaggi scientifici, il commercio internazionale,
l’economia criminale e il terrorismo. Anche le reti hard e soft sono flussi. E
i grandi flussi oggi impattano sul territorio, che diventa il luogo dei
conflitti sociali. Una volta il luogo dei conflitti era la fabbrica; oggi c’è
il trionfo della moltitudine.

Non pensare di cavartela così. Ora ti
faccio una domanda da un milione di dollari: dentro questa metamorfosi, che cosa
significa fare politica? C’è chi dice ad esempio che la sinistra abbia perso la
sua battaglia storica perché ha abbandonato il territorio e si è affidata
soltanto ai flussi; mentre i sovranisti starebbero vincendo per aver intuito
l’importanza dell’occupazione del territorio. L’esperienza recente della Lega è
eloquente quanto la crisi d’identità del Pd, ex partito di massa.

È una domanda complessa, ma voglio risponderti. Io credo che far politica oggi significhi mettersi in mezzo tra flussi e luoghi. Avere la capacità di governare due opposti che sembrano inconciliabili. Avere la capacità di stare nei luoghi, conoscerli e praticarli, ma al tempo stesso conoscere i flussi per poterli gestire. Da questo punto di vista il tema dell’immigrazione che coinvolge flussi e luoghi è emblematico. Così come lo sono i flussi finanziari nell’epoca della globalizzazione. La sinistra italiana, ad esempio, negli ultimi anni ha fatto l’errore di affidarsi soltanto ai flussi lasciando ai sovranisti la gestione del territorio. Un errore grave, perché a mio parere non si batte il sovranismo ergendosi a difensori dei flussi e abbandonando il territorio a se stesso. Stare nella contemporaneità significa saper gestire la globalizzazione, ovvero conciliare local e global. Se no non se ne esce: prevarrà la società chiusa del rancore, dell’incertezza e della paura, asserragliata nel territorio, immaginata dai sovranisti.

Photo credits: Andrea Verzola

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