Anche l’argento muore. La Bolivia dei minatori bambini

I minori che lavorano, in Bolivia, non vogliono essere salvati, neanche dalle miniere: chiedono il diritto di lavorare senza sfruttamenti quando tutti gli altri gli sono negati. Recensiamo “La bambina d’argento” di Ander Izagirre.

“Quando esco vorrei baciare la luce, berla, spalmarmela in faccia”. Sono le parole che Ander Izagirre, giornalista e scrittore autore de La bambina d’argento, usa per descrivere la sensazione che prova ogni volta dopo essere stato all’interno di una miniera, per vedere coi suoi stessi occhi il luogo di lavoro di “diecimila, dodicimila minatori che ogni giorno vanno sottoterra e continuano a perforare”.

Sedici e più ore al giorno stretti tra gallerie e cunicoli e scavare la roccia per estrarne materie prime preziose, ricavando uno stipendio misero. Dentro le miniere è buio, ma nemmeno fuori dalle miniere per i lavoratori c’è luce.

La bambina d’argento e la vita dei minatori boliviani

“L’abbondanza di materie prime è stata spesso una maledizione per i Paesi deboli che le avevano; chi le possiede si impadronisce del Paese e la ricchezza diventa semplicemente un’altra causa della povertà”. È il destino della Bolivia, ma è anche il destino di molti altri Paesi del mondo governati da sistemi corrotti, che non ascoltano la voce dei propri popoli.

Povertà, malattie, ubriachezza, malnutrizione e nessuna possibilità di riscatto sociale sono tutto ciò che esiste fuori dalla pancia del Cerro Rico di Potosì. Poi c’è la coca. La coca aiuta a non sentire la fame, ad alleviare la stanchezza, a rendere quell’esistenza disumana sopportabile, a convivere con la silicosi, la cosiddetta malattia dei minatori.

La vita di questi lavoratori è dura, ma è così anche per le donne? Per una legge non scritta “le donne non devono entrare in miniera”, perché nel momento stesso in cui entrano diventano vittime di abusi e violenze. I minatori scaricano su di loro le proprie frustrazioni, i propri istinti brutali; stuprano anche le ragazzine e poi le gettano come fossero rifiuti. Alcune restano incinte, e quando nascono i figli degli abusi a loro volta le vittime se ne disfano, uccidendoli e seppellendone i corpicini sotto quella terra dura, ricca di minerali e povera di umanità.

Bolivia: i minori vogliono lavorare, ma non essere sfruttati

“La legge dice che neanche noi minori dobbiamo entrare.”

La voce, fragile e forte al tempo stesso, è quella di Alicia Quispe, nome scelto dall’autore per tutelare la vera identità della quattordicenne che ha ispirato il libro e che è stata protagonista dei suoi reportage. “Preferisco tenere il suo nome segreto perché non venga mandata via dal suo lavoro clandestino. Un lavoro che un direttore delle cooperative di minatori mi dirà che non esiste”.

Alicia è una dei tanti invisibili che vengono sacrificati da decenni per le estrazioni minerarie. “Il governo boliviano ha calcolato che nel 2011 ci fossero 3.800 minori che lavoravano nelle miniere. Il Cepromin (un’associazione sindacalista fondata nel 1979 N.d.R.) stima che ce ne siano 13.000”. Alice vive “sulla montagna di argento che abbagliò i conquistadores spagnoli” con la madre e la sorellina, a circa 4.400 metri di altezza, “nell’unico posto dove possono vivere: un posto in cui vivere è quasi impossibile”.

La quattordicenne va a scuola, ma è costretta anche a lavorare per estinguere un debito contratto colposamente dalla madre. La donna, a cui era affidata la custodia di attrezzature di alcuni minatori, ha subito il furto dell’attrezzatura stessa, e per questo la figlia è stata costretta per anni a quel lavoro per saldare il conto.

Alicia, crescendo, è diventata presidente di un’associazione di bambini lavoratori che, a differenza di quanto si potrebbe pensare, combatte affinché i bambini delle famiglie più povere possano continuare a lavorare, ma non vengano sfruttati. Spesso, infatti, in presenza di genitori malati, o in assenza di un padre e/o di una madre, sono i bambini a provvedere al loro stesso mantenimento, per non rischiare di morire di fame. Si lavora per sopravvivere.

La falsa coscienza dell’Occidente sul lavoro minorile

La storia privata di Alicia è anche la storia della Bolivia. Molto toccante è infatti il passaggio in cui Alicia porta al presidente Evo Morales una lettera dei bambini lavoratori di Portosì.

“Tutti noi siamo oggetto di discriminazioni, sfruttamento e abusi perché siamo bambini, bambine e adolescenti lavoratori. Veniamo pagati meno, non abbiamo contratti, né assicurazione sanitaria (…). Ci sono delle leggi, ma nessuno difende i nostri diritti”.

Il 18 dicembre 2013, scrive l’autore, la polizia usò i lacrimogeni contro una manifestazione di bambini e bambine davanti al parlamento boliviano a La Paz, che stava per introdurre il Codigo del Menor, con cui si intendeva proibire il lavoro ai minori di quattordici anni. Precedentemente, nel 2007, a fronte delle proteste dei bambini era stato introdotto un emendamento alla nuova Costituzione che anziché vietare il lavoro dei bambini rendeva illegale il loro sfruttamento e il lavoro forzato.

“A fronte dell’opposizione dell’Organizzazione internazionale del lavoro, dell’Unicef e di Save the Children, che considerano il lavoro minorile un crimine, i manifestanti convinsero il governo boliviano a cambiare idea.”

Perché leggere La bambina d’argento

La bambina d’argento è un libro sospeso tra memoir e reportage, che da un lato offre uno spaccato ricco e approfondito sulla storia della Bolivia, dei movimenti sindacali, delle lotte dei minatori, e dall’altro racconta con tono di denuncia la corruzione della politica e dei precari equilibri internazionali, che calpestano i diritti umani in nome del profitto.

Come scrive l’autore, “i minatori sono alla mercé di queste montagne russe internazionali”. La scelta della figura di Alicia, una bambina realmente esistente, che studia perché vuole una vita migliore, che diventa rappresentante di un’associazione di bambini che lottano per i propri diritti, ma che continua a scendere ogni notte in miniera, nonostante tutto, conduce il lettore a guardare gli eventi senza filtri.

È un libro che costringe a guardare da un osservatorio diverso da quello europeo e occidentale, dove il lavoro minorile è considerato una piaga, perché là dove la miseria e la povertà dettano legge, le leggi stesse si devono adeguare: “Nelle famiglie della classe media nessuno si sognerebbe di dire che i bambini hanno diritto di lavorare. È una cosa che solo i poveri chiedono. (…) Come possiamo difendere il diritto a qualcosa che è riservato solo ai più poveri e che è impensabile per il resto della società?”.

L’opera di Izagirre spinge a riflettere sul male della povertà quale condizione non solo di disagio economico, ma anche di mancanza e privazione dei diritti fondamentali. Forse, per comprendere meglio questa realtà, dopo aver letto La bambina d’argento sarà utile farsi una chiacchierata con nonni e bisnonni e chiedere loro che cosa ha significato iniziare a lavorare quando erano minorenni e senza tutele, dopo la guerra, quando c’era un Paese da ricostruire e le leggi e i diritti umani andavano riscoperti e riscritti con un nuovo spirito.

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