Massimo Fini: “Il giornalismo è a pezzi perché non esce più dalle redazioni”

Trent’anni di cronache, interviste e personaggi irripetibili: Massimo Fini racconta la sua carriera ne “Il giornalismo fatto in pezzi”, che recensiamo, con un’intervista esclusiva all’autore.

C’è una modalità particolare che viene adottata dalle case automobilistiche di lusso, che è quella di acquistare un’auto della concorrenza e smontarla in (tanti) pezzi: per vedere come la costruiscono gli altri competitor, per carpirne i segreti.

Massimo Fini ha realizzato per Marsilio una collezione di articoli “fatti in pezzi” raccolti appunto nel libro Il giornalismo fatto in pezzi. E così tra inchieste, reportage, interviste frutto di trent’anni di attività giornalistica, si arriva a un manuale di giornalismo di 800 pagine dagli anni Settanta al Duemila.

Trent’anni di cronaca e interviste: Il giornalismo fatto in pezzi di Massimo Fini

Massimo Fini ha la capacità di catapultarti ovunque e da chiunque: da Teheran con il reportage firmato per l’Europeo come inviato nell’Iran di Khomeini, ai tempi della pubblicazione del celebre romanzo Versetti satanici di Salman Rushdie, a Mosca, dove per la Domenica del Corriere (le copie cartacee originali e a colori di quel reportage sono una chicca per chi ha la fortuna di averle conservate) ha raccontato a puntate la quotidianità del popolo russo, in un’epoca che stava per entrare di diritto nei libri di storia: siamo in piena transizione dalla Guerra Fredda e dalla CCCP/URSS verso la perestrojka di Gorbaciov.

Il mondo russo, che lo lega anche alle sue origini famigliari (Fini è di madre russa), riaffiora anche quando intervista il più grande danzatore russo e del mondo, Rudy Nureyev, con il supporto proprio della madre nel ruolo di traduttrice. E da qui, dalla divinità del balletto, inizia un elenco di personaggi trasversali che Fini ha raccontato da cronista e guardandoli tutti dritto negli occhi, nessuno escluso: Susanna Agnelli, a cui è legato da sincera amicizia, Angelo Rizzoli, di cui è testimone del grande dramma famigliare con il crollo del suo impero imprenditoriale, strozzato dalla P2.

E ancora figure della cultura, quali Luchino Visconti, genio nobile e aristocratico raccontato dalle sorelle adoranti; Anna Magnani, le cui vere sofferenze nel quotidiano vengono rivelate anche alla luce di una carriera a cui si è affiancata una vita privata alquanto tormentata; o Ermanno Olmi, con cui dopo un’intervista si instaura un rapporto di stima e amicizia. Senza dimenticare i giornalisti principi e acerrimi nemici, come Curzio Malaparte e Indro Montanelli.

E ancora: la Fiat, l’Olivetti, l’Alfa Romeo. Nel libro summa c’è tutta la capacità di documentare del cronista Fini, che tratteggia per il lettore tutto quello di cui è testimone diretto, senza sconti.

SenzaFiltro però è un giornale che si occupa di temi legati al mondo del lavoro. Leggendo Il giornalismo fatto in pezzi in questa chiave, ho trovato davvero incredibile come degli articoli sullo spaccato della società di allora – quarant’anni fa – siano ancora incredibilmente attuali, rileggendoli oggi. Due su tutti mi hanno colpito: “Il laureato a spasso” e “La sconfitta dei quarantenni”.

Sappiamo bene come il tema dei quarantenni e dei laureati a spasso, con tutte le criticità del caso, sia ancora attuale; così, rileggendo queste due inchieste, pare di essere ai giorni nostri: con le stesse problematiche e le stesse risposte che latitano davanti alle tante domande che vengono poste a una classe politica sempre altrove quando si tratta di focalizzare e risolvere questioni che riguardano il presente e il futuro di una parte importante del Paese. Una parte che suo malgrado si ritrova abbandonata al suo destino.

“Vuoi lavorare? Nascondi la laurea”. Che cosa è cambiato, che cosa è rimasto

“Su consiglio di un amico, ho provato a far sparire dalla mia documentazione ogni accenno alla laurea. Mi sono presentato con la sola licenza media. Ed è stata la mia salvezza. Il posto di lavoro finalmente è arrivato: alla Pirelli”, racconta un laureato nel 1977.

Il titolo di studio che invece di diventare un valore rischia di essere di detrimento: se vuoi lavorare, non puoi essere laureato. Scrive Fini: “La laurea, il titolo di studio, che un tempo era il fiore all’occhiello, il frutto di anni di sacrifici personali, il coronamento, magari, delle aspirazioni di una famiglia povera, oggi deve essere nascosto quasi fosse una malattia infamante”.

Forse, rispetto a oggi, occorre registrare come ai tempi (siamo negli anni Settanta) ci fosse meno ipocrisia anche da parte dei responsabili delle risorse umane nel dichiarare quali fossero le motivazioni che portavano a questo muro contro muro.

Uno di questi, il direttore del personale dell’Alfa Sud, intervistato da Fini, dichiarava: “Per l’intellettuale fare l’operaio è un ripiego, un degradarsi, una delusione. Ogni volta che laureati e diplomati vengono assunti come bassa manovalanza si crea questo problema. Per questo c’è diffidenza ad assumerli”. E un dirigente della Bayer rincarava la dose: “Noi non assumiamo personale laureato o diplomato. Facciamo dei corsi interni organizzati da noi. Ci costano un occhio della testa, ma riteniamo che ne valga la pena anche perché ci consentono di spostare la manodopera là dove ce n’è effettivamente bisogno.”

Al giorno d’oggi invece sono all’ordine del giorno le mancate risposte dei recruiter con i loro “le faremo sapere”, o peggio ancora con i loro silenzi che denotano una mancanza di coraggio anche nel dire come stanno davvero le cose.

Così, se sei laureato ti ritrovi con gli stessi problemi di allora ma con ipocrisie crescenti da affrontare: dalla società che ti chiede di formarti e studiare per poi non essere pronta ad accoglierti nel mondo del lavoro come meriteresti.

Dagli anni Settanta a oggi, quarant’anni di sconfitta dei quarantenni

È una generazione che è stata presa per il sedere”, scrive Fini per raccontare la sconfitta dei quarantenni in un’altra sua inchiesta di quegli anni. Un tema raccontato per L’Europeo, che è anch’esso attuale anche alla luce della pandemia, è quello relativo a uno dei valori più preziosi della nostra epoca: il tempo.

Scrive Fini: “I quaranta sono un’età difficile, oggi come ieri, perché segnano il momento dei consuntivi e dei bilanci. Ci si accorge, a volte, di avere sbagliato le scelte, o meglio, di non averne fatte per nulla, ma di aver subito quelle che per noi hanno fatto gli altri o le circostanze”.

Quanti quarantenni di oggi potrebbero ritrovarsi in quello scritto da Fini nel 1976? Come chi negli anni Settanta ha corso in maniera frenetica per rincorrere la carriera, per poi ritrovarsi deluso da quello che tanto sforzo ha effettivamente regalato: un ufficio più prestigioso, molti oneri, poco tempo libero. Così un ex dirigente della Renault racconta a Fini che a 46 anni ha abbandonato tutto per aprire una bottega di ceramica ad Albisola.

Quanti di noi in questi due anni, con i tempi rallentati dalla pandemia, non hanno pensato a un drastico cambio di vita? Oggi il quarantenne – come negli anni Settanta – o si è realizzato o difficilmente avrà modo di sbocciare, anche alla luce della nostra società non proprio dinamica nel cogliere e abbracciare le carriere trasversali e i cambiamenti professionali tra un settore e l’altro: la spinta è quella a specializzarsi in un solo settore, non sapendo quasi nulla di altro. Super conoscitori di un microcosmo, ma profondamente ignoranti sul resto.

Una miseria culturale che negli anni Venti del Duemila avrebbe bisogno di figure intellettuali, che latitano profondamente nel dibattito pubblico e nei talk show, frequentati dai soliti noti che nulla riescono ad apportare rispetto al già noto teatrino degli opposti permanenti. Uno spettacolo (dis)animato da una dialettica asfittica, incentrata su fazioni distinte.

Perché leggere Il giornalismo fatto in pezzi

I pezzi contenuti nel testo andrebbero fatti leggere (anche) nelle scuole di giornalismo e ai giovani che sognano ancora – nonostante tutto – di iniziare questo mestiere per insegnare loro l’ingrediente fondamentale, oltre alla passione e alla curiosità. Quell’ingrediente non si può inventare, ma solo affinare: l’arte di raccontare la realtà, scrivendone.

La conclusione, brevissima, del libro di Fini è per Pier Paolo Pasolini, un intellettuale che comprese prima di tutti il rischio della società dei consumi e del consumismo di massa e che viveva male i propri tempi. E quando Fini, che non ha mai avuto problemi nel porre domande scomode a chicchessia, gli chiede: “Lei non ama questa società borghese, la disprezza con tutta l’anima eppure lei è un regista affermato, un uomo ricco, un privilegiato. Lei, in fondo, in questa società ci sta bene o, perlomeno, il suo malessere è molto ben ripagato. Non le pare”?

La risposta di Pasolini è da par suo: “Io mi trovo malissimo. Malissimo. Lei mi parla di due cose che sono incommensurabili. Se lei mi dicesse scegli un po’, io preferirei essere un regista che non può fare i suoi film, molto più povero di quello che sono, fare l’insegnante, ma che il mondo che ho intorno a me fosse quello che ho amato, che amavo, che desidero, che amo ancora. Non ho il minimo dubbio su questo. Preferirei essere uno dei poveri delle Mille e una notte piuttosto che il Pasolini di oggi”.

Un intellettuale come Pasolini che cosa avrebbe detto di questi ultimi due anni che abbiamo vissuto?

Fini saprebbe porgli ancora oggi la domanda giusta.

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