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Pugliese, classe '88. Da quando è bambina ha sempre avuto un libro tra le mani e da allora non ha mai smesso di coltivare la passione per la lettura e il piacere di raccontare gli animi umani. Laureata in Scienze Politiche - Relazioni Internazionali, specializzata in Risorse Umane, con un occhio di riguardo sulla parità di genere. Il suo motto è lo stesso di Oprah Winfrey “Il segreto della vita è che non ci sono grandi segreti. Qualunque sia il tuo obiettivo, puoi arrivarci se sei disposto a lavorare”

Alessandra Quaranta

Pugliese, classe &#8217;88. Da quando è bambina ha sempre avuto un libro tra le mani e da allora non ha mai smesso di coltivare la passione per la lettura e il piacere di raccontare gli animi umani. Laureata in Scienze Politiche &#8211; Relazioni Internazionali, specializzata in Risorse Umane, con un occhio di riguardo sulla parità di genere. Il suo motto è lo stesso di Oprah Winfrey “Il segreto della vita è che non ci sono grandi segreti. Qualunque sia il tuo obiettivo, puoi arrivarci se sei disposto a lavorare”

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Il mensile numero 110 di <em>SenzaFiltro</em>, "Di tutte le Russie", dedicato alla cultura russa, contro ogni forma di cancellazione all'indomani di una guerra che rischia di fare danni più profondi di quelli che immaginiamo.

Numero 110 - Di tutte le Russie


<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500">Osservazioni dalla giornata dedicata alla cultura russa e alla ONG Memorial dall&#8217;Università per Stranieri di Siena, con l&#8217;intervento del rettore Tomaso Montanari. Per rimettere al centro un patrimonio comune su cui poggia tutta una parte dell&#8217;identità occidentale che rischiamo di rinnegare con la scusa della guerra in Ucraina.</p>



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<p>Civile è un sostantivo, civile è un aggettivo.</p>



<p>Con lo scoppio delle guerre prevale sempre il primo utilizzo della parola, che alla fine viene ridotto a un numero, e quasi mai definito. <em>Un massacro di civili, bombardati i palazzi dei civili, i civili le vere vittime</em>. Io prediligo invece l’aggettivo perché si porta tutt’altra generosità di significati.</p>



<p>Quando <strong>Tomaso Montanari</strong>, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, entra in aula magna con la FFP2 color arcobaleno e con su scritto <em>Peace</em>, l’associazione che mi scatta in testa è immediata: per fortuna le università rivendicano ancora la dignità del pensiero, del dissenso, se serve, e mai come adesso serve; del dibattito che può e deve andare controcorrente se la corrente rischia di appiattire il corso del fiume.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/montanari.jpg"><img width="1024" height="839" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/montanari-1024x839.jpg" alt="Il rettore dell'Università per Stranieri di Siena Tomaso Montanari." class="wp-image-49601" /></a><figcaption>Il rettore dell&#8217;Università per Stranieri di Siena Tomaso Montanari.</figcaption></figure></div>



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<p>Qui c’è l’unico ufficio di rappresentanza dell’Università Statale di San Pietroburgo in Italia.</p>



<p>È il 23 marzo e c’è un’intera <strong>giornata dedicata alla cultura russa</strong> in facoltà: presentazioni di libri, traduzioni, proiezioni di documentari, dibattiti e confronti che non danno niente per scontato se non che questa guerra è sbagliata per principio, ancor prima che per ragioni politiche a cui si possa appartenere o meno. L’aula magna è piena di studenti, hanno i vent’anni che dovremmo immaginare di avere tutti davanti a qualsiasi guerra per indignarci e riempire le piazze; ma oggi riempiamo solo i social dove nelle ultime settimane si sono consumate le dita sui tasti fino a spellarsele per commentare le ridicole <strong>esclusioni di professionisti</strong> dal mondo del lavoro solo perché <strong>legati a vario titolo alla Russia</strong>. Una su tutte quella di <strong>Paolo Nori</strong>, allontanato dall’Università Bicocca di Milano dove gli avevano prima chiesto di tenere una lezione su Dostoevskij, e poi, allo scoppio del conflitto, gli avevano sottratto il corso a meno che non parlasse anche di letteratura ucraina.</p>



<p>“Mi avevano invitato loro”, aveva commentato in una diretta Instagram lo stesso Nori, “e trovo che quello che sta succedendo in Ucraina sia una cosa orribile e mi viene da piangere solo a pensarci. Ma quello che sta succedendo in Italia oggi, queste cose qua, sono cose ridicole: censurare un corso è ridicolo. <strong>Non solo essere un russo vivente è una colpa</strong>, oggi, in Italia, <strong>ma lo è anche essere un russo morto</strong>, che quando era vivo nel 1849 è stato condannato a morte perché aveva letto una cosa proibita. Che una università italiana proibisca un corso su un autore come Dostoevskij è una cosa che io non posso credere. Non condivido questa idea che se parli di un autore russo devi parlare anche di un autore ucraino, ma ognuno ha le proprie idee. Se la pensano così, fanno bene. Io purtroppo non conosco autori ucraini, per cui li libero dall’impegno che hanno preso e il corso che avrei dovuto fare in Bicocca lo farò altrove”.</p>



<p>Quell’altrove sarà proprio la Stranieri di Siena, il 31 marzo: una lezione per gli studenti del corso di russo ma accessibile in streaming da tutti. Intanto la Bicocca aveva reinvitato Nori e pure diffuso una nota che esordiva così: “Siamo un ateneo aperto al dialogo e all’ascolto”, ma se devi fare una nota per spiegare chi sei vuol dire che è già tardi, che le tue azioni hanno parlato per te, che la tua apertura non è un’attitudine ma un messaggio, che l’incoerenza ti ha già tagliato le gambe.</p>



<p><strong>Dispiace dover riconoscere un qualsiasi merito alle guerre</strong>, che purtroppo rivelano fino in fondo cos’abbiamo realmente sottopelle, quando ci illudiamo di non essere visti mentre ci grattiamo di nascosto.</p>



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<h2 id="h-tomaso-montanari-rettore-universita-per-stranieri-di-siena-ospiteremo-la-lezione-di-nori-l-universita-e-il-contrario-del-nazionalismo">Tomaso Montanari, rettore Università per Stranieri di Siena: “Ospiteremo la lezione di Nori. L’università è il contrario del nazionalismo”</h2>



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<p>Mi presento a Montanari, parliamo.</p>



<p>Lontano dal flusso insopportabile della cronaca, una piccola università italiana si ritaglia una fetta di luce. Piccola magari nella taglia – circa 3.000 studenti – ma non nelle idee: <strong>non escludere nessuno, imparare dall’altro, dialogarci</strong>. Gli chiedo subito di Nori, del perché si sia fatto avanti come rettore.</p>



<p>“Ho sentito un <strong>dovere di testimonianza civile</strong> – aggettivo – nel provare a mandare il messaggio che in Italia esistono università che la pensano diversamente da quella che lo aveva escluso. Ad ogni modo quella lezione rientra per noi in modo naturale nei corsi di russo, e non ridurremo certo la sua lezione a un circo mediatico.”</p>



<p>Allora incalzo sul <strong>peso contemporaneo delle università</strong>.</p>



<p>“Il ruolo di un’università pubblica è quello di <strong>costruire la pacifica convivenza attraverso il multiculturalismo e il plurilinguismo</strong>, e viene in mente tutto quello che si è detto in un filone della tradizione occidentale, cioè diventare stranieri nella propria stessa patria per poter essere intimi e distanti da ogni patria, ed essere cittadini del mondo”, premette subito il Rettore. “Vorrei ricordare che è nelle università che dovremmo formare i cittadini del mondo, e che <strong>l’università è il contrario del nazionalismo</strong>: non pensavo che fosse così urgente rimarcare questo messaggio ma l’attualità e i fatti lo impongono.”</p>



<p>“Virginia Woolf diceva che dobbiamo costruire università capaci di formare persone che sappiano prevenire le guerre, e invece oggi siamo in un momento in cui <strong>l’università si schiera per le guerre</strong>. Noi qui ci schieriamo contro la guerra, ma a fianco degli aggrediti e non a fianco di alcun governo, direi nemmeno del nostro. Le università hanno la responsabilità di distinguere. Siamo stati i primi a tradurre in Italia l’<strong>orribile manifesto dei moltissimi colleghi rettori delle università della Federazione russa</strong>, che dichiarano quanto sia ‘importante non dimenticare il nostro dovere principale: portare avanti senza sosta il processo accademico e formativo, coltivare nei giovani il patriottismo e l’aspirazione ad aiutare la Russia’.”</p>



<p>“Così come i Paesi non sono i governi, le università non sono i rettori. Li condanniamo non in quanto russi, ma perché <strong>tradiscono la missione dell’università</strong>, che non è certo quella di schierarsi per il proprio governo o per la propria guerra, altrimenti l’università non serve a nulla. Sono moltissimi i rettori che l’hanno firmata, ma diciamo anche che ci sono migliaia di voci di dissenso dentro ognuna di quelle università. Sento parlare di scontro di civiltà e non lo capisco davvero, perché<strong> la civiltà russa è anche la nostra civiltà</strong>; senza la letteratura e l’arte russa non sapremmo immaginarci del tutto, è una guerra fratricida, quella verbale a cui stiamo assistendo. Le università devono portare i giovani dentro l’attualità della storia mostrando l’attualità dell’eredità umanistica, e mai piegandosi all’imperativo della cronaca. Il presente è spesso fuori tempo, mentre i grandi classici ci offrono all’infinito le chiavi di interpretazione morale del mondo”.</p>



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<h2 id="h-la-storia-oltre-il-regime-memorial-la-ong-russa-smantellata-da-putin">La storia oltre il regime: Memorial, la ONG russa smantellata da Putin</h2>



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<p>Poi mi siedo tra gli studenti. Prendono la parola prima lui, poi <strong>Giulia Marcucci</strong>, <strong>Giorgia Rimondi</strong>, <strong>Marco Sabbatini</strong>, tre professori che forse senza rendersene conto ci tengono incollati per oltre due ore dentro <strong>una Russia di cui non sentiamo mai parlare</strong>, <strong>quella civile</strong> – qui sostantivo e aggettivo insieme.</p>



<p>Oggetto del documentario &#8220;Processo alla memoria&#8221; è <strong>Memorial</strong>, la ONG russa per i diritti umani smantellata nelle ultime settimane dal governo di Putin, di cui il professor Sabbatini è da circa vent’anni uno dei referenti italiani. Memorial ha sedi in tutto il mondo, fondata nel 1989 dal Nobel per la pace <strong>Andrej Sakharov</strong>: attiva da più di trent’anni, partita dal basso sull’onda di voler <strong>ricostruire una memoria nazionale più autentica </strong>di quella offerta dal regime. Ha rimesso insieme i destini dei tre milioni di vittime dell’URSS. Ha prima raccolto, poi ricostruito la storia, documentato, poi archiviato le vite dei dissidenti a vari livelli.</p>



<p><strong>Memorial da pochi giorni non esiste più</strong>, la Corte suprema ne ha confermato lo smantellamento, la polizia ha fatto un raid il 6 marzo e prelevato tutti i server. Il documentario proiettato ieri non è visibile in Russia nei canali ufficiali, il lavoro è stato prodotto da Tv Rain a firma del giornalista Konstantin Goldenzweig.</p>



<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/doc.jpeg"><img width="756" height="426" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/doc.jpeg" alt="" class="wp-image-49535" /></a><figcaption>Uno spezzone della proiezione del documentario su Memorial all&#8217;Università per stranieri di Siena: <br>sulla destra, il giornalista Konstantin Goldenzweig.</figcaption></figure></div>



<p>“La storia di Memorial ci racconta quanto sia importante <strong>costruire un pluralismo di voci</strong>, davvero democratico, e che c’è stato uno spiraglio tra la fine degli anni Ottanta e Novanta, ma poi di nuovo è calata la tenebra”, apre il professor Sabbatini. “Memorial ci inchioda davanti al bisogno di <strong>riscrivere la storia per quello che è davvero</strong>, e fortunatamente questo bisogno negli ultimi anni si è infiltrato nelle università, nelle scuole, nei manuali di storia. La forza del documentario su Memorial è dare voce a più voci, anche a quelle del regime che volevano da sempre reprimere Memorial. Dedico un ultimo pensiero a chi ci ha lavorato, a tutti gli archivisti, gli storici, gli intellettuali che gli hanno dedicato una vita, subito arresti, minacce, limitazioni solo perché accusati di essere un agente straniero al soldo di poteri stranieri”.</p>



<p><strong><em>Agente straniero</em></strong> è il marchio che vige in Russia da una decina di anni, una sorta di lista nera che identifica tutti i soggetti che ricevono finanziamenti dall’estero: un modo per reprimere la pluralità di pensiero. All’inizio si bollavano organizzazioni, poi organi di informazione, negli ultimi anni persino singoli cittadini.</p>



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<h2 id="h-gli-appelli-di-artisti-e-accademici-ucraini-e-russi-contro-la-guerra">Gli appelli di artisti e accademici ucraini e russi contro la guerra</h2>



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<p>Della Russia dovremmo ascoltare oggi più che mai i <strong>nomi contemporanei della letteratura e della poesia</strong> e non ridurci solo alle suggestioni di un Dostoevskij. La Stranieri di Siena ha il merito di aver aperto una pagina in evidenza sul proprio sito: <strong><em>Voci contro la guerra</em></strong><em>.</em><em></em></p>



<p>Apritela, andateci, leggete le traduzioni dei professori di lingua e letteratura russa che in queste settimane non tengono solo lezioni dai banchi di Siena, ma stanno provando a tirare il filo della cultura da quel pezzo di mondo a noi, stanno ricordando al mondo intero che esistono diari di guerra freschi di giornata e che la storia non si consuma solo dai social o dai canali di informazione a cui ci siamo assuefatti. Stanno portando in Italia il dolore dei <strong>professionisti di lingua e cultura russa a cui viene tolto un pezzo di lavoro al giorno</strong>, <strong>in giro per il mondo</strong>, senza che ne abbiano la minima responsabilità.</p>



<p>Leggete il diario di <strong>Ol’ga Bragina</strong> nata a Kiev nel 1982, dove vive e dove si è laureata. È una poetessa, scrittrice e traduttrice; i suoi lavori sono tradotti in inglese, polacco, ceco e russo. Dal suo profilo Facebook ha subito iniziato a <strong>raccontare la guerra</strong>, e questo <strong><em>Diario da Kiev</em></strong> è stato già tradotto in inglese e in svedese.</p>



<p>Dalle pagine del 25 febbraio, un giorno dopo l’inizio del conflitto (traduzione di Giulia Marcucci).</p>



<blockquote class="wp-block-quote has-text-align-center"><p>25.02.2022, ore 8:43</p><p>Di notte è stato terribile. Le esplosioni. Ora sono riuscita a dormire un po&#8217;; abbiamo preso le nostre cose, nel caso suonasse l&#8217;allarme. È la materializzazione di un incubo, per cui razionalmente sai come devi fare e dove scappare, ma si alternano solo due stati d&#8217;animo: il panico e lo stupore. E tu non puoi farci niente. È terribile non sapere che cosa succederà. Fino all’ultimo non credevo che sarebbe accaduto tutto questo. Mia mamma sarebbe andata in ferie e avevamo in programma di mangiare il sushi e di guardarci una serie. Ho due libri da tradurre, e ora invece il mondo sta andando in frantumi. Ieri sera ho abbracciato la mamma e le ho detto che le voglio tantissimo bene e che non sappiamo perché siamo qui e perché il mondo è così, e perché ci siamo capitati proprio ora (siamo gente comune, completamente impreparata alla guerra). Di nuovo le esplosioni.</p><p>25.02.2022, ore 10:57</p><p>(…) Stiamo pensando al rifugio antiaereo e alla valeriana, chissà se farà effetto dopo la crisi di panico che mi ha colpita oggi alle 6 del mattino.</p></blockquote>



<p>Leggete <strong>l’appello del 5 marzo delle scrittrici e degli scrittori russi e bielorussi</strong> che si rivolgono a tutti coloro che parlano la loro lingua.</p>



<p>“Alle persone di ogni nazionalità. A chi è madrelingua russo, a coloro per i quali il russo è la seconda o la terza lingua. Oggi la lingua russa è usata dallo Stato russo per fomentare l’odio e giustificare la vergognosa guerra con l’Ucraina. I mezzi di comunicazione di massa esprimono in russo la stessa menzogna che, come una cortina fumogena, avvolge questa aggressione. I cittadini russi sono cresciuti a menzogne. Le fonti d’informazione indipendente sono state quasi tutte liquidate. Molti leader dell’opposizione al regime sono stati costretti a tacere. La macchina statale della propaganda lavora a pieno ritmo. Voi parlate in russo. Questo ha un grande significato. Per favore, usate tutti i possibili mezzi di comunicazione. Il telefono. Messenger. La posta elettronica. Parlate con chi conoscete. Con chi non conoscete. Se Vladimir Putin è cieco e sordo, i russi forse sapranno ascoltare chi parla la loro stessa lingua. Questa guerra assassina deve essere fermata.”</p>



<p>Leggete <strong>l’appello dei membri del Presidium dell’Accademia russa delle scienze</strong>, con cui invitano i loro “colleghi in tutto il mondo, le accademie nazionali delle scienze, le associazioni scientifiche nazionali e internazionali, nonché altri nostri partner del settore scientifico e educativo, ad astenersi da posizioni e azioni dettate non dagli interessi della scienza, ma dalla situazione politica e dalla gravità del momento. Consideriamo inaccettabile ogni tentativo di pressione politica su scienziati, insegnanti, dottorandi e studenti e ogni discriminazione per motivi di nazionalità o cittadinanza”.</p>



<p>Leggete la <strong>lettera aperta di scienziati e giornalisti scientifici russi</strong>: “Avendo scatenato la guerra, la Russia si è condannata all’isolamento internazionale, a una posizione di ‘paria’ tra gli Stati. Ciò significa che noi, scienziati, non saremo più in grado di svolgere il nostro lavoro normalmente: dopo tutto, è impossibile praticare la ricerca scientifica senza una piena cooperazione con colleghi di altri Paesi. L’isolamento della Russia dal mondo significa ulteriore degrado culturale e tecnologico per il nostro Paese, nell’assenza completa di prospettive positive. La guerra con l’Ucraina è un passo verso il nulla”.</p>



<p>Se leggerete tutto questo, potrete dire anche voi che le università italiane presidiano ancora la libertà di pensiero, che non hanno abbandonato il loro compito e che le <strong>lingue</strong>, <strong>il patrimonio letterario</strong>, quello <strong>storico</strong> e <strong>artistico</strong> di un Paese, <strong>hanno una enorme funzione civile</strong>.</p>



<p>Civile, in ogni senso.</p>



<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/russia/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Russia</a></strong>.</em></p>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</strong></a>&#8220;.</em></p>



<hr class="wp-block-separator has-text-color has-background has-black-background-color has-black-color is-style-wide" />



<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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Cultura russa, la lezione di civiltà è dai banchi universitari di Siena


<p>In pochi sanno dell’enoteca georgiana nascosta tra i vicoli di <strong>Bari vecchia</strong>. È ignota a molti autoctoni che vivono fuori dalle mura, ma non è raro trovarci qualche abitante della città antica che entra e chiede una bottiglia di bianco, «che oggi è pesce». L’addetto alle vendite gli propone due vitigni dai nomi impronunciabili («<em>rkatsiteli </em>o <em>tsolikouri</em>?») e riceve in risposta un «fai tu». Con il mestiere del commerciale consumato, il commesso sceglie una bottiglia e piazza il colpo: quello era uno dei vini preferiti di Stalin. Centro pieno, l’avventore è convinto; sorride, porterà a tavola un aneddoto di sicuro effetto, insieme a un pezzo di familiare esotismo russo.</p>



<p>Congedato il cliente, tempo qualche domanda e l’addetto dice qualcosa in più sul negozio: le vendite vanno bene, i baresi sanno accogliere le novità. Si tratta dell’unica enoteca georgiana in Italia, aggiunge, e spiega che quando il titolare ha dovuto scegliere dove aprirla non ha avuto dubbi. Non a Roma, non a Milano, ma a <strong>Bari</strong>,<strong> la città di San Nicola</strong>, di cui è un grande devoto. E in effetti il locale sorge a pochi metri dalla basilica dedicata al santo patrono.</p>



<p>Uscendo, il santo osserva dalle nicchie e dagli angoli, dagli alti e dai bassi. La sua effigie si nasconde tra le pietre bianche del centro storico, erosa dal tempo e dalle occhiate. Percorrendo quei vicoli, la sua presenza non è solo una questione di fede.</p>



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<h2 id="h-storia-di-un-santo-atipico-san-nicola-patrono-di-due-mondi"><strong>Storia di un santo atipico: San Nicola, patrono di due mondi</strong></h2>



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<p>Il patrono del capoluogo pugliese è una <strong>superpotenza agiografica</strong>.</p>



<p>Si tratta di <strong>uno dei santi più venerati al mondo</strong>, perché il suo culto è condiviso <strong>tra cattolicesimo e ortodossia</strong>. La sua figura storica è unica anche al netto degli abbellimenti della mitografia cristiana successiva: vescovo di Myra vissuto tra il IV e il V secolo d. C., nell’epoca tumultuosa di transizione tra il paganesimo e il cristianesimo imperiale, è stato uno dei promotori attivi della nuova religione.</p>



<p><strong>Non era un santo, San Nicola</strong>. Litigioso e insofferente alle ingiustizie, era noto per mettersi di traverso ai governanti e comparire ieratico in sogno ai potenti (come all’imperatore Costantino). In più di un’occasione è riportata la sua avversione fisica nei confronti delle divinità di epoche precedenti, come nel caso della distruzione di un tempio di Artemide “fino alle fondamenta” o dell’abbattimento di una quercia sacra al dio pagano Svetovit di fronte ai suoi costernati fedeli. Tra i resoconti del Concilio di Nicea, poi, ci si imbatte nel vescovo di Myra mentre prende a schiaffi Ario per difendere la natura divina di Cristo. Nei miti più antichi che lo riguardano il suo rapporto col divino è assai meno plastico rispetto a santi più recenti, <strong>nessuna estasi, niente stimmate</strong>, <strong>ma miracoli intercessori</strong> che proteggono gli svantaggiati o risanano le ferite del corpo.</p>



<p>Bari se n’è appropriata nel <strong>1087</strong>, con una <strong>traslazione</strong> (leggasi: trafugamento) realizzata per mano di 62 marinai approdati a Myra con la scusa di smerciare un carico di cereali sulla rotta di Antiochia. I baresi si dicevano – e si dicono ancora – che non si trattava di furto, ma di un salvataggio delle sacre spoglie dalle orde musulmane.</p>



<p>Così, il 9 maggio dello stesso anno, le ossa del santo approdarono nella città pugliese, dove servì uno scontro intestino tra la comunità bizantina e i sostenitori dei nuovi dominatori normanni per definirne il sito di riposo. Al termine delle ostilità, i baresi eressero una <strong>basilica</strong> in luogo del palazzo del catepano, il governatore bizantino. La vecchia classe dirigente che faceva spazio alla <strong>nuova identità cittadina</strong>, mentre Bari riguadagnava la sua rilevanza in un’età di sconquasso geopolitico che minacciava di travolgerla.</p>



<p>Il santo, in questo senso, ha davvero operato meraviglie.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-25_102501.png"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-25_102501-1024x576.png" alt="" class="wp-image-49587" width="840" height="472" /></a><figcaption> La basilica di San Nicola, nella città vecchia di Bari.</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-da-myra-a-bari-da-bari-all-oriente-origini-e-conseguenze-geopolitiche-del-culto-nicolaiano"><strong>Da Myra a Bari, da Bari all’Oriente. Origini e conseguenze geopolitiche del culto nicolaiano</strong></h2>



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<p>Non erano ancora passati cinquant’anni dallo scisma che aveva diviso la chiesa in due dottrine parallele. I <strong>pellegrini ortodossi</strong>, tuttavia, cominciarono a raggiungere Bari poco tempo dopo la traslazione, un flusso che non si è più interrotto in 935 anni di storia. Fino a un mese fa.</p>



<p>Già a quell’epoca il <strong>culto di San Nicola</strong> cominciava a espandersi nei <strong>Balcani</strong> <strong>e nelle Russie</strong>. Le direttrici della sua diffusione furono le acque del Mar Nero e quelle dei grandi fiumi dell’Europa orientale, particolare non casuale per il patrono più venerato dai marinai: prima a Kiev, poi nel principato di Vladimir, poi nella Russia moscovita con il miracolo della cacciata degli invasori mongoli, messi in fuga da una visione terrificante del santo armato di spada. A partire dal XII secolo si moltiplicarono i resoconti dei suoi viaggi e dei suoi atti prodigiosi, sovente suscitati dall’adorazione di <strong>immagini sacre</strong>.</p>



<p>Nel corso dei secoli l’<strong>iconografia di San Nicola</strong> si era stabilizzata su caratteristiche di immediata riconoscibilità, favorendo la diffusione della sua immagine, e del culto che portava con sé, soprattutto nel mondo ortodosso, nel quale le icone rivestono un ruolo fondamentale. Il taumaturgo rispondeva a molti timori dei popoli slavi (e non solo) in quell’era di invasioni e rivolgimenti politico-culturali: dispensatore di guarigioni, intercessore per le cause di tutti i fedeli, difensore armato del suo gregge, San Nicola assommava su di sé il compito di consolare dai mali del mondo ed esorcizzarli, in epoche in cui nessun’altra entità politica e sociale avrebbe potuto farlo.</p>



<p>Dal XV secolo in poi, in Russia cominciarono a essere realizzate sue icone in forma di “<strong>primi piani devozionali</strong>”, ritratti fino ad allora riservati alla raffigurazione di Cristi e Madonne, a taglio ravvicinato, dalla clavicola in su. Tra gli ortodossi, quindi, il culto di San Nicola arrivò a competere con i vertici della volta celeste, fino al punto in cui la sua effigie fu seconda solo a quella della Vergine per numero di rappresentazioni.</p>



<p>La sua popolarità non lascia in pace neppure l’Onnipotente. «Se anche ci muore Dio, ci rimarrà sempre San Nicola», ci dicono i fedeli della <strong>chiesa ortodossa di Bari</strong> citando un vecchio proverbio. «E alcuni russi lo chiamano <strong><em>Russkij Bog</em>, il Dio russo</strong>».</p>



<p>Proprio la restituzione di quella chiesa al Patriarcato di Mosca, nel 2012, ha costituito un passo cruciale in un quindicennio di <strong>avvicinamento tra il capoluogo pugliese e la Russia</strong>, fondato sul rapporto privilegiato dei due mondi con il santo. Un avvicinamento che, fino al 2019, aveva prodotto 106.000 presenze turistiche all’anno (come riporta un’analisi di Coldiretti) e un doppio collegamento aereo, oltre a 452 milioni di importazioni e 66 di esportazioni da e verso la Russia (dati Istat). Tutto azzerato, o quasi, dalla guerra.</p>



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<h2 id="h-la-guerra-e-il-silenzio-del-santo-a-bari-e-quasi-chiusa-la-porta-sull-oriente"><strong>La guerra e il silenzio del santo: a Bari è quasi chiusa la porta sull&#8217;Oriente</strong></h2>



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<p>«<strong>A Bari nessuno è forestiero</strong>» è un detto molto diffuso in città. La rappresenta bene. Ai baresi l’hanno insegnato il santo e il mare. Nove secoli di pellegrinaggi da Oriente hanno lasciato il segno sul capoluogo, che da altrettanto tempo ha nella sua basilica uno dei pochi edifici al mondo dove è permesso il culto sia ai cattolici che agli ortodossi. In spazi diversi, sia chiaro: i primi nella parte superiore, i secondi nella cripta. Non la soluzione al Grande Scisma, ma una forma di compromesso.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-25_102942.png"><img width="1024" height="576" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-25_102942-1024x576.png" alt="" class="wp-image-49590" /></a><figcaption>La cripta della basilica di San Nicola, deputata al culto dei fedeli ortodossi.</figcaption></figure></div>



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<p>Ma a Bari, oggi, tira un’aria strana. È il contrappasso di chi vive nelle zone di confine: quando si rompono gli equilibri è difficile evitare uno strappo doloroso. Sarà forse che San Nicola e i suoi fedeli non si vedono da due anni, visto che <strong>l’emergenza Coronavirus ha annullato due edizioni delle festività tradizionali</strong> che celebrano il santo il 7, l’8 e il 9 maggio, nelle quali un quadro con la sua effigie viene imbarcato su un peschereccio che poi lo riporta a terra, rievocando l’arrivo delle sue spoglie. Prima di allora, dal 1087 né i baresi né il patrono avevano mai disatteso un appuntamento. Il grande taumaturgo, in un certo senso, si è arreso al COVID-19.</p>



<p>O forse è colpa dell’<strong>impotenza</strong> del più grande intercessore della cristianità di fronte alla <strong>guerra</strong>, lui che a colloquio con Putin ci è stato per ben due volte, in privato, nel 2004 e nel 2007. Chissà.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-25_102826.png"><img width="1024" height="576" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-25_102826-1024x576.png" alt="" class="wp-image-49588" /></a><figcaption>La tomba di San Nicola, all&#8217;interno della basilica.</figcaption></figure></div>



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<p>Ci aveva creduto, Bari, al suo ruolo di <strong>ponte verso Oriente</strong>, e non era la sola. Ci aveva creduto il <strong>papa</strong>, che l’ha scelta per ben tre volte come meta per i suoi viaggi apostolici, di cui uno recentissimo, ognuno un’occasione di confronto con i dirimpettai ortodossi. Ci aveva creduto anche la <strong>politica</strong>, con la solita, ipocrita bonomia: qualcuno cominciava già a chiamarla “capitale dell’ecumenismo” mentre i governanti locali abbracciavano gli alti funzionari dello Stato russo; gli stessi che adesso rinnegano, mormorando di sogni infranti e amicizie svanite.</p>



<p><strong>Nove secoli cancellati come un volo Mosca-Bari</strong>, se in molti hanno chiesto la rimozione di una targa commemorativa donata dalla Russia dei dittatori, o se il teatro Petruzzelli ha scelto di annullare all’improvviso una collaborazione già compiuta con l’Opera Helikon di Mosca, ritenendola “impraticabile in un momento storico così delicato”. Con tanti saluti alla cultura che unisce.</p>



<p>«<strong>I russi sono già scomparsi</strong>, sono quasi due anni», ci dice un commerciante del centro storico. «La mancanza forte la sentiamo già», e non è solo una questione sentimentale, ma riguarda anche la loro importante capacità di spesa. Poi torna sulla ferita aperta della festa patronale: «Speriamo che non si faccia neanche l’anno prossimo», aggiunge a mezza voce. «<strong>Capace che San Nicola stavolta prende il largo e non ritorna più</strong>».</p>



<p>Intanto, nella notte tra il <strong>21 e il 22 marzo</strong>, qualcuno ha <strong>trafugato parte del tesoro del santo patrono</strong> dalla basilica. Come un’incrinatura nel senso del sacro, un gesto impensabile per chiunque, a Bari, fino a poco tempo fa. Oggi non più, e non è chiaro se a permetterlo siano stati i baresi o il santo stesso; da che parte stia il disamore, in un rapporto che sembra aver esaurito i miracoli.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-25_102304.png"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/immagine_2022-03-25_102304-576x1024.png" alt="" class="wp-image-49585" width="432" height="768" /></a><figcaption>La statua di San Nicola all&#8217;interno della basilica, un giorno prima del furto.</figcaption></figure></div>



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Bari, la guerra e la pandemia: San Nicola è lontano, la Russia di più

<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500">L&#8217;intervista esclusiva di SenzaFiltro al romanziere russo Mikhail Shishkin: &#8220;Io, &#8216;traditore nazionale&#8217;, dico che senza una totale de-putinizzazione non ci sarà una rinascita della Russia. Voglio un Paese libero da impostori&#8221;.</p>
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<p><strong>Mikhail Shishkin</strong> è uno dei più importanti autori russi contemporanei, che da metà degli anni Novanta vive e lavora in Svizzera, a Zurigo, come insegnante e traduttore per i rifugiati. Vincitore dei tre più importanti premi letterari russi (Russian Booker Prize, Russian National Bestseller, Big Book Prize), oltre che del premio Grinzane Cavour nel 2008, è stato definito dal <em>Guardian</em> “<strong>il miglior romanziere russo vivente</strong>”.</p>
<p>Dal 3 marzo 2022 la casa editrice <strong>21lettere</strong> ha tradotto e pubblicato in Italia <strong><em>Punto di fuga</em></strong>, premiato con il Big Book Prize nel 2010, romanzo epistolare che raccoglie le lettere che due giovani innamorati russi separati dalla guerra, Vovka e Sashka, si scambiano nel corso degli anni.</p>
<p>L’autore con vividezza e brillantezza utilizza le parole e la realtà dei due protagonisti come espediente per attualizzare il suo <strong>criticismo nei confronti della politica russa odierna</strong> capeggiata da <strong>Vladimir Putin</strong>, di cui è da sempre un fervente oppositore. Difatti nel 2013 si è rifiutato di rappresentare la Russia al Book Expo negli USA, ha fortemente criticato l&#8217;annessione della Crimea nel 2014, e da un mese utilizza la sua arma più efficace, la penna, per gridare il suo no alla guerra in Ucraina.</p>
<p>A fronte del suo trentennale impegno nella valorizzazione dell’immenso patrimonio culturale, storico e artistico russo nel mondo (le sue opere sono tradotte in più di trenta lingue), abbiamo scelto di intervistarlo per comprendere che ruolo può giocare la cultura dinanzi a una “ russofobia” sempre più crescente.</p>
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<p><strong>In questi tempi bui, di odio e russofobia, che ruolo può avere la cultura e letteratura russa per raccontare la vostra storia e tradizione?</strong></p>
<p>Putin sta commettendo crimini orribili bombardando le città ucraine e uccidendo bambini. Fa male vedere i soldati russi che eseguono i suoi ordini criminali. Provo vergogna e dolore. Putin sta commettendo in questa guerra anche un altro imperdonabile crimine, contro la cultura e la lingua russa. Ora il russo sarà associato in tutto il mondo non alla grande letteratura, ma ai criminali di guerra. Putin ha reso il russo la lingua degli assassini, e questo odio e questo dolore potrebbero rimanere per molti anni. Mio padre andò al fronte a 17 anni per vendicarsi della morte di suo fratello maggiore. Per tutta la vita dopo la guerra ha odiato i tedeschi. Ho cercato di spiegargli la grandiosità della letteratura tedesca, che il tedesco è una bellissima lingua. Non ha funzionato. Cosa dovremmo rispondere agli ucraini che hanno perso le loro case e le loro famiglie, uccise dai soldati russi? Che la letteratura russa è grande? Funzionerebbe? In ogni caso, non ci sarebbe altro modo per superare l&#8217;odio e l&#8217;abisso dopo la guerra se non attraverso la cultura. Noi tutti avremo bisogno della letteratura russa e ucraina, della musica, dei film, del teatro per rimanere umani.</p>
<p><strong>Che autori russi, classici e moderni, consiglia di leggere a noi europei per unire i popoli nella pace e non nell’astio?</strong></p>
<p>Leggere per me è come una sorta di trasfusione di sangue. Attraverso le parole ricevo dall&#8217;autore la forza e il potere di pensare, di vivere, di amare. Ma è un processo molto particolare, perché il gruppo sanguigno deve essere compatibile; altrimenti potrebbe essere pericoloso. Ricordo molto bene come a scuola dovemmo scrivere un saggio sui libri di Brežnev. All&#8217;epoca era il leader dell&#8217;Unione Sovietica. Non ce l&#8217;ho fatta, l’ho rigettato. Ma i libri di Tolstoj, Cechow, Bunin erano la mia medicina. Mi ricordo che da giovane studente leggevo James Joyce (i cui libri erano proibiti) cercando ogni parola nel dizionario, quella era la mia personale lotta contro il sistema. Penso che ognuno debba trovare i propri scrittori per questa singolare trasfusione di sangue. Suggerirei di provare con i classici russi.</p>
<p><strong>Partendo dal suo romanzo <em>Punto di fuga</em>, in cui il rapporto epistolare è protagonista di tutto il romanzo, mi domando: se potesse inviare una lettera ai leader del mondo, che cosa scriverebbe loro per bloccare questa ennesima guerra? A chi scriverebbe per primo/a?</strong></p>
<p>Oggi c’è solo un leader nel mondo che può fermare questa guerra: il popolo dell&#8217;Ucraina. Chiedono aiuto al mondo occidentale, per stabilire una no-fly zone, ma la NATO sta solo eseguendo il piano dello Stato maggiore russo. Putin era sicuro che la NATO avrebbe deluso l&#8217;Ucraina, ed è stato così. Quale leader occidentale sarebbe pronto a sacrificare la popolazione del suo Paese in un inferno nucleare per qualche Mariupol o Volnovakha? Putin ha calcolato che le città ucraine sarebbero state un facile bersaglio per lui. Ma le sue truppe sono state sconfitte. Questa guerra può essere fermata solo dal popolo eroico e dall&#8217;esercito dell&#8217;Ucraina, è l’unico modo per sconfiggere le truppe russe. Scriverei una lettera a loro: “Cari ucraini! Ora siete i leader del mondo. State combattendo per la vostra e la nostra libertà, per il futuro del mondo intero, per la dignità umana di tutti noi. <em>Slava Ukra<em>ï</em>ni</em>!”</p>
<p><strong>Farà mai ritorno in Russia? Il suo essere dissidente influenza il suo lavoro in positivo o negativo?</strong></p>
<p>Sono sicuro che dopo la guerra tutti i Paesi aiuteranno a ricostruire le città ucraine bombardate dai razzi russi. Ma la Russia di Putin crollerà in un disastro economico e politico. Per la nuova rinascita della nazione, abbiamo bisogno prima di tutto del riconoscimento della responsabilità nazionale. Noi, i russi, dovremmo chiedere perdono in ginocchio a Kiev, Charkov, Mariupol, come fece il cancelliere tedesco Willi Brand a Varsavia. In Russia non siamo riusciti a mettere in atto la de-stalinizzazione, non ci sono stati processi di Norimberga per il partito comunista, e come risultato abbiamo una nuova dittatura e una nuova guerra. Senza la totale de-putinizzazione non ci sarà alcuna rinascita della Russia. Putin è un sintomo, non la malattia. Nel 2013 ho scritto in una lettera aperta dopo la quale sono stato dichiarato un “traditore nazionale” nella Russia di Putin: “Voglio e rappresenterò un&#8217;altra Russia, la mia Russia, un Paese libero da impostori, un Paese con una struttura statale che difende il diritto dell&#8217;individuo, non il diritto alla corruzione, un Paese con mezzi di comunicazione liberi, libere elezioni e persone libere”. Faccio quello che posso per tornare in questa Russia futura, scrivendo, parlando con parole chiare. Sarà d&#8217;aiuto? Non lo so. Ma anche se fallirò, potrò dire ai miei figli: ci ho provato.</p>
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<p>Parole lucide e angosciate, come quelle che usa Vovka, il protagonista del romanzo <em>Punto di fuga</em> quando riflette sull’<strong>inutilità e sulla ciclicità della guerra</strong>.</p>
<p>«Perché ai soldati viene sempre dato qualsiasi compito, qualsiasi, anche il più insensato, pur di tenerli occupati? Perché così non devono pensare. C&#8217;è un significato profondo in tutto questo – l&#8217;uomo non deve pensare. È necessario salvarlo da sé stesso, dai pensieri di morte. Qui bisogna in qualche modo riuscire a distrarsi, fare qualcosa con le mani; per questo li obbligano a pulire le armi, a riordinare le divise, a scavare buche. S&#8217; inventano compiti.</p>
<p>Forse è questa la ragione per cui anch&#8217;io mi invento un compito: scriverti alla prima occasione. Ossia fare delle lettere. E tu mi salvi così, mia cara!»</p>
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Mikhail Shishkin: &#8220;Putin ha reso il russo la lingua degli assassini, non della letteratura&#8221;

L&#8217;intervista esclusiva di SenzaFiltro al romanziere russo Mikhail Shishkin: &#8220;Io, &#8216;traditore nazionale&#8217;, dico che senza una totale de-putinizzazione non ci sarà una rinascita della Russia. Voglio un Paese libero da impostori&#8221;.

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seven

Quanto guadagnano gli italiani, e come? È ancora vero che il lavoro dà il pane? Gli scenari retributivi del Paese a confronto con il resto d'Europa.

Numero 109 - Stipendi d'Italia


<p>Sono stati tra i professionisti in prima linea nella lotta alla pandemia, soprattutto quando si trattava di fare i tamponi e i vaccini. Sono i <strong>farmacisti dipendenti</strong>, che negli ultimi mesi del 2021 hanno visto le loro farmacie prese d&#8217;assalto da quanti volevano sottoporsi a tampone per le festività. Le immagini delle code chilometriche hanno fatto il giro di tutti i telegiornali, e dentro le farmacie c&#8217;erano loro, ai quali da settembre vengono retribuite a parte le vaccinazioni effettuate, ma non i tamponi, come molti richiedono.</p>



<p>Nel <strong>nuovo contratto</strong>, firmato a settembre tra l&#8217;associazione datoriale Federfarma e FISASCAT, è prevista anche una <strong>retribuzione di due euro per ogni vaccino effettuato</strong>, oppure un forfettario di 200 euro lordi a bonus annuale. Al farmacista dipendente è concessa la possibilità di scegliere. Inoltre è stata introdotta la figura del <strong>Quadro 2</strong>, un farmacista che ha responsabilità dei servizi, dal CUP alla terapia di medicina, dai vaccini fino ai tamponi. Sono però poche le farmacie che si stanno dotando di questa figura, che è disciplinata da una nuova categoria contrattuale, pagata meglio dei farmacisti generici. L&#8217;adeguamento è arrivato dopo mesi di pandemia, ma soprattutto a otto anni di distanza dall&#8217;ultimo rinnovo in un settore dove il numero dei dipendenti è pari all&#8217;incirca a due terzi dei proprietari.</p>



<p>Il rapporto medio in una farmacia è di <strong>due dipendenti ogni proprietario</strong>, e questo rappresenta un contesto dove la sindacalizzazione non è semplice. Lo dimostrano anche gli <strong>stipendi</strong>: secondo un rapporto di AlmaLaurea del 2021, a cinque anni dalla laurea lo stipendio di un laureato medio è di 1.556 euro medi, mentre quello di un farmacista quarto livello, cioè che ha anche mansioni di vendita, si aggira attorno ai <strong>1.530</strong>. Il rinnovo del contratto, che è stato firmato a settembre, ha riguardato comunque 60.000 addetti, che sono impiegati in oltre 18.000 farmacie private, che arrivano a 20.000 se si conteggiano anche quelle pubbliche. A questi si devono aggiungere quanti lavorano in più di 6.000 parafarmacie.</p>



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<h2 id="h-le-novita-del-contratto-dei-farmacisti-dipendenti">Le novità del contratto dei farmacisti dipendenti</h2>



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<p>La via che ha condotto alla <strong>firma del contratto</strong> è stata tutt&#8217;altro che semplice. Ed è passata per la <strong>mobilitazione nazionale programmata nell&#8217;aprile 2021</strong>, dopo l&#8217;ennesimo incontro senza risultati con la controparte.</p>



<p>«La mobilitazione – spiegano a Federfarma – era stata decisa per denunciare alle istituzioni e all’opinione pubblica la <strong>paradossale situazione</strong> nella quale lavoratori e lavoratrici venivano chiamati a un nuovo atto di responsabilità (<strong>campagna vaccinale COVID-19</strong>) dopo aver garantito per oltre un anno il servizio sanitario indispensabile nella fase emergenziale, pur in assenza di qualsivoglia tutela contrattuale specifica e vedendosi negare da quasi otto anni il giusto riconoscimento salariale per la propria professionalità.<br>La mobilitazione aveva sortito i suoi effetti, portando Federfarma a riaprire il tavolo del confronto nel merito di questi problemi e in tempi circoscritti. Una trattativa ostica, che però si è risolta con la <strong>rimozione di pressoché tutti gli ostacoli</strong>.»</p>



<p>Quello che è stato firmato è stato un contratto con una serie di novità e addirittura l&#8217;introduzione di una nuova figura, cioè quella dell&#8217;<strong>Area Quadri</strong>, che nell&#8217;ambito della “Farmacia dei servizi” svolge attività di gestione di uno specifico settore, oppure che assume la responsabilità del coordinamento dei servizi nelle farmacie organizzate per svolgerne una pluralità.</p>



<p>Alcune novità introdotte riguardano i <strong>permessi retribuiti</strong>. Oltre alla conferma del diritto per i lavoratori che già sono in forza è stato introdotto il criterio di <strong>maturazione progressiva</strong> per i nuovi assunti. Per quanti sono stati assunti dal 1° novembre 2021 dai titolari di farmacie fino a 40 dipendenti, le ore di permesso aggiuntive alle ex festività (40 ore) vengono riconosciute in misura pari al 50% decorsi tre anni dall’assunzione, e in misura pari al 100% decorsi sei anni dall’assunzione. A tal fine si terrà conto anche del servizio prestato presso altre farmacie e del periodo prestato in contratto a tempo determinato o di apprendistato.</p>



<p>Tra le novità del nuovo contratto c&#8217;è anche <strong>l&#8217;assistenza sanitaria integrativa a totale carico del datore di lavoro</strong> nella misura di 13 euro mensili. Qualora non sia individuato il fondo bilaterale per l’erogazione delle prestazioni, il lavoratore percepirà un importo retributivo di pari importo. Nei programmi c&#8217;è anche la <strong>riforma dell&#8217;ente bilaterale</strong>, secondo criteri di efficienza e certezza di prestazioni. Il suo finanziamento sarà ripartito tra i datori di lavoro e dipendenti a decorrere dal momento di completamento del cambiamento.</p>



<p>«L&#8217;ente bilaterale – dice <strong>Dario Campeotto</strong> della FISCASCAT – esiste già e sarà sovvenzionato, quindi operativo dal mese di giugno».</p>



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<h2 id="h-aumenti-di-stipendio-e-responsabilita-ma-non-tutti-i-farmacisti-sono-d-accordo">Aumenti di stipendio e responsabilità, ma non tutti i farmacisti sono d’accordo</h2>



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<p>Nell&#8217;ambito del nuovo contratto è stato previsto anche un <strong>aumento salariale pari a 80 euro mensili</strong>, a decorrere dal 1° novembre 2021, in unica soluzione. Il nuovo contratto scadrà il 31 agosto 2024.</p>



<p>È stata sottoscritta anche l’intesa relativa all’<strong>affidamento alle farmacie del piano nazionale vaccinale</strong>, e delle <strong>attività di screening per il COVID-19</strong> mediante tamponi antigenici rapidi e test sierologici. Essa prevede la costituzione di un Osservatorio Nazionale e di Comitati Regionali paritetici cui è assegnato il compito di individuare e suggerire, anche attraverso apposite linee guida, adeguate soluzioni al fine di dirimere eventuali problematiche.</p>



<p>«Abbiamo istituito questi comitati a livello regionale – continua Campeotto – perché <strong>ogni Regione aveva la sua specificità</strong> e le sue caratteristiche. Questi faranno riferimento a un comitato nazionale, che si farà carico di gestire al meglio le problematiche che sono connesse anche alle vaccinazioni».</p>



<p>Il nuovo contratto ha così comportato nuove responsabilità e mansioni a fronte di un miglioramento economico per tutta la categoria. <strong>Non tutti però sembrano felici</strong>, e c&#8217;è chi già pensa al contratto del 2024.</p>



<p>«<strong>Il contratto</strong> – dice <strong>Silvera Ballarini</strong>, la presidente del CONASFA, un&#8217;associazione di farmacisti non dipendenti – <strong>era fermo da tredici anni</strong>. Le farmacie hanno trovato tutte le scuse possibili per non rinnovarlo. Nel momento in cui ci sono stati i nuovi soldi del ministero della Salute l&#8217;impegno era rinnovare il contratto, ma è stato fatto con <strong>cifre che non hanno riconoscimento alla professione</strong>. Nel contratto sono stati dati 70 euro lordi e la nascita di una nuova griglia, il Quadro 2, che viene riconosciuto a chi ha responsabilità di servizi, dal CUP alla terapia di medicina, dai vaccini fino ai tamponi. Non sono tanti i titolari che riconoscono il Quadro 2. Anche questo va a sfavore dei dipendenti. Il contratto che è stato firmato era l&#8217;unico possibile per come si si erano messe le cose con Federfarma, che addirittura non voleva dare permessi o festività e solo 50 euro. <strong>È un contratto di passaggio, ma attendiamo il contratto del 2024</strong>. Ci sono molte cose che vorremmo migliorare. Ad esempio si riconoscono i vaccini, ma non viene preso in considerazione chi effettua i tamponi».</p>



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Farmacisti dipendenti, c&#8217;è un nuovo contratto. Ma i titolari non lo usano


<p><strong>69.000</strong>, <strong>60.000</strong>, <strong>14.000</strong>. Tre numeri che sintetizzano la realtà del lavoro giornalistico di oggi. Il primo è il <strong>reddito medio</strong> in euro dei giornalisti pensionati, il secondo è quello degli <strong>attivi assunti a tempo indeterminato nelle redazioni</strong>, e il terzo è quello dei <strong>freelance</strong>, che oggi creano il 65% dei contenuti. Tre numeri che sono la diagnosi senza appello del giornalismo italiano.</p>



<p>La terza cifra si spiega con le parole di <strong>Alberto Puliafito</strong>, direttore di <em>Slow News</em>, durante l&#8217;appuntamento #digit16 organizzato da LSDI nel 2017: «<strong>Le news sono diventate commodity</strong>, per come s&#8217;è evoluto l’ecosistema giornalistico». E le commodity rispondono a logiche di mercato: se hai molta offerta e poca domanda i prezzi crollano. E i freelance producono news.</p>



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<h2 id="h-dalla-francia-all-italia-dal-giornalismo-alla-rinuncia">Dalla Francia all&#8217;Italia, dal giornalismo alla rinuncia</h2>



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<p>E sono storie esemplari, quelle dei <strong>freelance italiani</strong>. Come quella di <strong>Matteo</strong> – nome di fantasia, vuole rimanere anonimo – che al posto di un corso di giornalismo ha scelto la via dell&#8217;estero.</p>



<p>«In dieci anni, in <strong>Francia</strong> ho cambiato spesso lavoro, in meglio, passando da giornali ad agenzie e viceversa, facendo colloqui e con tempi di disoccupazione al massimo di un paio di mesi». E così Matteo, all&#8217;epoca venticinquenne, appassionato di giornalismo, di ecologia ed economia sociale – sulla quale ha scritto un libro – in pochi anni è diventato la spina dorsale della <strong>rivista delle principali ONG francesi</strong>.</p>



<p>«Mi occupavo – prosegue Matteo – della macchina del giornale, curando in prima persona tutti gli aspetti multimediali e una parte di marketing». La padronanza di mezzi e argomenti ha permesso a Matteo di organizzare un <strong>crowdfunding</strong> per tentare di far sopravvivere la rivista. Un successo. Sono stati raccolti oltre 60.000 euro in pochi mesi, che però non hanno permesso di evitare la chiusura. «Tutti gli stipendi che ho ricevuto sono stati dignitosi, ma a Parigi la vita è dura. Anche con uno stipendio medio».</p>



<p>E allora Matteo, che nel frattempo progettava la propria vita con una compagna in Italia, ha deciso di <strong>tornare</strong>. «<strong>Sono stato sconsigliato da tutti</strong>. Proprio tutti. Ma ho tentato comunque, forte dell&#8217;esperienza fatta in Francia». Ma il know-how editoriale maturato oltralpe <strong>l&#8217;Italia non lo ha riconosciuto</strong>. Coinvolto in un paio di progetti inconcludenti e dopo aver venduto articoli a 25 euro l&#8217;uno ad alcuni tra i principali media ambientali italiani su argomenti “tosti” e specialistici come i suoi, Matteo ha deciso di <strong>lasciare</strong>.</p>



<p>«La cosa più sconcertante è stata il “<strong>raddoppio</strong>” <strong>dei compensi</strong> da 25 euro a pezzo: quando creavo le <strong>grafiche</strong> attive online si arrivava a 50 euro. Un prodotto derivato come la grafica, fatta con dati raccolti per l&#8217;articolo, <strong>valeva quanto tutto il contenuto</strong>.»</p>



<p>Ora Matteo, appesa la penna al chiodo, si divide tra il lavoro in un supermercato e quello da corriere in bici.</p>



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<h2 id="h-anna-soru-acta-difficolta-per-i-giornalisti-a-esporsi-su-diritti-e-salari-c-e-paura-di-esporsi">Anna Soru, ACTA: &#8220;Difficoltà per i giornalisti a esporsi su diritti e salari: c&#8217;è paura di esporsi&#8221;</h2>



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<p>Non c&#8217;è solo la scarsa retribuzione come barriera per la professione giornalistica. Il problema è anche la <strong>prospettiva</strong>. Ne sa qualcosa <strong>Virginia</strong> (altro nome di fantasia), giornalista che si è occupata d&#8217;importanti tematiche per testate nazionali, passando dal sociale agli esteri. Anche sul campo.</p>



<p>«<strong>Il mio problema non è stato il salario</strong>, che era sufficiente per vivere, <strong>ma la prospettiva di lavoro</strong>. Dopo anni passati a produrre materiale di qualità, apprezzato da tutti, ti aspetti che il riconoscimento arrivi sotto forma dell&#8217;offerta di un posto in redazione, o almeno un contratto; cose che non sono mai arrivate». Ma Virginia non ha mollato, e ora scrive quasi ogni giorno per varie <strong>testate estere</strong>. E il giornalismo italiano non le appartiene più.</p>



<p>C&#8217;è chi riesce a vivere vincendo dei <strong>grant giornalistici</strong>, che si sommano ai magri compensi nostrani. In queste occasioni si mettono a <strong>confronto</strong> le condizioni di vita dei giornalisti freelance italiani con quelle dei loro colleghi negli <strong>altri Paesi UE</strong>. «Stiamo lievemente meglio dei Paesi dell&#8217;Est – mi dice l&#8217;ennesima fonte anonima – ma si tratta di nazioni dove la libertà di stampa è sotto attacco da anni. <strong>Siamo il fanalino di coda</strong>, tra i Paesi a lunga tradizione democratica, nell&#8217;Unione Europea». E c&#8217;è la paura di esporsi.</p>



<p>«Abbiamo visto che <strong>i giornalisti hanno molte più difficoltà</strong> a esprimersi sul fronte di <strong>diritti</strong> e <strong>salari</strong> degli altri freelance», ci dice Anna Soru, presidente di ACTA, l&#8217;associazione dei freelance che ora si occupa anche dei giornalisti con ACTA Media. «Quando siamo partiti a occuparci dei freelance dell&#8217;editoria libraria, con Red ACTA, abbiamo visto una dinamica associativa molto forte, mentre con ACTA Media per i giornalisti le cose vanno a rilento perché c&#8217;è <strong>paura di esporsi</strong>. Oltre a ciò, il giornalista deve lavorare molto a causa degli scarsi compensi e ha poco tempo per le attività associative».</p>



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<h2 id="h-il-digitale-non-funziona-in-italia-e-le-redazioni-si-restringono">Il digitale non funziona (in Italia). E le redazioni si restringono</h2>



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<p>E se i freelance piangono le <strong>redazioni</strong> non ridono. I grandi gruppi editoriali italiani sono allo sbando e gli <strong>editori</strong>, stretti in una crisi dalla quale non si vede una via d&#8217;uscita, fanno i conti con copie in calo, introiti pubblicitari in picchiata, costi fissi elevati e una scarsa flessibilità industriale nel seguire mercati e innovazione di prodotto.</p>



<p>Lo dimostra il <strong>digitale</strong>, che mentre per il <em>New York Times </em>è diventato la principale fonte di ricavi (57%) per <em>La Repubblica</em> è marginale (20%). Il quotidiano romano è sceso sotto la soglia psicologica delle 100.000 copie giornaliere, dato lontano dal record del 2001 con 651.000, e al di sotto persino del 1978 con 148.000 copie, mentre il digitale è da anni inchiodato a 50.000 copie. È una situazione comune a tutta l&#8217;editoria italiana, che cerca di limare i costi trovandosi di fronte spesso a spese incomprimibili, come quelle dei redattori interni.</p>



<p>«Il giornale <em>Il Domani</em> sta tentando di realizzare una buona, sulla carta, coniugazione tra digitale e cartaceo. Chi dirige la parte digitale non è un giornalista e ciò conferma il fatto che <strong>servono nuove competenze editoriali per salvare e far progredire il settore</strong>. I muri di Berlino tra giornalisti e altre professioni devono crollare», ci dice <strong>Lazzaro Pappagallo</strong>, segretario del sindacato Stampa Romana. «Per il resto, nonostante le trasformazioni che nei grandi gruppi comunque ci sono, i numeri nelle redazioni si vanno sempre più restringendo e i tentativi di realizzare nuovi prodotti sfociano sempre più spesso nel marketing».</p>



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<h2 id="h-i-prepensionamenti-che-bloccano-il-turnover">I prepensionamenti che bloccano il turnover</h2>



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<p>Una delle strategie usate per ridurre i costi fissi è quella dei <strong>prepensionamenti</strong>, che però hanno una serie di difetti.</p>



<p>Il primo è di spostare il costo editoriale sulle casse dell’<strong>INPGI</strong>, e questo è uno dei motivi del default dell&#8217;istituto che passerà dall&#8217;INPS. Il secondo è che la legge impedisce la continuazione del rapporto di lavoro del prepensionato, ma solo all&#8217;interno del gruppo editoriale d&#8217;appartenenza. Tradotto: <strong>un giornalista prepensionato può collaborare come freelance per un altro editore</strong>. E per lui è un doppio affare, perché il salario aggiuntivo che deve al prepensionato è inferiore sia all&#8217;assunzione, sia a ciò che dovrebbe dare a un freelance non compresso dal mercato. Risparmiando molto ci si porta in casa un giornalista con un&#8217;esperienza di anni e che magari è anche una firma, bloccando così il turnover.</p>



<p>E il <strong>passaggio di competenze generazionali</strong> dovrebbe essere cruciale. Nel mondo anglosassone per affrontarlo si creano degli “equipaggi” per le storie importanti, le <em>long term stories</em>, composti da un paio di giornalisti, senior e junior, un grafico, un operatore multimediale e un programmatore che lavorano su un progetto con un&#8217;osmosi di metodologie, esperienze, contenuti e tecnologie che aumenta l&#8217;efficienza editoriale, trasferendo un know-how ogni volta più innovativo. Non a caso, <strong>Jeff Bezos</strong>, proprietario del <em>Washington Post</em>, che ora macina utili, tre anni fa scandalizzò l&#8217;ambiente giornalistico <strong>assumendo 75 giornalisti e 75 ingegneri informatici</strong> che furono inseriti in redazione con pari dignità.</p>



<p>Perché, si sia freelance, redazionali o editori, la partita si giocherà su competenze e tecnologie. E l&#8217;informazione italiana su questo fronte è in coma profondo.</p>



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Se questo è un reddito: giornalisti, non si vive di sole news

<p>La <strong>discriminazione salariale di genere</strong> è viva e lotta insieme a noi.</p>
<p>Purtroppo non è amara solo la battuta, ma anche la realtà lavorativa vissuta ogni giorno dall’altra metà del cielo. Ma cosa si intende per divario contributivo di genere o <strong><em>gender pay gap</em></strong>? Si tratta della <strong>differenza tra la retribuzione di uomini e donne a parità di ruolo e di incarico</strong>. È un indice, dunque, che misura la discriminazione salariale di genere.</p>
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<h2 id="h-il-gender-pay-gap-in-italia-spiegato-coi-numeri-lavora-una-donna-su-due-e-viene-pagata-meno">Il gender pay gap in Italia spiegato coi numeri: lavora una donna su due e viene pagata meno</h2>
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<p>Esistono due forme di gender pay gap: quello <strong>grezzo</strong>, basato sulla differenza media della retribuzione lorda oraria, e quello <strong>complessivo</strong>, che invece prende in considerazione, oltre al salario orario, anche il numero medio mensile delle ore retribuite e il tasso di occupazione femminile.</p>
<p>Secondo le ultime rilevazioni (dal 2019), dell&#8217;Osservatorio Nazionale Federconsumatori su dati Istat e Osservatorio JobPricing, la disuguaglianza di genere in Italia si aggira mediamente intorno al <strong>10% a favore della fascia maschile</strong>, che guadagna in media 3.009 euro l’anno in più rispetto alle donne. Dati alla mano, sono invece circa 4.000 € di differenza per le venticinquenni e 5.700 € per le trentenni. Ma all’aumentare dell’età il divario di retribuzione si estende fino a 9.000 € in meno rispetto ai coetanei per le quarantacinque-quarantanovenni, a 10.000 € in meno per le cinquanta-cinquantaquattrenni, e si arriva alla modica cifra di 11.000 € nella fascia sessanta-sessantaquattrenni.</p>
<p>Se si esamina il <strong>reddito complessivo</strong> (<strong><em>overall earnings gap</em></strong>: guadagni orari, ore retribuite e tasso di occupazione) in Italia, <strong>le donne</strong> <strong>che lavorano</strong>, laureate e non,<strong> sono ancora poche</strong>: i dati Istat riportano che nella fascia fra i quindici e i sessantaquattro anni lavora solo una donna su due, il 50,1 %, mentre per gli uomini la percentuale arriva al 68,7%.</p>
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<h2 id="h-il-caso-delle-donne-meridionali-e-gli-effetti-del-gender-pay-gap-sull-economia">Il caso delle donne meridionali e gli effetti del gender pay gap sull’economia</h2>
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<p>Le <strong>donne del Mezzogiorno</strong> risultano essere le più svantaggiate in assoluto: l&#8217;Ufficio Studi Confcommercio in un’analisi intitolata <em>Economia e occupazione al Sud dal 1995 ad oggi</em> riporta come la partecipazione delle donne al mercato del lavoro nel Meridione è “assurdamente bassa”, attestandosi intorno al 33% contro un tasso del 59,2% al Centro-Nord e del 63% nell&#8217;Ue-27, ossia 30 punti indietro al resto dell&#8217;Italia e dell&#8217;Europa.</p>
<p>Gli effetti di questa triste fotografia italiana non sono solo individuali. Di fatto, il mancato impiego di una parte della potenziale forza lavoro è da considerarsi come una <strong>perdita in crescita economica e innovazione</strong> per tutta la società.</p>
<p>A livello europeo, il monitoraggio della parità di genere è svolto dall’EIGE (European Institute for Gender Equality), che ha stimato che <strong>raggiungere l’uguaglianza di genere</strong> nell&#8217;Unione europea si tradurrebbe in sensibili <strong>aumenti del tasso di occupazione</strong> (2,1-3,5 punti percentuali in più nel 2050) e del PIL pro capite (6,1-9,6 nel 2050). Se poi alla decrescita economica si associa l’investimento perso in termini di spesa pubblica in istruzione, la crescita mancata è ancora più grande. Il gender gap deve essere considerato come una reale problematica per tutta la collettività: <strong>la diseguaglianza nuoce gravemente all’economia</strong>.</p>
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<h2 id="h-perche-lavorano-ancora-meno-donne-che-uomini-il-lavoro-di-cura-e-la-maternita">Perché lavorano ancora meno donne che uomini: il lavoro di cura e la maternità</h2>
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<p>Quando le donne scelgono di non lavorare lo fanno perché su di loro pesa l’onere di doversi <strong>prendere cura dei figli o di altri famigliari</strong>. Se in un’azienda le donne vengono pagate meno degli uomini, avranno accumulato un salario di riserva insufficiente per sostenere i costi relativi alla cura della famiglia (nidi, baby-sitter, etc.), e nella maggior parte dei casi rinunceranno a cercare e mantenere il posto di lavoro.</p>
<p>La situazione è peggiorata con <strong>l’emergenza</strong>: Il <em>Global Gender Gap Report 2021</em> (pubblicato annualmente dal World Economic Forum) ha registrato una preoccupante <strong>recessione lavorativa femminile del 37%</strong>. In Italia chi ha preso un congedo parentale COVID-19 ha ricevuto, per quei mesi, un’indennità pari al 50% dello stipendio. E in gran parte si è trattato di donne.</p>
<p>Secondo la professoressa <strong>Cristina Bombelli</strong>, fondatrice e presidente di Wise Growth, che supporta le aziende nello sviluppo di progetti e azioni che promuovono l’inclusione e la valorizzazione degli individui, “affrontare il tema del gender pay gap per un&#8217;azienda significa innanzitutto, dati alla mano, comprendere l&#8217;entità del fenomeno. La cura per allineare questa disparità è legata alla capacità di progettare <strong>meccanismi di valutazione della prestazione realmente meritocratici</strong>, che affrontino le dimensioni <em>ad personam</em> della retribuzione, collegandole a criteri il più possibili oggettivi. In molte realtà si riscontra una <strong>penalizzazione della crescita salariale </strong>(e non solo) dovuta ai <strong>periodi di assenza per la maternità</strong>, un ulteriore elemento da tenere in considerazione. Comunque, la disparità di trattamento economico è bene sia affrontata all&#8217;interno di più ampi progetti di sostegno alle carriere al femminile”.</p>
<p><strong>Sostegno</strong> e <strong>maternità</strong>. Due parole preziosissime e nello stesso tempo invisibili nel panorama italiano. Anche nel confronto tra laureate, la maternità risulta sempre il fattore più penalizzante: a cinque anni dal titolo il tasso di occupazione delle laureate senza prole è pari all’85,1%, con un differenziale di +15 punti percentuali rispetto alle donne con figli. L’Italia non è un Paese per madri.</p>
<p>Un altro spettro che soffia sul lavoro femminile è quello del <strong>lavoro part-time</strong>. Secondo gli ultimi dati Istat esaminati, <strong>il 19,5% delle donne occupate lavora in</strong> <strong>part time involontario</strong>, che significa meno ore lavorate e meno soldi: quando il contratto è full time, poi, se hanno famiglia per loro è più difficile se non impossibile accettare straordinari.</p>
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<h2 id="h-le-donne-hanno-migliori-risultati-negli-studi-ma-sono-ancora-lontane-dalle-stem">Le donne hanno migliori risultati negli studi, ma sono ancora lontane dalle STEM</h2>
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<p>Un fattore fondamentale nella valutazione del differenziale salariale è il <strong>livello di istruzione</strong>. Questo, infatti, oltre a influenzare i livelli di occupazione, è cruciale per accedere a percorsi di carriera più remunerativi.</p>
<p>Come dimostra l‘indagine <em>Gender Gap 2021</em> effettuata da AlmaLaurea, <strong>le donne sono in media più istruite degli uomini</strong>. Nell’ultimo anno le laureate sono state il 58,7% del totale. Ma non solo: le donne ottengono, in media, <strong>valutazioni migliori degli uomini</strong>: registrano un voto medio di laurea all’università di 104 rispetto al 102 dei colleghi maschi.</p>
<p>Nonostante i dati sembrino screditare lo stereotipo che vede le donne come meno analitiche e logiche, e dunque più adatte a studi umanistici, <strong>le ragazze continuano ad autoescludersi dai cosiddetti percorsi STEM </strong>perché troppo spesso si identificano in stereotipi culturali che le vedono distanti dalla scienza. Gli ambiti disciplinari di insegnamento, linguistica e psicologia vedono le donne superare l’80% di presenze, contro meno del 20% degli uomini. Le discipline scientifiche, ingegneria e educazione fisica osservano invece una concentrazione prettamente maschile, attestandosi tra il 60 e l’80%.</p>
<p>Il primo fondamentale passo da compiere per il miglioramento è, dunque, quello di <strong>avvicinare</strong> fin dalla più tenera età le <strong>bambine e future professioniste alle materie STEM</strong> perché, nell’arco della loro formazione, possano eliminare stereotipi pericolosi e arcaici che alimentano uno spropositato gap di genere nel mercato del lavoro. La polarizzazione del lavoro e la crescente domanda di professionisti iper-qualificati, soprattutto in ambito digitale e tecnologico, implicano che l’autoesclusione sistematica da queste discipline è potenzialmente un fattore che incrementerà la disoccupazione femminile e il gender pay gap di domani.</p>
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<h2 id="h-giorgia-ortu-la-barbera-psicologa-le-donne-non-hanno-cognizione-del-loro-lavoro-sommerso-per-questo-non-si-indignano">Giorgia Ortu La Barbera, psicologa: “Le donne non hanno cognizione del loro lavoro sommerso. Per questo non si indignano”</h2>
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<p>Una <strong>consapevolezza del proprio valore personale ed economico</strong> è fondamentale per conoscere e comprendere a fondo i propri diritti e i doveri. Di questo è convinta la dottoressa <strong>Giorgia Ortu La Barbera</strong>, psicologa e consulente per la Diversity, Equity &amp; Inclusion per importanti aziende e associazioni come la RAI e Greenpeace, che riflette su quanto “le persone all’interno delle organizzazioni non hanno piena consapevolezza del gender pay gap perché non è un elemento così visibile e così facilmente confrontabile vista la complessità delle organizzazioni; quindi tendenzialmente ne sono inconsapevoli. Spesso questa inconsapevolezza coincide con una <strong>non conoscenza di una discriminazione</strong> da un punto di vista economico, a parità di posizioni”.</p>
<p>Continua La Barbera: “<strong>Le donne</strong>, sempre per un discorso di non conoscenza, <strong>non hanno cognizione e tantomeno indignazione </strong>su tutto il lavoro sommerso che portano a termine tutti i giorni, gratuitamente, con i figli e in famiglia. Le donne italiane passano in media cinque ore al giorno a occuparsi del lavoro di cura, mentre gli uomini non arrivano a due. Inoltre, gli uomini dedicano quel frangente di tempo prevalentemente ai figli, mentre le donne dedicano il loro tempo alla gestione della casa, completamente a loro carico. In questo caso, Il differenziale salariale ha un impatto non solo in termini di equità all’interno di un’organizzazione, ma anche al di fuori di essa. Se lei guadagna meno sarà meno autonoma sia nella vita privata che sociale. La poca indipendenza nelle scelte di vita porta a conseguenze notevoli e molto spesso spiacevoli”.</p>
<p>In conclusione, incentivare la partecipazione femminile al lavoro vorrebbe dire, da una parte, mettere in atto <strong>politiche che supportino in maniera concreta le famiglie e le imprese</strong> e, dall’altra, <strong>coltivare la cultura della parità di genere</strong> non solo nel mercato del lavoro o all’interno di una organizzazione, ma anche e soprattutto <strong>nella sfera privata</strong>, dove iniziano a germogliare i semi per una buona consapevolezza dei propri valori a prescindere dal sesso.</p>
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Gender pay gap: quello che alle donne non pagano

La discriminazione salariale di genere in Italia: le donne sono in media più formate degli uomini, ma accedono al lavoro con più difficoltà e guadagnano in media 3.000 euro all&#8217;anno in meno. Il fenomeno analizzato dati alla mano.

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Il mondo del lavoro, da tempo, è rimasto senza parole. Andiamo alla ricerca di un linguaggio che avrebbe dovuto unirci, ma che rischia di dividerci ancora di più.

Numero 108 - Lavoro senza parole


<p>“Come sei acida oggi, hai le tue cose?”; &#8220;per prendere questa decisione ci vogliono le palle, lo sai?&#8221;; “sai fare uno sguardo sensuale in ufficio?”; “hai intenzione di avere figli?”.</p>



<p>Sono solo alcune delle domande che almeno una volta nella vita una donna si è sentita rivolgere durante l’orario di lavoro. E sono tutti chiari esempi di <strong>sessismo</strong>, cioè quando si valuta le capacità o le attività delle persone in base al sesso di appartenenza, mettendo in pratica atti discriminatori.</p>



<p>Non di rado, tuttavia, si parla di sessismo con un livello di generalità che rasenta la chiacchera da bar, talvolta con faziosità e settarismo, molto più spesso con superficialità. Qui, invece, ne parliamo dati alla mano: dopo aver gettato la rete con il <strong>sondaggio lanciato da novembre a gennaio da FiordiRisorse all’interno della propria community</strong>, oggi mettiamo a disposizione di tutti quanto abbiamo raccolto. Da dentro il mondo del lavoro sono emerse tante voci che con le loro parole e le loro esperienze ci dicono tanto, molto, rispetto a cosa è il <strong>sessismo sul luogo di lavoro</strong> e a quanto è diffuso e dannoso.</p>



<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<h2 id="h-i-risultati-del-sondaggio-di-fiordirisorse-sul-sessismo-sul-posto-di-lavoro">I risultati del sondaggio di FiordiRisorse sul sessismo sul posto di lavoro</h2>



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<p>Le <strong>669 risposte</strong> arrivate ci permettono di avere uno sguardo più chiaro sulla situazione, che non appare affatto rosea.</p>



<div class="wp-block-media-text alignwide is-stacked-on-mobile"><figure class="wp-block-media-text__media"><img width="359" height="214" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine1-1.png" alt="" class="wp-image-48017 size-full" /></figure><div class="wp-block-media-text__content">
<p>Sono <strong>4 su 5 le donne che dichiarano di aver subito almeno un episodio di sessismo durante l’orario di lavoro</strong>, mentre gli uomini solo 1 su 5 (Grafico 1).</p>
</div></div>



<div class="wp-block-media-text alignwide is-stacked-on-mobile"><figure class="wp-block-media-text__media"><img width="362" height="267" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine2.png" alt="" class="wp-image-48018 size-full" /></figure><div class="wp-block-media-text__content">
<p>Tuttavia, se domandiamo <strong>se si è mai assistito ad un episodio di sessismo</strong>, il 90% delle donne e l’80% degli uomini dichiara di essere stato protagonista o testimone di tale evento. Dato che ci indica un’elevata diffusione del fenomeno, oltre che, parrebbe, una certa conoscenza sul tema, anche da parte maschile (Grafico 2). </p>
</div></div>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>La <strong>diffusione del fenomeno</strong> è decisamente omogenea tra Nord, Centro e Sud (Grafico 3), così come non si presentano differenze rispetto alla <strong>grandezza dell’azienda</strong>: episodi di sessismo sono similmente riscontrati a partire dalle realtà più piccole, sino a quelle più grandi (Grafico 4).</p>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<figure class="is-layout-flex wp-block-gallery-1 wp-block-gallery has-nested-images columns-default is-cropped">
<figure class="wp-block-image size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine3.png"><img width="309" height="179" data-id="48020" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine3.png" alt="" class="wp-image-48020" /></a></figure>



<figure class="wp-block-image size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine4.png"><img width="344" height="185" data-id="48021" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine4.png" alt="" class="wp-image-48021" /></a></figure>
</figure>



<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<h2 id="h-che-cosa-succede-quando-si-denunciano-i-casi-di-sessismo">Che cosa succede quando si denunciano i casi di sessismo?</h2>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<div class="wp-block-media-text alignwide is-stacked-on-mobile"><figure class="wp-block-media-text__media"><img width="347" height="180" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine5.png" alt="" class="wp-image-48023 size-full" /></figure><div class="wp-block-media-text__content">
<p>I dati veramente interessanti emergono allorché viene domandato <strong>se ci si sia rivolti all’ufficio personale</strong> in seguito a un episodio di sessismo subito: mediamente <strong>il 60% delle vittime non lo fa</strong>. Degna di attenzione è la distribuzione rispetto al genere, dal momento che ci segnala che circa l’80% degli uomini non si rivolge all’ufficio personale, mentre le 1 donna su 2 lo fa (Grafico 5). Questi valori ci segnalano una mancanza di fiducia rispetto alla possibilità di una presa di posizione da parte dell’azienda nei confronti di atteggiamenti sessisti; inoltre, la ancor più scarsa propensione degli uomini a rivolgersi all’ufficio personale indica la persistenza di consolidati stereotipi di genere per cui un uomo non può mai domandare aiuto in situazioni di difficoltà.</p>
</div></div>



<p><strong>Ma cosa succede quando ci si rivolge all’ufficio personale?</strong> E nel caso in cui ciò non avvenga, quali sono le motivazioni? Come si apprende dal Grafico 6, il 25% delle vittime di episodi di sessismo non denuncia neanche il fatto, e le ragioni sono svariate: timore di ripercussioni, la paura di non essere creduti o semplicemente per mancanza di fiducia. Tra chi invece si rivolge all’ufficio personale ci sono esiti diversi; purtroppo, però, <strong>solo nel 10% dei casi questo comporta una sanzione</strong>, un richiamo o il licenziamento per il colpevole. <strong>Nel 45% dei casi è tutto perfettamente inutile</strong>: la denuncia non viene neanche ascoltata, oppure vengono promesse azioni che non si concretizzano mai. Tuttavia il dato ancora più preoccupante è quel <strong>20%</strong> di vittime che, in seguito alla denuncia, <strong>vede il fatto minimizzato</strong>, talvolta giustificato, e nei casi più estremi è la vittima stessa subire il licenziamento.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine6.png"><img width="351" height="297" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine6.png" alt="" class="wp-image-48024" /></a></figure></div>



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<p>Questi valori diagnosticano una situazione di tremenda gravità: sono infatti 9 su 10 le persone che affermano che vivere in un ambiente di lavoro sessista può condurre a lasciare il posto di lavoro. </p>



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<h2 id="h-le-frasi-sessiste-rivolte-alle-donne-sul-posto-di-lavoro">Le frasi sessiste rivolte alle donne sul posto di lavoro</h2>



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<p>Fino a ora abbiamo messo in luce i dati, freddi e crudi nella loro trasparenza, che tuttavia, probabilmente, non rendono in maniera abbastanza chiara che cosa possa significare subire violenze verbali sul posto di lavoro. <strong>Ma quali sono allora le frasi che una donna si sente dire?</strong></p>



<p>Si parte con la domanda per eccellenza in sede di colloquio: “<strong>Lei vuole avere figli?</strong>”. Una domanda sottile, ma che spesso traccia un invalicabile confine tra chi può ambire a un’assunzione e chi invece si deve rassegnare a essere lasciato a casa. Si passa poi al consolidato stereotipo del “<strong>nervosismo da ciclo</strong>” (“Siamo nervose oggi, sei mestruata?”), il più delle volte per screditare la reazione di una donna a frasi o atteggiamenti non graditi da parte di un uomo, come: “Bella quella gonna, si toglie anche facilmente!” oppure sproloqui di offensività senza pari come “Più che una crescita verticale, la vedrei meglio in posizione orizzontale&#8221;.</p>



<p>Ci sono poi gli apprezzamenti, o le <strong>denigrazioni</strong>, <strong>dell’aspetto estetico delle donne</strong>, un <em>evergreen</em> del sessismo: dai complimenti non richiesti come “hai proprio un bel c*lo”, sino a “potresti truccarti quando vieni a lavoro? Altrimenti i clienti si lamentano”. E non mancano le calunnie: si accusa di aver concesso favori sessuali per ottenere promozioni: “Quella ha fatto carriera sotto le scrivanie” e svalutazioni rispetto alla capacità di svolgere un compito: “Dai, è una donna, non è capace a fare questo”.</p>



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<h2 id="h-le-risorse-umane-inermi-nella-gestione-dei-casi-di-sessismo">Le risorse umane inermi nella gestione dei casi di sessismo</h2>



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<p>Il sessismo è strisciante, sopravvive, e talvolta prospera con atteggiamenti di tolleranza e passiva accettazione. Ma i comportamenti e le frasi sessiste sono più delle maschere goliardiche di cui vengono ammantati: sono vere e proprie <strong>forme di discriminazione e violenza</strong>. E come si può intuire, sul posto di lavoro questo origina un ambiente non adatto a trascorrere un terzo della propria giornata. Inevitabilmente si generano scompensi, come riporta l’EIGE, l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere: “È stato dimostrato che <strong>le aspettative e i comportamenti sessisti influenzano negativamente le prestazioni</strong>, il senso di appartenenza, la salute mentale e la soddisfazione sul posto di lavoro”.</p>



<p>Come mostrato dai dati, non di rado è una questione sottovalutata, soprattutto se si considera che <strong>l’organo preposto alla gestione delle risorse umane nel 65% dei casi si rivela inutile se non dannoso</strong>. Come ricorda sempre l’EIGE, un primo passo per affrontare diversamente queste situazioni è la formazione del personale destinato alle risorse umane: una conoscenza del tema deve essere un prerequisito fondamentale, oggi, per chi intende svolgere in maniera adeguata questo ruolo professionale. E le stesse aziende dovrebbero essere le prime a valutare con maggior attenzione la gestione dell’ambiente lavorativo, per il benessere dei lavoratori, per l’immagine dell’azienda e, anche in maniera egoistica, per la sua efficienza. </p>



<p>L&#8217;osservatorio completo è <a href="https://bit.ly/FdR_Osservatorio_Sessismo">scaricabile a questo link</a>.</p>



<p>Per ulteriori informazioni si consiglia la lettura del <a href="https://eige.europa.eu/sites/default/files/documents/20204159_mh0220657itn_pdf.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">manuale fornito dall’UE</a>.</p>



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<p><em>Foto di copertina di Tima Miroshnichenko da Pexels</em></p>


Sessismo sul lavoro: a certi HR va bene così


<p>Nel 2010 Pietro Rossi scrisse un libro dal titolo<em> Fine del diritto?</em>, molto stuzzicante per chi come me si interrogava sull’evoluzione, del diritto. Bastò però leggere la postfazione per rendersi conto che la domanda era solo provocatoria: la disincantata constatazione era che non si trattasse più del <strong>diritto</strong> “<strong>di una volta</strong>”.</p>



<p>Grazie. E per fortuna, aggiungo io. <strong>Il diritto è una scienza sociale</strong>, e dunque dovrebbe essere particolarmente sensibile a ciò che accade nel mondo reale.</p>



<p>In altri Paesi si è creata una corrente di pensiero orientata a discutere di <strong>realismo giuridico</strong>, ossia di come i fattori extragiuridici (tecnologia, società, progresso delle conoscenze filosofiche, economiche o psicologiche) possano impattare sul diritto. Tuttavia la nostra collocazione mediterranea ci ha precluso la partecipazione a simili discussioni, di casa nel nord dell’Europa e dell’America.</p>



<p>Amiamo una <strong>concezione più o meno pura del diritto</strong>, forse perché sentiamo il peso di essere il luogo in cui è nato quel diritto romano che dopo duemila anni ancora pensiamo possa essere un faro.</p>



<p><strong>Ai giuristi manca il Kahneman degli economisti</strong>: qualcuno che non c’entra nulla con quel settore scientifico e che, piano piano, per decenni studia e raccoglie dati che all&#8217;improvviso deflagrano come un terremoto. E infatti l&#8217;economia neoclassica ne è uscita malconcia, mentre il mite psicologo sperimentale israeliano raccoglieva premi Nobel e finiva sui TED Talks, sfornando saggi poi divenuti autentici bestseller.</p>



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<h2 id="h-la-fallibilita-di-un-diritto-caduto-in-disgrazia">La fallibilità di un diritto caduto in disgrazia</h2>



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<p>Una visione semplicistica del mondo fa credere che possa esistere un <strong>legislatore</strong> che sa tutto quello che c’è da sapere, in grado trasformare questa sua immensa conoscenza in precetti che tutti dovrebbero osservare. D’altra parte, il mito del libero arbitrio e quello della volontà razionale sono duri a morire.</p>



<p>Non vorrei risultare irrispettoso, ma questo demiurgo è rappresentato dai <strong>nostri politici</strong>: le norme che produce non sono perle di saggezza basate su una visione del futuro, ma <strong>compromessi di battaglie parlamentari</strong>, con maggioranze temporanee e mutevoli che rendono il <strong>risultato finale tecnicamente deludente</strong> – specie negli ultimi tempi. Se poi alla base c’è pure una visione consensocentrica, il risultato non sarà mai illuminato, né illuminante.</p>



<p>Questo gli operatori del diritto lo sanno: basta chiedere a un commercialista (per non parlare solo di avvocati) che cosa ne pensa della qualità delle disposizioni tributarie.</p>



<p>Da noi la discussione sull’“<strong>orgia legislativa</strong>” – <em>orgy of statute making</em>, come la definirono gli americani a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta – non c’è mai stata, e quindi oggi moriamo sotto il peso di centinaia di migliaia di norme che nessun uomo – e quindi neanche nessun avvocato – può conoscere.</p>



<p>Il diritto è <strong>positivo</strong>, perché “posto”, cioè emanato dal legislatore di turno: al contempo però è anche <strong>imposto</strong>, perché è distante dal sentire comune, per un motivo non evidente: <strong>il senso comune non esiste più</strong>. Siamo infatti nell’era della società liquida, come ci ha insegnato Bauman; il legislatore lo ignora e continua a produrre leggi che funzionano come una fresa, ma solo in teoria, giacché in pratica non livellano affatto la società. Nel terzo millennio ci sono tante zone grigie dove il diritto non entra.</p>



<p>Se non si conoscono le scoperte delle neuroscienze del comportamento umano negli ultimi vent’anni o la psicologia negli ultimi cinquanta è impossibile immaginarlo. <strong>Così il diritto arranca</strong> nel cercare di raggiungere l’obiettivo della salute pubblica nell’epoca della pandemia, e neanche vede il traguardo della <strong>sicurezza sui luoghi di lavoro</strong>.</p>



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<h2 id="h-il-diritto-come-tecnologia">Il diritto come tecnologia</h2>



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<p><strong>Il diritto è una tecnologia creata per evitare l’autotutela</strong>, il deflagrare incontrollato di conflitti interpersonali o sociali. Nel corso di un paio di millenni si è evoluto notevolmente, diventando sempre più sofisticato. Qualcuno potrebbe pensare che considerarlo una tecnologia sia riduttivo, ma non farlo crea ben altri problemi, come ritenere che sia al di sopra degli aspetti o dei fenomeni sui quali opera. In questo senso il diritto non è umile, perché, probabilmente, salvo rare eccezioni, i giuristi non lo sono, mentre un po’ tutti immaginano il mondo giuridico in una sorta di empireo. Ma è davvero così?</p>



<p>Con un pizzico di umiltà intellettuale si potrebbe riconoscere che in un mondo complesso <strong>nessun elemento prevale su un altro</strong>: ogni nodo della rete fa il suo sporco lavoro, se è ben fatto; diversamente si scioglie e svanisce. Il <strong>nodo del diritto</strong> è bello saldo, impossibile da allentare, e per fortuna, direbbe la maggioranza; ma altrettanto potremmo dire per il mercato o per le tecnologie della società dell’informazione, dalle quali oggi siamo totalmente dipendenti.</p>



<p>In una rete non ci sono apici, vertici o gerarchie, e questo è vero anche per il diritto sotto diversi profili: <strong>il diritto è una tecnologia in concorrenza e coabitazione con altre tecnologie</strong>, tant’è vero che oggi abbiamo il processo telematico, la PEC, la firma digitale, che nascono dall’incrocio di domini diversi (diritto, processo, informatica e telematica).</p>



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<h2 id="h-l-evoluzione-del-diritto-nella-giurisprudenza-normativa">L’evoluzione del diritto nella giurisprudenza normativa</h2>



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<p><strong>Il legislatore unico del passato oggi è diventato diffuso</strong>: l’Europa verso l’alto e le autorità amministrative o indipendenti (AGCOM, ANAC. Garante privacy) a metà, mentre in basso troviamo le <em>soft law</em> (codici di condotta o autoregolamentazioni).</p>



<p>La corrente del Niño ha cambiato direzione e la <strong>giurisprudenza</strong> è diventata <strong>normativa</strong> (o almeno lo ha dichiarato nel 2009 nella sentenza 10741), un po’ come avviene nei Paesi anglosassoni: quindi si mette a fare concorrenza al legislatore, con grande scorno degli avvocati che, se pure se ne accorgono, non sanno o non vogliono dire al cliente che la <strong>certezza del diritto</strong>, oggi, non è più neppure una chimera, ma un ideale, un principio o un mito.</p>



<p>Chi è nato con l’idea di un <strong>diritto ex ante</strong>, già posto, bello, lindo, conoscibile e consultabile aprendo un semplice Codice civile o penale e non ha degli strumenti cognitivi, comunicativi e negoziali flessibili, come fa a gestire un diritto che in 20-30 anni diventa<strong> ex post</strong>? &nbsp;</p>



<p>Categorie <em>monstre</em> come la proprietà cominciano a soffrire sotto il peso di una società che inventa nuove soluzioni, generando fenomeni come la <strong><em>servitization</em></strong>: perché comprare qualcosa e quindi acquisirne la relativa proprietà, se si può ottenere lo stesso beneficio pagando un canone e con meno preoccupazioni? Non si tratta infatti solo di “usare” il bene come se fosse una semplice locazione, ma di godere dell’intero servizio che esso offre: quindi anche della manutenzione, oppure della sostituzione e dell’aggiornamento; il rischio obsolescenza non sta più in capo all’acquirente. Diversamente, in un mondo che cambia in fretta, si rischia di comprare roba già vecchia.</p>



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<h2 id="h-la-valutazione-dell-impatto-delle-leggi-che-scomunica-l-italia">La valutazione dell’impatto delle leggi che scomunica l’Italia</h2>



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<p>Un diritto che, nel suo glorioso passato, può vantarsi di aver contribuito allo sviluppo della persona umana e di aver consentito all&#8217;odierna società livelli di democrazia mai visti in precedenza, dovrebbe oggi riconoscere che la scure dell’<strong>utilità marginale</strong> non fa sconti a nessuno: non si può più continuare a sfornare leggi senza chiedersi che <strong>impatto</strong> avranno sulla società; se saranno utili, inutili o addirittura pericolose, giacché aumentano l&#8217;entropia di un sistema già in equilibrio precario.</p>



<div class="wp-block-media-text alignwide is-stacked-on-mobile"><figure class="wp-block-media-text__media"><img width="383" height="258" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine1.png" alt="" class="wp-image-47995 size-full" /></figure><div class="wp-block-media-text__content">
<p> E così abbiamo partorito l’<strong>AIR</strong> e la <strong>VIR</strong> (Analisi e Valutazione Impatto Regolamentazione), trasformando però questo strumento di programmazione e supporto decisionale, nell’adattamento italiano, nell’ennesimo strato di vernice su una ruggine che ormai ha consumato tutto il metallo: così risulta infatti nelle <em><a href="https://leg16.camera.it/465?area=35&amp;tema=778&amp;La+qualit%C3%A0+della+legislazione" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Relazioni annuali sullo stato di applicazione dell&#8217;AIR</a></em>. </p>



<p> Il rapporto <a href="https://www.coe.int/it/web/portal/-/efficiency-and-quality-of-justice-in-europe-2020-report" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Cepej</a> ci vede da anni come fanalino di coda dell&#8217;Europa (nettamente sopra la media per numero di avvocati e processi pendenti). E forse pure con la lampadina fulminata. </p>
</div></div>



<p>Il terremoto dell’economia sta colpendo anche il diritto, e concetti enormi, apparentemente solidi e inscalfibili come quello di giurisdizione o di sovranità dello Stato, cominciano a vacillare. La parola nuova è <strong>cooperazione</strong>: se si vogliono scoprire e reprimere i reati della rete, ad esempio, si deve contare su un&#8217;azione sinergica e coordinata con Paesi esteri, e dove c’è la leva della responsabilità penale qualcosa funziona. Sempre che il criminale di turno non nasconda sé stesso o il suo hardware in uno Stato più o meno canaglia.</p>



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<h2 id="h-l-innovazione-e-un-diritto-piu-umano-e-piu-leggero">L’innovazione è un diritto più umano (e più leggero)</h2>



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<p>È ora che il diritto inizi a <strong>pensare</strong> <strong>in chiave</strong> <strong>strategica</strong>, altrimenti creeremo i superbatteri dell&#8217;illegalità.</p>



<p>Tutti parlano degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale come dell’avanguardia del diritto, quando questi sistemi non sono che macinatori di dati, dunque per definizione orientati al passato: la vera innovazione sarebbe recuperare una <strong>dimensione umana</strong> al diritto, che sembra sempre più astratto e burocratico. Anche chi si occupa di management e leadership sa che con la sola tecnologia non si va lontano. Il diritto invece pecca di una <strong>visione autosufficiente</strong> che sembra bloccarne lo sviluppo.</p>



<p>In una realtà in cui tutto è volatile, incerto, complesso e ambiguo non si può avere una soluzione unica e autonoma per tutti i problemi. Per sviluppare la pianta più forte e più sana si procede con la potatura: se non iniziamo a decidere che cosa lasciare e che cosa tagliare, invece di un giardino con un minimo di ordine, vivremo in una giungla.</p>



<p>Anche questa, a suo modo, è innovazione.</p>



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Ai giuristi manca il Kahneman degli economisti

<p>“<strong>1 articolo a 1 euro!</strong>” non è una provocazione, ma una realtà quotidiana che molti – troppi – nell’ambito editoriale conoscono e neanche nascondono.</p>
<p>Per chi non è addetto ai lavori, il vaso di Pandora è stato aperto da <strong>un annuncio</strong>, l’ennesimo, questa volta pubblicato dal sito nazionale <strong>Bakeca</strong> (sito di annunci gratuiti per chi cerca anche lavoro) in cui si ricercava “un copywriter (ghostwriter) che sappia scrivere <strong>due contenuti da 850 parole</strong> circa al giorno, ottima padronanza della lingua italiana e puntualità nella consegna. Titoli e argomenti dati dall’azienda. Retribuzione <strong>1 euro ad articolo</strong>”.</p>
<p>Inizio a cercare offerte di lavoro simili e comprendo appieno che la <strong>svalutazione economica dei lavori editoriali</strong> è una prassi, non un’eccezione. Chiedo a diversi rappresentanti di questo mondo di commentare la loro realtà, o almeno di aiutarmi a interpretare assieme i pochi dati ufficiali presenti su internet che si interessino delle tariffe gli “invisibili editoriali”, ossia copywriter, ghostwriter, web writer, articolisti e simili.</p>
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<h2 id="h-quanto-guadagnano-i-freelance-dell-editoria">Quanto guadagnano i freelance dell’editoria?</h2>
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<p>Prima di tutto, <strong>quasi mai è chiesto al freelance quale sia la sua tariffa</strong> (oraria o a pagina lavorata), ma sono solitamente proposti dei <strong>forfait</strong>, cioè una cifra complessiva nella quale far rientrare tutte le operazioni di lavorazione di un progetto editoriale. Per chi collabora con le piccole case editrici si assiste sempre più spesso alla concentrazione di più attività nella stessa figura professionale, racchiuse in maniera non specifica in quel pacchetto forfettario di cui sopra.</p>
<p>A partire da settembre 2019 <strong>Redacta</strong> (nata dall’iniziativa di alcuni soci e socie ACTA come inchiesta sulle condizioni di lavoro nel settore dell’editoria libraria) ha fotografato tramite un <strong>sondaggio anonimo</strong> online la condizione attuale in cui versa il lavoro editoriale.</p>
<p>L’indagine è rimasta aperta anche nei primi mesi del 2020. Finalmente ho sottomano dei dati ufficiali sulle tariffe e i compensi, i quali costituiscono la parte più rilevante del sondaggio, che viene costantemente aggiornata con nuove segnalazioni.</p>
<p>Se ci si focalizza sulle condizioni reddituali, il <strong>55%</strong> degli intervistati dichiara un <strong>reddito lordo inferiore ai 15.000 euro</strong>, mentre solo il 7% supera i 30.000 euro. Sopra i 20.000 euro, l’orario di lavoro supera le 42 ore settimanali. Tariffe medie orarie basse, da un massimo di 14 euro a un minimo di 6.</p>
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<h2 id="h-le-norme-europee-contro-gli-autonomi-dell-editoria-non-possono-ancora-contrattare-collettivamente">Le norme europee contro gli autonomi dell’editoria: non possono ancora contrattare collettivamente</h2>
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<p>Contatto <strong>Mattia Cavani</strong> (editor freelance e membro del consiglio direttivo ACTA) che mi conferma quanto “gli editori negli ultimi anni hanno spinto sia verso una compressione delle tariffe del cottimo, con un trasversale risparmio sui costi contributivi, sia verso una sempre maggiore esternalizzazione del lavoro di redazione”, e mi spiega con accuratezza il lavoro sugli equi compensi che con Redacta stanno portando avanti per definire “calcolatrice alla mano” quanto è giusto farsi pagare per ogni lavoro.</p>
<p>Da un lato troviamo i compensi consueti, estratti tra gli editori; dall’altra parte una costruzione sensata di quella che potrebbe essere una tariffa: i due risultati, come si può immaginare, divergono di molto.</p>
<p>Mattia mi chiarisce che solo negli ultimi anni la Commissione Europea ha cominciato una <strong>revisione delle normative antitrust</strong> che, al momento, <strong>impediscono ai lavoratori autonomi di contrattare collettivamente i compensi</strong>: per esempio, due grafici che concordano una tariffa sono trattati come imprese che fanno cartello.</p>
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<h2 id="h-una-guerra-tra-poveri-c-e-chi-lavora-a-un-centesimo-a-parola">“Una guerra tra poveri: c’è chi lavora a un centesimo a parola”</h2>
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<p>Le fragili condizioni contrattuali portano a un’<strong>omertà sulle retribuzioni</strong>. Più parlo con freelance e più mi accorgo che “metterci la faccia” per la loro giusta causa ha un prezzo alto da pagare: hanno paura che anche quel poco che guadagnano si possa perdere denunciando il loro malcontento nero su bianco. Come ad esempio <strong>Rebecca</strong> (nome di fantasia), 42 anni, copywriter con quindici anni di esperienza, diversi master e un dottorato in tasca. Appena la rassicuro sull’anonimato, diventa un fiume in piena.</p>
<p>“Nel nostro campo non c’è solidarietà, è una <strong>guerra tra poveri</strong>. Aziende importanti, Nord o Sud non fa differenza in questo (tranne poche realtà), pagano <strong>10 o 20 euro a pezzo</strong>, che non ti permettono di vivere di questo lavoro con dignità. Ti assicuro che il prezzario accettato va dai 5 ai 10 euro; per aziende maggiori, 20, a meno che non si parli di testi tecnici dove possono pagare 50 euro a cartella (con una mole intensa di materiale tecnico da studiare). Ma per i blog o i testi per siti web, dove non conta lo studio dell&#8217;argomento, chiedono davvero prezzi assurdi; arrivano a contare <strong>1 centesimo a parola</strong>. Se chiedi 20 euro a pezzo fatturato ti abbandonano. Accettano 5 euro a testo. Questo lavoro dopo 15 anni è diventato un hobby, il reddito me lo fornisce altro ormai. Sono tutti così. Infatti io mi sto reiscrivendo all&#8217;università per fare della mia laurea e del mio dottorato la base di un terzo titolo, con la speranza di insegnare. <strong>Sono troppo stanca di essere mal pagata</strong>.”</p>
<p>“L’amarezza è tanta, la rabbia pure. Sapere di non potersi permettere la vita per cui si è lavorato così tanto è duro da digerire, ma la partita IVA non perdona, e a <strong>ogni dieci euro fatturati ne restano sette puliti</strong>. Ovviamente da dividere per le diverse ore impiegate, con la modifica cifra di 3,50 euro, ossia l’equivalente del tuo impegno.”</p>
<p>È un duro sfogo quello di Rebecca, unito alla rassegnazione che non vedrà mai un lavoro dignitoso come ricompensa agli studi di una vita. La ascolto in silenzio. In casi come questi ogni parola è superflua.</p>
<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<h2 id="h-silvia-faenza-amministratrice-di-ghostwriter-italia-non-siamo-tutelati-servirebbe-un-compenso-minimo-garantito">Silvia Faenza, amministratrice di Ghostwriter Italia: “Non siamo tutelati. Servirebbe un compenso minimo garantito”</h2>
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<p>La mia ultima intervista è con <strong>Silvia Faenza</strong>, ghostwriter, copywriter e blogger, amministratrice della pagina Facebook “Ghostwriter Italia”, che in sette anni di lavoro e due di gestione pagina ha visto transitare tante richieste e offerte di lavoro. Purtroppo mi conferma quanto essere sottopagati sia la normalità tra <strong>copywriter</strong>, <strong>web writer</strong> e <strong>ghostwriter</strong> e anche la <strong>confusione </strong>tra questi ruoli e la <strong>mancanza di un codice ATECO</strong> per ogni diversa categoria non aiuta. Anzi, affossa ancora di più queste professioni.</p>
<p>“La questione <strong>compenso equo</strong> è una problematica presente praticamente in ogni gruppo dedicato alla scrittura, al copywriting e lavoro online. Il problema? <strong>Non siamo tutelati</strong>, non esiste un ordine, né la reale possibilità di introdurre una tariffa minima per tutti, in quanto la gente che lavora gratis o sfruttata c&#8217;è e continuerà a esserci. Come continueranno a esistere coloro che propongono queste offerte da fame. Il problema principale è che c’è uno stuolo di persone che si credono professionisti e che lavorano a un centesimo a parola o anche meno. Il motivo? Poca professionalità, problemi economici, ma fino a quando ci sarà chi svende il suo lavoro, il problema non si risolverà mai. Molti editori si accontentano e quindi il mercato va sempre al ribasso.”</p>
<p>“Un <strong>compenso minimo garantito</strong> permetterebbe di non arrivare allo sfruttamento. È una cosa che non piacerebbe solo a me, è stata fatta anche una proposta di legge per i liberi professionisti, e più volte richiesta l&#8217;introduzione dal consiglio nazionale degli ordini e collegi professionali”<em>.</em></p>
<p>La loro pagina cerca di scremare il più possibile le offerte a ribasso, ma non sempre è possibile: non essendoci né un albo né un controllo sui tariffari, chi lo stabilisce che non si possa pagare un euro a cartella o in visibilità? Le realtà editoriali più piccole utilizzano questo ultimo metodo sempre più spesso nel far west di internet, dove <strong>solo se l’articolo viene cliccato e letto</strong> si dà all’autore un <strong>pagamento forfettario</strong>. Se il sito guadagna due euro, all’autore verrà gentilmente donato il dieci per cento, ossia venti centesimi.</p>
<p>È fondamentale che i professionisti abbiano una presa di posizione sul loro valore: non è né un hobby né un passatempo, è lavoro. Purtroppo l’<strong>assenza di forze politiche e sociali</strong> a difesa di una nuova società arrivata alla sua quarta rivoluzione industriale, quali ad esempio il sindacato, è palese e lotta contro di noi.</p>
<p>Non si vive di sole parole per chi ha bisogno anche del pane.</p>
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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>
<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>
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Freelance dell&#8217;editoria, il popolo del forfait guadagna un centesimo a parola

Un indagine sui compensi percepiti dai lavoratori dell&#8217;editoria, in massima parte freelance e precari, con la testimonianza di Mattia Cavani di ACTA e Silvia Faenza della pagina &#8220;Ghostwriter Italia&#8221;.

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<p>È successo ancora: sabato scorso, a <strong>Torino</strong>, <strong>Roberto</strong>, <strong>Marco </strong>e <strong>Filippo sono morti</strong> mentre lavoravano all’assemblamento di una <strong>gru</strong>, che si è schiantata al suolo per ragioni ancora da chiarire. Dalle prime ricostruzioni pare che i tre operai, che si trovavano in cima alla struttura per montarne il braccio, siano precipitati da diversi metri di altezza e siano poi rimasti schiacciati dal crollo dei blocchi di cemento. Filippo, il più giovane, aveva appena vent’anni. È l’ennesimo, assurdo episodio che aggiunge nuove vittime alla scia di sangue causata dagli <strong>infortuni sul lavoro</strong>: una vera ferita aperta nel cuore del nostro Paese</p>



<p>Da anni, infatti, <strong>in Italia muoiono in media tre persone ogni giorno</strong> a seguito di <strong>incidenti avvenuti sul luogo di lavoro</strong>. Sono più di mille all’anno. Questi numeri sono confermati anche nel 2021: i dati INAIL relativi ai primi dieci mesi dell’anno contano già 1.017 vittime sul lavoro. E non si tratta solo di 1.017 vite strappate, ma anche di altrettante famiglie distrutte, con impatti permanenti e devastanti.</p>



<p>Nonostante questa strage si perpetui da almeno due decenni sotto i nostri occhi, la maggior parte di noi l’ha sempre guardata con distacco e rassegnazione, come se non si potesse fare nulla per cambiare le cose. Oggi però, forse per la prima volta, la questione della sicurezza sta finalmente conquistando una maggiore attenzione generale: in televisione se ne parla quasi ogni giorno, sui giornali nazionali sono nate rubriche specifiche (ad esempio “Morire di lavoro” del quotidiano <em>La Repubblica</em>) e sempre più testate riservano spazi di approfondimento sul tema, e anche il Governo e i sindacati sembrano avere un focus più mirato.</p>



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<h2 id="h-come-impiegare-l-attenzione-sul-tema-della-sicurezza-sul-lavoro">Come impiegare l’attenzione sul tema della sicurezza sul lavoro?</h2>



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<p>Se il primo passo per affrontare un problema è parlarne, renderlo visibile e tangibile, allora questa esposizione a livello mediatico e istituzionale è senza dubbio un segnale positivo. Allo stesso tempo, però, bisogna essere consapevoli che da sola non basterà: è ormai dimostrato da numerosi studi e ricerche (a partire dagli studi di James Reason, raccolti nel testo <em>Human error</em>, fino alle pubblicazioni INAIL su questo tema) che <strong>la maggior parte degli incidenti</strong> avviene non per l’assenza di regole o procedure, né per problemi di natura tecnica, ma a causa di <strong>comportamenti sbagliati</strong>, dettati dalla fretta, dalla disattenzione, dalla mancata percezione delle possibili conseguenze di un atto non sicuro.</p>



<p>Ecco perché l&#8217;azione normativa del Governo – ad esempio l’inasprimento delle sanzioni e il potenziamento dei controlli – e quella informativa degli organi di stampa vanno necessariamente supportate da iniziative che incidano più capillarmente a livello culturale, che permettano di <strong>diffondere e consolidare buone pratiche</strong> sia a livello individuale che collettivo. Ma chi si assume la responsabilità e l’onere di farlo?</p>



<p>Io credo che un ruolo fondamentale in questo senso lo abbiano le <strong>aziende</strong>, e in particolare le grandi aziende: quelle che già da tempo hanno avuto la lungimiranza, ma anche la possibilità concreta, di avviare al loro interno pratiche di diffusione della cultura della sicurezza.</p>



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<h2 id="h-sicurezza-sul-lavoro-non-se-ne-esce-se-le-grandi-aziende-non-aiutano-le-pmi">Sicurezza sul lavoro, non se ne esce se le grandi aziende non aiutano le PMI</h2>



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<p>Le <strong>grandi aziende</strong> che operano in Italia possiedono un patrimonio di conoscenze e di esperienze incredibilmente prezioso. Negli ultimi vent’anni la maggior parte di esse ha assistito al progressivo <strong>calo degli indici infortunistici</strong>, frutto di un maggior focus sulla sicurezza e di investimenti più consistenti, in gran parte motivati dalle pressioni generate dal contesto internazionale, con i clienti esteri spesso molto più esigenti sul rispetto di standard elevati in termini di prevenzione degli incidenti.</p>



<p>Poiché il miglioramento delle performance di sicurezza ha portato anche vantaggi in termini di <strong>efficienza</strong>, oggi nelle grandi organizzazioni è diffusa la consapevolezza che maggiore è l’attenzione alla sicurezza, maggiori saranno i benefici anche a livello operativo. Eppure l’impatto di questi miglioramenti sulle statistiche nazionali è pressoché nullo, e questo dato è estremamente significativo.</p>



<p>Viviamo in un Paese il cui tessuto produttivo è soprattutto fatto di <strong>piccole e medie imprese</strong>; ed è lì che purtroppo da anni si concentra la maggior parte degli infortuni mortali. <strong>Manca la consapevolezza</strong> <strong>che le grandi aziende hanno acquisito</strong>, mancano i mezzi e la sensibilità per tradurla in formazione, in cultura, in azioni puntuali e concrete, e non per evitare eventuali sanzioni, ma perché <em>the safer, the better</em>, da ogni punto di vista.</p>



<p>Le grandi aziende hanno quindi oggi la responsabilità etica di influenzare l’ambiente che le circonda. Se fossimo in un videogioco, potremmo dire che hanno superato il primo livello; devono adesso alzare l’asticella, passare al secondo livello, dove le regole del gioco sono di tipo <strong>cooperativo</strong>. Fino ad oggi il tesoro di conoscenze ed esperienze che ha portato le grandi aziende a migliorare le proprie performance di sicurezza è stato nella maggior parte dei casi tenuto per sé; in parte per la cultura – molto diffusa nel nostro Paese – di alimentare più il bagaglio individuale che quello collettivo, in parte perché viviamo in un’era in cui siamo schiavi delle performance, del raggiungimento dei KPI, delle pressioni dettati dalle leggi di mercato. Non c’è stato, di fatto, l’interesse a fare sistema.</p>



<p>Almeno finora. Perché oggi, la pandemia ce l’ha insegnato, <strong>non possiamo più pensare di avere successo agendo individualmente</strong>: è evidente che, come ha detto anche il Presidente Mattarella il 29 novembre 2021, siamo indissolubilmente legati, dipendiamo tutti gli uni dagli altri.</p>



<p>Se vogliamo vincere la battaglia della sicurezza sul lavoro, se vogliamo arrestare questa assurda scia di vittime sul lavoro che ci accompagna da oltre vent’anni, occorre collaborare. Occorre che le grandi aziende rappresentino per le piccole e medie imprese quella <strong>spinta propulsiva</strong> di cui esse stesse hanno beneficiato in passato per migliorarsi.</p>



<p>Certo, il processo di crescita della cultura della sicurezza in Italia non può dipendere solo dal settore privato, deve coinvolgere anche la <strong>Pubblica Amministrazione</strong>. Ma le grandi aziende hanno la forza necessaria per mettersi insieme, condividere esperienze, produrre <em>know how</em> e diffonderlo presso le piccole e medie imprese, aiutandole a crescere, portandole a innalzare i propri standard, agendo da traino e da supporto per il bene del Paese.</p>



<p>Perseguire l’interesse individuale non premia più, anzi probabilmente non l’ha mai fatto: “Se brucia la casa del mio vicino, il problema è anche mio”, diceva il poeta latino Orazio. <strong>Le piccole e medie imprese sono il vicino</strong>: sono i nostri collaboratori, i fornitori che lavorano per noi e con noi, dai quali dipende in buona parte anche il nostro successo.</p>



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<h2 id="h-quanto-vale-un-investimento-nella-sicurezza">Quanto vale un investimento nella sicurezza?</h2>



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<p>Se questa giusta causa non fosse di per sé sufficiente, teniamo conto che oggi <strong>investire in sicurezza</strong> – e agire concretamente perché questo investimento ricada a cascata lungo tutta la filiera – è innanzitutto un’opportunità economica e un vantaggio in termini di immagine d’impresa. Basti pensare ai <strong>criteri ESG</strong> (Environment, Social, Governance), sempre più diffusi per analizzare un investimento non solo dal punto di vista economico, ma misurandone gli effetti di natura ambientale, sociale e di governance.</p>



<p>Tra i criteri di rating in area Social <strong>la componente Health &amp; Safety</strong>, in termini di contenimento degli infortuni e di salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori, ha un peso importante. Come sarà valutata quindi un’azienda che magari ha buoni standard di sicurezza, ma si appoggia a fornitori che non operano secondo principi sostenibili e che non garantiscono condizioni di lavoro tali da assicurare il benessere delle proprie persone?</p>



<p>A mio parere, dunque, parlare di Health &amp; Safety oggi significa entrare in un nuovo scenario, quello della <strong>sostenibilità etica</strong>, in cui la creazione di valore non è più solo verso gli azionisti, ma verso tutti gli stakeholder: azionisti, investitori, management, dipendenti, fornitori, clienti, società civile, politica, associazioni. In sintesi, <strong>verso le persone</strong>, intese come risorse della società, delle aziende e del pianeta.</p>



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<h2 id="h-i-comportamenti-emergenti-di-un-sistema-di-imprese">I “comportamenti emergenti” di un sistema di imprese</h2>



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<p>Auspico davvero che il contesto in cui viviamo sproni tutte le grandi aziende a prendersi una responsabilità nella creazione di valore per il Paese, che metta al centro il tema sicurezza innanzitutto da un punto di vista etico e sociale, ma con risvolti anche a livello economico e finanziario. Mi auguro che smettano di operare in maniera distinta e isolata, e che si uniscano per creare <strong>un insieme interconnesso</strong>, influenzandosi l’una con l&#8217;altra, mettendo a fattor comune conoscenze ed esperienze.</p>



<p>“L’insieme è maggiore della somma delle sue parti”, direbbero i fisici della cosiddetta <strong>teoria dei</strong> <strong>comportamenti emergenti</strong>. Secondo questa teoria, ogniqualvolta uno schema o una configurazione di alto livello si origina a partire dalle migliaia di interazioni semplici che avvengono tra agenti locali, si manifestano fenomeni nuovi e inaspettati, che non sono riconducibili a nessuna delle singole parti dell’insieme, ma solo al suo complesso.</p>



<p>Prendiamo ad esempio l’acqua, che ha caratteristiche diverse dalle molecole che la compongono. Una molecola d’acqua, isolata, non bagna e non è trasparente. Non è nemmeno liquida. Il fatto che l’acqua sia liquida è dunque una caratteristica “emergente”, in quanto appartiene all’insieme ma non ai singoli componenti. Queste proprietà emergenti, poi, generano comportamenti “emergenti” – come il fatto che l’acqua, a determinate temperature, si trasformi in ghiaccio – cioè dinamiche che non dipendono dai dettagli delle parti, ma sono figlie della loro interazione, del loro essere organizzate in “sistema”.</p>



<p>Pensiamo allora a quale comportamento emergente produrrebbe un <strong>sistema di grandi aziende</strong> che avesse come giusta causa la responsabilità etica, sociale ed economica a tutela di salute, sicurezza e ambiente, e che aggregasse le figure apicali HSE delle imprese leader del Paese al fine di unire forze, competenze e risorse in una rete attiva sul territorio. Se gli scienziati hanno ragione, non possiamo nemmeno immaginare le <strong>potenzialità emergenti</strong> di una tale intelligenza collettiva.</p>



<p>Allora non limitiamoci a immaginarle: <strong>rompiamo gli individualismi, facciamo sistema e scopriamo insieme l’impatto che avremo</strong>.</p>



<p></p>



<p>Foto di&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/@cleyder-duque-1585619?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Cleyder Duque</a></strong>&nbsp;da&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/foto/persona-in-possesso-di-utensile-elettrico-verde-e-nero-3637789/?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Pexels</a></strong></p>



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Sicurezza sul lavoro, appello urgente: alle piccole imprese serve aiuto dalle grandi


<p>A forza di raccontarci in Italia che quello che serve è <strong>un posto sicuro</strong> &#8211; cioè un posto garantito, protetto, intoccabile, meglio se pubblico che lì davvero non ti viene a cercare nessuno per contestarti qualcosa &#8211; abbiamo perso dimestichezza col significato primario: &#8220;<strong>garantito contro eventuali pericoli</strong>&#8220;, rimarcano i dizionari. </p>



<p><strong>Lavorare al sicuro</strong> è un concetto che negli ultimi decenni abbiamo troppo spesso delegato fuori di noi: a un responsabile, all&#8217;imprenditore, a un dispositivo di protezione, a una sirena, ai protocolli, ai colleghi più in alto di noi nell&#8217;assurda gerarchia delle competenze anche quando si tratta di salvarci la pelle. Finché non ha fatto capolino anche in Italia una nuova cultura che oltre oceano chiamavano <em><strong>nudging </strong></em>per addolcire la pillola e per mettere l&#8217;accento sul fatto che <strong>non è la norma, non è l&#8217;imposizione, che fa aumentare la sicurezza</strong>. La gentilezza della spinta nel farci prendere decisioni non è mica arrivata col nudging, però: negli ultimi decenni eravamo già cresciuti con una strategica disposizione dei prodotti sugli scaffali dei supermercati o con una elencazione non casuale delle portate nei menù dei ristoranti fino alla richiesta posta sulla sinistra dello schermo bancomat se stampare o meno la ricevuta  ben sapendo che il cittadino medio è destrimano. </p>



<p>A livello sociale si è visto che la sicurezza può essere accompagnata con la scaltrezza della semplicità, e funziona, e allora perché non farlo anche dentro le aziende e sui luoghi di lavoro in generale? Perché cambiare cultura ha un costo altissimo in termini personali e perché molte imprese, dimensione a prescindere, prediligono la messa in conto  dei <strong>corsi di formazione di rito</strong> o addirittura <strong>l&#8217;infortunio </strong>o <strong>l&#8217;incidente </strong>piuttosto che la <strong>rimessa in discussione dei valori</strong>. Fa venire i brividi ma è meglio dirselo chiaro. </p>



<p>Nel mensile che state per leggere ci siamo dati una regola chiara: <strong>non usare mai l&#8217;espressione </strong>&#8220;<strong>morti bianche</strong>&#8221; perché, quando a Nobìlita 2021 è salito sul palco di Imola Bruno Giordano, insediatosi da poco a capo dell&#8217;Ispettorato nazionale del lavoro, e ha ribadito con forza che quelle morti di bianco non hanno proprio niente, tutti ci siamo alzati in piedi e lo abbiamo applaudito e ci siamo commossi. Ma mica penseremo che basti tirare giù qualche lacrima mentre stiamo comodamente seduti sulle sedie di un festival? Piuttosto è urgente riformulare i pensieri intorno a u<strong>n concetto più contemporaneo di sicurezza</strong>, ed è ancora più urgente uscire dalla volgarità delle parole con cui il giornalismo e la politica mettono le mani sulle vite dei lavoratori. </p>



<p>C&#8217;è ancora troppa <strong>ipocrisia </strong>sul tema, ma buone azioni e sacri progetti sono già in mezzo al lavoro; che poi è la stessa ipocrisia con cui abbiamo partecipato quasi tutti alle simulazioni antincendio fatte in azienda, quando ci si ritrova riuniti nel piazzale, si firma la presenza, si aspetta il proprio turno per uscire e per rientrare, si ride e si prende quella mezz&#8217;ora come una mezz&#8217;ora di pausa rubata alla tabella di marcia dell&#8217;ufficio. </p>



<p>Ho in mente la faccia delle migliaia di hostess che da anni provano a spiegarci cosa fare in caso di emergenza in volo: vorrei vedere noi passeggeri coi loro occhi di certo nauseati dall&#8217;indifferenza che rimandiamo. Perché tanto non succede mica a noi, perché tanto le conosciamo le regole, perché tanto ti pare che l&#8217;impresa per cui lavoro non tiene alla mia sicurezza: nessuna di queste certezze, invece, ha un fondamento reale e <strong>nessuno dovrebbe mai sentirsi al sicuro dall&#8217;insicurezza</strong>. </p>



<p>Forse abbiamo visto troppi supereroi al cinema o nei fumetti e abbiamo finito per crederci.</p>



<p></p>



<p>Photo by <a href="https://unsplash.com/@weanimalsmedia?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Jo-Anne McArthur</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/cages-chicken?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Unsplash</a></p>


Editoriale 107. Un posto sicuro

<p>Ho letto in pochi giorni il nuovo libro di <strong>Mariangela Pira</strong>,<strong> <em>Il mondo nuovo</em> </strong>(Chiarelettere 2021), e per chi come me segue il suo podcast <em>3 fattori</em> non ha deluso le aspettative, ma neanche le ha entusiasmate.</p>
<p>Mariangela Pira, giornalista professionista, è una brillante <strong>conduttrice e reporter di Sky Tg24</strong>. La geopolitica, e in particolare la geopolitica economica, sono il suo pane quotidiano, e i suoi libri editi da Chiarelettere sono un’appendice del suo operato.</p>
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<h2 id="h-come-cambia-il-mondo-geopolitico-dopo-il-covid-19">Come cambia il mondo geopolitico dopo il COVID-19</h2>
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<p>Con <em>Il mondo nuovo</em> (Chiarelettere, 2021), che si configura come una naturale prosecuzione del precedente <em>Anno Zero d.C.</em> (Chiarelettere, 2020), la Pira racconta con un’indagine capillare cosa è cambiato e <strong>come cambierà il mondo dopo la crisi causata dal COVID-19</strong>, che ha messo a nudo le fragilità del nostro sistema globalizzato e segnato una cesura storica tra un prima e un dopo.</p>
<p><strong>Fragilità</strong> tanto esterne quanto interne. Non è stato semplice leggere nero su bianco quello che ci è successo in questi due anni. Appartengo ad una generazione, nata negli anni Ottanta-Novanta, che ha subito un tracollo finanziario nel 2008, e all’alba del 2020 pensava di essersi lasciata il peggio alle spalle, e con esso i suoi termini freddi e complessi – spread, mutui subprime e simili.</p>
<p>E invece a fine 2021 <strong>il surreale è diventato reale</strong>. Nulla sarà più come prima, e nel bene e nel male dobbiamo farcene una ragione. Il COVID-19 ha stravolto le nostre vite, e nuove terminologie sono diventate il nostro sapere quotidiano. <strong>Draghi</strong>, dopo averci salvato dalla Grande Recessione, domina come un sovrano illuminato il Recovery Fund in Europa, si spera che il PNRR inietti speranza, oltre che soldi, nel nostro Paese “da rimodernare”, e nel giro di due anni siamo diventati tutti virologi, economisti, ideologi di differenti fazioni (vax o no vax), affamati di dire la nostra.</p>
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<h2 id="h-un-analisi-basata-sui-confronti-tra-epoche-di-grande-cambiamento">Un’analisi basata sui confronti tra epoche di grande cambiamento</h2>
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<p>Nelle 276 pagine del libro, Mariangela Pira cerca di <strong>cavalcare l’onda di confusione</strong> creata da questo mondo nuovo e di fare ordine. Come scritto nel sottotitolo, prova a raccontarlo con parole semplici a fronte di una copertina dove risalta il suo volto solare e rassicurante. La professionalità al servizio di tutti, una perfetta operazione di marketing in un mondo alla deriva.</p>
<p>Così l’incognita sul futuro ha un sapore diverso, più mite, e ci si appella alla storia per ricordarci <strong>come eravamo e come potremmo essere</strong>.</p>
<p>La scelta storica del <strong>primo capitolo</strong>, all’interno della quale si collegano tutte le tematiche successive, svela la <strong>chiave di lettura</strong> della Pira sul post pandemia. L’autrice, con un’analisi su difficoltà e politiche di due epoche distinte – il dopoguerra e la nostra – rimarca l’importanza di cogliere dal nostro passato una visione lungimirante nel ricostruire dalle fondamenta, grazie agli aiuti ricevuti, quello che è stato distrutto. Ma, come ricorda lei, ad avercene nel mondo di oggi de “gli Einaudi, i De Gasperi, che hanno riscritto la Repubblica. Come loro non possiamo permetterci di rattoppare, dobbiamo ricostruire”.</p>
<p>In questa digressione nella storia recente l’autrice tesse la sua <strong>inchiesta interdisciplinare</strong>, dove agli argomenti cruciali si collegano riflessioni e possibili soluzioni, con un forte richiamo allo spirito critico del lettore e alla responsabilità del singolo cittadino. Perché proprio dall’esperienza con la pandemia è emersa in Italia una “<strong>drammatica arretratezza istituzionale e sociale</strong> rispetto al principio di <strong>responsabilità collettiva</strong>”, al confronto con Paesi esteri come Taiwan e la Corea del Sud, dove istituzioni e cittadini si sono mossi insieme con consapevolezza e preparazione.</p>
<p>Sono rimasta invece delusa dal paragrafo intitolato “<strong>Il ritardo del Sud</strong>”, in cui i diversi esperti intervistati, tra cui spiccano <strong>Carlo Amenta</strong> (economista) e <strong>Lucio Di Gaetano</strong> (investment manager) evidenziano come piaga d’Egitto del Meridione, la <strong>cultura del sussidio</strong> che disincentiva il lavoro. Mi piacerebbe farli confrontare con alcuni dei più importanti meridionalisti contemporanei, come il prof. Gianfranco Viesti o il giornalista Pino Aprile, per smontare o almeno attivare un dibattito onesto e critico sulla condizione del Mezzogiorno rispetto a chi vuole banalizzare il tutto con frasi a effetto e slogan senza contenuto.</p>
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<h2 id="h-perche-leggere-il-mondo-nuovo">Perché leggere <em>Il mondo nuovo</em></h2>
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<p>Questo, a mio avviso, è il motivo per invitarvi a leggere questo libro: un connubio vincente tra <strong>contenuti di qualità spiegati con chiarezza</strong>, dove la teoria incontra la pratica con i consigli di molti esperti dei rispettivi settori, per orientarsi con serietà e concretezza nel nuovo mondo.</p>
<p>Scritto per chi non mastica di economia, <em>Il mondo nuovo</em> è un’opera che mira al difficile <strong>intento divulgativo</strong> verso un pubblico esteso, presumo il più eterogeneo e non targettizzato possibile, attraverso una scrittura semplice e chiara. Un ottimo inizio <strong>per chi, digiuno di materie tecnico-economiche</strong>, vorrà in seguito approfondire con letture più impegnative.</p>
<p>Eppure, nonostante il pathos del momento che stiamo vivendo, non sono riuscita a sottolinearlo o rileggerlo. Non so se la mia mente è anestetizzata nei confronti di una scrittura che ci riconduce al nostro presente. Non so se proprio per questa incognita temporale ho bisogno di evadere mentre leggo, ma so per certo che <strong>non mi sono sentita toccata o coinvolta </strong>da questa lettura.</p>
<p>Da fervida lettrice, per me la differenza tra un libro efficiente al suo dovere ed efficace a cogliere nel segno è tutta qui.</p>


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Se il giornalismo sa di stantio più del mondo nuovo

Come cambia il pianeta dopo la pandemia? Ne parla la giornalista di Sky TG24 Mariangela Pira nel suo libro &#8220;Il mondo nuovo&#8221;, con parole semplici e chiare; a volte anche troppo, fino a rasentare i luoghi comuni. La nostra recensione.

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<p><strong>Brunetta</strong> lo ha detto più e più volte negli ultimi mesi: <strong>la pubblica amministrazione va ristrutturata</strong>. Servono persone capaci, qualificate, motivate. Parole che, al di là della demagogia, hanno fatto drizzare le orecchie a molti italiani in cerca di un lavoro, sia giovani neolaureati, sia precari con qualche inverno in più alle spalle.</p>



<p>Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rappresenta per molti una luce in fondo al tunnel della <strong>disoccupazione</strong>, e l’iscrizione ai <strong>concorsi pubblici</strong> è diventata quasi uno sport in cui li si prova tutti sperando di ottenere un contratto. Fra i vari, quello <strong>RIPAM Funzionari Amministrativi</strong>, che si è svolto a inizio ottobre, è uno dei più importanti. In palio ci sono infatti <strong>2.736 posti a tempo indeterminato</strong> per laureati, categoria F1.</p>



<p>Il bando era stato aperto nel luglio 2020, inizialmente per 2.133 posti. Un anno dopo è stato riaperto per ampliare il bacino di candidati e aumentare i posti a disposizione. Anche l’esame è cambiato. In origine prevedeva tre momenti: quello della preselezione, quello del test scritto e dell’esame orale. In seguito alla riforma Brunetta, è stato tenuto unicamente il test scritto con una valutazione dei titoli accademici per ordinare in graduatoria quelli con lo stesso punteggio. Il test stesso era diverso: era composto da 50 domande, 40 delle varie materie giuridiche ed economiche e 10 situazionali.</p>



<p>Con la riapertura del bando, i quesiti sono diminuiti: 40 domande, 8 delle quali situazionali, mentre le altre di tutte le materie, comprese inglese e informatica, che avrebbero fatto parte del test preselettivo. Insomma, si può dire che l’esame sia stato <strong>facilitato</strong>. C’è infatti un grande bisogno di nuovo personale: sono ben <strong>118.879 i posti già disponibili nella pubblica amministrazione</strong>, come ha dichiarato in aprile il ministro Brunetta: “Dietro una cifra apparentemente asettica ci sono nomi e cognomi, ci sono progetti di vita congelati a causa del virus. Sbloccare questi concorsi ci è sembrata la prima urgenza”.</p>



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<h2 id="h-la-falsa-partenza-della-riforma-brunetta-i-disagi-del-ripam-funzionari-amministrativi">La falsa partenza della riforma Brunetta: i disagi del RIPAM Funzionari Amministrativi</h2>



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<p>La nuova macchina burocratica pubblica, che dovrà rasentare la perfezione e l’efficienza tecnologica, è partita molto male: gli <strong>avvisi per la partecipazione</strong> a questo concorso sono stati <strong>inviati a pochi giorni</strong> dalla data del test scritto. Per esempio, chi si è dovuto presentare il primo ottobre è stato avvertito il 27 settembre. Chi invece è stato chiamato per la data del 7 ottobre ha ricevuto l’appello il primo. Una quantità di tempo troppo breve per prepararsi o per chiedere un permesso lavorativo, che ha causato molti <strong>disagi</strong> anche negli spostamenti.</p>



<p>Le <strong>sedi</strong> dei concorsi sono state infatti dislocate nelle zone fieristiche di alcune città: a <strong>Milano</strong> si è tenuto il concorso per tutti i partecipanti residenti nel Nord Italia, a <strong>Roma</strong> per quelli nel Lazio e in Toscana, a <strong>Pescara</strong> per quelli residenti in Abruzzo, Emilia Romagna, Marche, Umbria e Molise, a <strong>Napoli</strong> per la sola Campania, a <strong>Foggia</strong> per Puglia e Basilicata, a <strong>Cagliari</strong> per la Sardegna, <strong>Reggio Calabria</strong> per la Calabria, e infine la Sicilia, dove i residenti delle province di Catania, Messina, Trapani sono stati inclusi nel calendario di <strong>Catania</strong>, mentre gli altri in quello di <strong>Siracusa</strong>. Una divisione singolare, dato che Siracusa e Catania distano circa 60 km, mentre un residente di Reggio Emilia deve percorrerne più di 400 per arrivare al suo luogo d’esame. Il calendario non teneva infatti conto del domicilio e non era possibile selezionare un luogo diverso.</p>



<p>Per tutti coloro che vivono preparando vari concorsi e che hanno approfittato dei lockdown per studiare, questi cambiamenti forse non saranno stati pesanti. Per tutti i lavoratori che avevano dato per perso quel concorso, che non controllano ogni giorno il sito della pubblica amministrazione e che hanno un domicilio diverso dalla residenza, può essere stato un problema. Per questo abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni partecipanti.</p>



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<h2 id="h-le-voci-dei-partecipanti-ai-concorsi-pubblici-non-solo-un-posto-fisso-nel-privato-si-guadagna-meglio">Le voci dei partecipanti ai concorsi pubblici: “Non è solo un posto fisso, nel privato si guadagna meglio”</h2>



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<p>Il primo è <strong>Federico</strong>, <strong>di Roma</strong>, che ha sostenuto l’esame nella sua città il 1° ottobre. Trentatreenne, lavora all’università da precario. Come tutti ha ricevuto l’invito due giorni prima, ma per lui non è stato un grosso problema: è infatti un veterano dei concorsi, solo questa estate ne ha fatti cinque. Il suo sogno è di entrare e fare carriera nella pubblica amministrazione con i concorsi interni. Ne ha provati di ogni tipo, perché attualmente non ha neanche un contratto; convive con la fidanzata e vorrebbe avere una sicurezza che, in questo momento, solo la pubblica amministrazione potrebbe dargli. Si è iscritto al concorso perché sarebbe adatto ai suoi studi: è infatti laureato in relazioni internazionali e vorrebbe entrare al ministero degli Interni. Alcune domande assomigliavano alle cose che aveva già studiato per i concorsi di Roma, quindi si reputa fortunato. I quiz, però, non erano facili, nonostante si ritenesse preparato, e non è riuscito a superare la soglia dei 21 punti. Ora continuerà a provare, certo che i prossimi concorsi andranno meglio.</p>



<p><strong>Marianna</strong>, trentaseienne di <strong>Palermo</strong> che ha svolto il concorso a Siracusa, ha iniziato a lavorare a 21 anni, prima ancora di laurearsi, ma è riuscita comunque a prendere anche la specialistica. È risultata idonea con un punteggio basso, ma è ottimista: “Credo che arriverà il momento per tutti. La pubblica amministrazione ha un grande turnover”. I suoi genitori, e così anche i suoi nonni, hanno lavorato nel pubblico. Ha lavorato per anni in uno studio legale, poi nel settore commerciale. “Alla fine ho capito che mi piaceva il diritto ed ero portata, quindi sono tornata al punto zero”. Si è licenziata e si è buttata sullo studio, con il sogno di entrare nella PA. Il concorso RIPAM è capitato; il suo obiettivo era vincere quello Aci, attualmente fermo. Nel mentre ha ottenuto un posto a tempo determinato all’università.</p>



<p>“Vorrei un tempo indeterminato, ma soprattutto sogno di unire la mia esperienza con le lingue, con il business development e con la conoscenza del diritto”, ci racconta Marianna. “Sogno di dare il mio contributo per cambiare la pubblica amministrazione in meglio. Mi piacerebbe entrare al ministero della Cultura, sarebbe il sogno nella sua migliore versione”. Un’ambizione che però ha un prezzo, perché nel settore privato guadagnava bene e <strong>lo stipendio del pubblico sarebbe inferiore</strong>, ma lei preferisce comunque la carriera nei ministeri: “Guadagnavo tanto anche come commerciale. Un po’ mi pesa, ma sento un forte attaccamento adesso. Quando si parla del pubblico come posto fisso mi dà sui nervi, perché <strong>deve essere un onore lavorarci</strong>, bisogna sentirne la responsabilità”.</p>



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<h2 id="h-i-concorsi-per-diplomati-una-macelleria-e-quelli-per-enti-locali-sono-difficilissimi">“I concorsi per diplomati? Una macelleria. E quelli per enti locali sono difficilissimi”</h2>



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<p>Poi c’è <strong>Giada</strong>, trentenne, che ha una laurea magistrale in scienze storiche e un master di II livello sulla gestione di documentazione digitale. Alla fine dello stage curricolare, però, è stata l’unica a non essere assunta in azienda. Ha lavorato come editor, ma veniva pagata troppo poco. Ha tentato una collaborazione con un giornale locale, ma senza successo. Lo scorso anno ha ottenuto una supplenza in una scuola media, ma con un contratto che veniva rinnovato ogni tre settimane. Ora si mantiene come tutor per gli studenti universitari. I concorsi di dottorato non sono andati bene e ora sta provando tutti i concorsi pubblici.</p>



<p>“Penso che quello statale sia un ottimo impiego. Non dico che è il mio piano A, ma nemmeno l’ultima spiaggia”, racconta Giada. “Se ne avessi l’opportunità mi piacerebbe lavorare nell’editoria a tempo pieno, ma non nascondo che fare un lavoro di ufficio, che metti da parte tornando a casa, ha un notevole fascino”. Vorrebbe però <strong>evitare</strong> <strong>quelli per diplomati</strong>, “sono una macelleria e poi lo stipendio è basso, soprattutto in caso di trasferimento. Eviterei anche <strong>quelli per enti locali</strong> che comunque sono difficilissimi”.</p>



<p>Infine c’è <strong>Alberto</strong>, 37enne di <strong>Padova</strong>, laureato all’Università Ca’ Foscari in Amministrazione, finanza e controllo. Dopo la laurea ha iniziato il praticantato da commercialista, con 200 euro al mese per arrivare alla fine con 600 euro al mese, senza un contributo versato. Ha lavorato come dipendente per una società di servizi finanziari, ma si è ritrovato a svolgere sempre più mansioni senza che gli venissero riconosciute in busta paga.</p>



<p>“Per evitare una crisi di nervi me ne sono andato e ho aperto una partita IVA perché nei colloqui di lavoro per impiegato mi rispondevano troppo formato o poco formato”. Si era poi buttato su un progetto a Londra e aveva rilevato con dei soci un’azienda che costruiva parti robotiche: “Ero alle stelle. <strong>Poi è arrivato il COVID-19 che mi ha stravolto il mondo</strong>, facendo saltare tutti i miei progetti. Da lì sono iniziati i problemi. Sono un libero professionista con l’attività avviata da pochi anni, quindi con pochi clienti, ai quali se non arrivano contratti non arrivano i lavori; non c’è fatturazione, non ci sono incassi, non ci sono i pagamenti dei fornitori, se non a distanza di troppi mesi”.</p>



<p>Il privato gli stava ormai stretto; da lì l’idea di buttarsi nel pubblico: “Nella mia zona ci sono occasioni di lavoro, ma <strong>non riesco più a sopportare i colloqui di lavoro</strong>, sono stanco di partire da zero e di dimostrare ogni volta quanto valgo per poi essere ripagato con una pacca sulla spalla o promesse non mantenute. Mi rendevo conto che non potevo vivere in questo modo e che non avevo più le forze psicologiche per riprendere da zero l’attività”. Dopo 4-5 mesi di studio ha vinto un concorso e fra poco inizierà a lavorare. Ne ha tentati una decina, insieme a quello RIPAM, perché “ero stanco di essere umiliato dalle persone che non capivano il mio excursus lavorativo e per dimostrare che ero in grado di mettermi in gioco con altre migliaia di persone. Lo stipendio non sarà migliore, ma so che entrerà il 10 o il 27 del mese successivo all’effettuazione della prestazione lavorativa e non dopo 7 mesi. Una volta entrato posso fare carriera anche con altri concorsi”.</p>



<p>Non è ancora chiaro in quanti si siano iscritti a questo concorso e in quanti siano risultati idonei. Nei gruppi Facebook dedicati viaggiano cifre come <strong>180.000 </strong><strong>iscritti e 8.000 idonei</strong>, ma nessuna può essere provata. Secondo il bando, la graduatoria dovrebbe scorrere fino all’esaurimento degli idonei, quindi è possibile che trovino lavoro in molti più di 2.736.</p>



<p>Dietro questi numeri si nascondono altre storie simili a quelle che abbiamo raccontato: di sfruttamento, di precarietà, di giovani professionisti che si sono scontrati con la crisi, e che adesso cercano di ricominciare a costruirsi un futuro.</p>



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<p><em>Photo credits: liveuniversity.it</em></p>


Brunetta e la disperata motivazione di chi cerca un posto nella PA


<p>Si chiama <strong>R</strong><strong>eddito di Cittadinanza</strong>, ma non tutti coloro che sono cittadini ne hanno diritto. Anche se sono <strong>poveri</strong>. Per questo INPS e Caritas a giugno hanno dato vita a un <strong>protocollo</strong> con lo scopo di identificare tutti gli esclusi da ogni forma di sostegno, ma anche di aiutarli a ottenere il Reddito di Cittadinanza che molti cittadini, pur in difficoltà, non sono riusciti a conseguire.</p>



<p>L&#8217;accordo al momento è partito con le <strong>Caritas diocesane lombarde</strong> (dieci in tutto) in via sperimentale, ma l&#8217;obiettivo è di estenderlo in tutta Italia. Non si hanno ancora dei dati al riguardo, ma attraverso il contatto quotidiano degli operatori si possono già intuire alcuni risultati, che già nel 2020 – stando al report delle stesse Caritas – non erano ottimali. <strong>Subito dopo il lockdown la situazione era critica</strong>.</p>



<p>«Compaiono fenomeni nuovi», spiegava il report: «Il primo è correlato alle <strong>difficoltà scolastiche</strong> che hanno coinvolto molte famiglie non in grado di provvedere all&#8217;acquisto della strumentazione necessaria ai loro figli per la Didattica a Distanza». La Caritas parlava espressamente di «<strong>forme di diseguaglianza sociale</strong>», che andavano a sommarsi ai problemi già presenti come la difficoltà a pagare mutuo o affitto (in tutta Lombardia), la diffusione dell&#8217;usura dell&#8217;indebitamento (nel 50% delle Caritas), e la perdita del lavoro (in tutta la Lombardia), assieme alla rinuncia alle cure o all&#8217;assistenza sanitaria (in dieci Caritas).</p>



<p>Un quadro che nel corso di questi mesi si è aggravato, anche perché la misura del Reddito di Cittadinanza, almeno in Lombardia dove è partita la sperimentazione, ha visto <strong>diminuire di circa il 40% la platea degli aventi dirit</strong>to.</p>



<p><strong>Non basta essere poveri: bisogna anche dimostrarlo</strong>.</p>



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<h2 id="h-poveri-senza-il-reddito-di-cittadinanza-ecco-chi-sono">Poveri senza il Reddito di Cittadinanza: ecco chi sono</h2>



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<p><strong>Don Moreno Locatelli</strong> è di origini bergamasche, ma è a capo della Caritas di Vigevano, la seconda più grande della provincia di Pavia, in un territorio che ha visto chiudere progressivamente diverse fabbriche negli ultimi venti anni. È un omone alto e determinato che affronta le questioni in senso pratico: dietro la sua scrivania vede scorrere i casi più difficili della provincia lombarda.</p>



<p>«A Vigevano – dice – la <strong>crisi del 2008</strong> si è sommata a <strong>quella del settore calzaturiero</strong>. Allora le famiglie di fascia media non avevano due redditi; oggi faticano ad averne uno. Grazie ai fondi Famiglia Lavoro riusciamo a tamponare questa situazione e a mettere molte persone in condizione di accedere a una serie di bonus, che vanno dal Reddito di Inclusione ad altre forme di sostegno, dei quali possono usufruire <strong>quanti non hanno accesso al Reddito di Cittadinanza</strong>».</p>



<p>Perché nella platea dei <strong>1,36 milioni di poveri che hanno diritto</strong> alla misura di sostegno introdotta dal governo gialloverde non rientrano tutti: «La prima categoria – spiega don Moreno – è composta da quei cittadini che per motivi di <strong>disagio</strong>, vuoi mentale o economico o da dipendenza, non sarebbero nemmeno in grado di fare domanda di Reddito di Cittadinanza. Sono veri e propri fantasmi, persone che magari hanno vissuto di espedienti o lavoretti semplici e mal pagati, o anche stranieri che hanno difficoltà con la lingua».</p>



<p>«Poi ci sono coloro che <strong>sono invisibili agli occhi dello Stato</strong>. Emigrati magari da altre Regioni che non hanno mai cambiato residenza, ma hanno girato più case e ora le hanno magari anche perse. Sono coloro che oggi popolano i pronto soccorso o vivono al dormitorio della Caritas; ma noi non possiamo dare loro la residenza». Quindi, quando si recano in Comune a chiedere il Reddito di Cittadinanza, il Comune di residenza si rivolge a quello di origine, che non si assume certo l&#8217;onere di fare la domanda del Reddito. «Anche perché questo – continua il sacerdote – comporterebbe una presa in carico della persona a tutti i livelli, che per un Comune rischia di essere oneroso, al netto del fatto che la persona non ci vive. Nel Comune nuovo, invece, non avrà diritto alla residenza perché senza abitazione».</p>



<p>Un cane che si morde la coda, o meglio uno scaricabarile, perché spesso i bilanci dei piccoli centri vedono la maggior parte delle loro risorse investite in pagamento di comunità per i minori e sostegno alla povertà.</p>



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<h2 id="h-la-povert-invisibile-di-mutui-e-divorzi-quando-il-reddito-toglie-il-reddito">La povertà invisibile di mutui e divorzi: quando il reddito toglie il Reddito</h2>



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<p>Erano gli anni Duemila quando un gruppo di finanzieri capì anzitempo la fine del capitalismo come era conosciuto allora. Molte famiglie italiane non l&#8217;hanno capito e sono rimaste schiacciate da <strong>mutui</strong> e <strong>finanziamenti plurimi</strong>. Un’onda lunga che si trascina ancora oggi.</p>



<p>«Quando hai un lavoro, ma più finanziamenti aperti – continua don Moreno – il reddito può collocarti al di fuori della soglia di povertà, ma spesso basta un imprevisto per mandare in crisi una famiglia che già ha delle difficoltà. Queste non hanno diritto però al Reddito di Cittadinanza. Poi c&#8217;è la grande partita dei <strong>genitori separati</strong>, nella maggior parte dei casi padri, che si trovano magari a far fronte al mutuo comune della casa, al quale si somma l&#8217;affitto per la nuova abitazione e il mantenimento dei figli.»</p>



<p><strong>Fabio Nestola</strong>, presidente della Federazione Nazionale Bigenitorialità (Fe.N.Bi.), da anni studia <strong>l&#8217;incidenza economica dei divorzi</strong>. Ha elaborato una tabella per cercare di stabilire cosa sia il reddito residuale.</p>



<p>«Il genitore separato – spiega – deve considerare il <strong>reddito residuo</strong>, ciò che resta effettivamente disponibile dopo aver detratto le voci fisse mensili relative al mantenimento dei figli, della casa della quale non ha più l’uso, ed eventualmente dell’ex coniuge, qualora questi non goda di alcun reddito o percepisca un reddito non sufficiente al sostentamento suo e della prole avuta in affidamento. Il criterio di valutazione del reddito deve quindi discostarsi dall’ufficialità del CUD, in quanto le voci predette non sono detraibili».</p>



<p>È lui stesso a fornire alcune proiezioni: un genitore con un reddito di 2.000 euro e una casa gravata da mutuo di 400 euro, con due figli ai quali dovrà dare 350 euro per uno, se ha un contributo da versare all&#8217;ex coniuge si trova a vivere con 500 euro al mese. Ma formalmente <strong>non ha diritto ad alcun reddito di sostegno</strong>.</p>



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<h2 id="h-dopo-il-divorzio-vivo-con-600-euro-al-mese-per-me-nessun-contributo">“Dopo il divorzio vivo con 600 euro al mese. Per me nessun contributo”</h2>



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<p>Il caso che <strong>un padre separato di Roma</strong> ha raccontato a <em>SenzaFiltro</em> è emblematico, ma allo stesso tempo paradossale.</p>



<p>«Al momento sono disoccupato, ma fino a poco tempo fa un lavoro l&#8217;avevo. Ero una guardia giurata. Non ho avuto un divorzio facile e mia moglie mi ha denunciato, quindi mi è stato sospeso il porto d&#8217;armi. Mi sono così trovato, dal guadagnare 1.300 euro al mese, a svolgere mansioni meno retribuite – ad esempio il controllo della febbre all&#8217;ingresso dei locali pubblici per il COVID-19. Ma guadagnavo 800 euro al mese. Quei soldi mi andavano tra il mantenimento e la spesa per la benzina. <strong>A 40 anni sono tornato a vivere con i genitori</strong>, anche perché <strong>per me non c&#8217;era alcun contributo</strong>. Ora percepisco la disoccupazione, che sono 600 euro al mese.»</p>



<p>I casi di genitori che si trovano in queste condizioni, nel corso degli ultimi venticinque, anni hanno subito un <strong>aumento esponenziale</strong>, legato non solo alle difficoltà economiche, ma anche all&#8217;<strong>incremento di divorzi e separazioni</strong>, passati da quasi 8.000 a 13.000.</p>



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<p><em>Photo credits: mytrend.it</em></p>


RdC, non tutti i poveri sono uguali: ecco gli esclusi

<p>Leggere il libro di <strong>Giambattista Scirè</strong>, <strong><em>Mala università</em></strong>, è uno schiaffo in pieno viso il cui segno rimane impresso per parecchio tempo.</p>
<p>Scirè è ricercatore universitario e storico, con all&#8217;attivo diversi saggi, che ha vinto il concorso da ricercatore di Storia contemporanea presso l&#8217;<strong>Università di Catania </strong>nel dicembre 2011 ma non ha ottenuto il posto perché era stato assegnato a una laureata in Architettura tramite un <strong>concorso truccato</strong>. Un caso clamoroso, di cui hanno parlato tutta la stampa e le tv nazionali. Da allora Giambattista Scirè prosegue la sua battaglia contro l’Università di Catania per avere un contratto (che non ha ancora avuto, tranne quattro mesi di lavoro su tre anni dovuti), nonostante le sentenze amministrative e penali a suo favore.</p>
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<h2 id="h-mala-universit-la-rabbia-contro-la-corruzione-dell-accademia"><em>Mala università</em>, la rabbia contro la corruzione dell’accademia</h2>
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<p>Ho dovuto metabolizzare <em>Mala università</em> per parecchi giorni prima di scriverci su.</p>
<p>La <strong>rabbia</strong> con cui l’autore ci guida in questo sistema malato è viva in ogni pagina e mi ha colto di sorpresa: pensavo di essere già preparata – assuefatta – alla cattiva gestione delle risorse pubbliche in Italia. E invece no.</p>
<p>Non si è mai troppo consapevoli dei disastri pianificati a tavolino dai <strong>vertici di potere</strong>, settari ed elitari. Darei ragione a Scirè nel definirli “<strong>delinquenti col curriculum riuniti in bande</strong>”, che stanno contribuendo da decenni a privarci del futuro, di un pensiero critico, di un ascensore sociale, di una meritocrazia essenziale non solo nella teoria, ma soprattutto nella pratica.</p>
<p>Perché il <strong>danno</strong>, come Scirè intitola un capitolo del libro, non colpisce solo le vittime dei concorsi truccati, estromesse a priori da un accesso al ruolo, ma <strong>si riflette su tutti i cittadini</strong>. Pensiamo alla <strong>sanità</strong>, a quanto è sconvolgente comprendere come il Servizio sanitario nazionale non sia in mano ai più bravi e competenti, ma a logiche di potere (accademiche e politiche) che hanno sistematicamente la meglio sull’esigenza primaria di un servizio medico-assistenziale pubblico ottimale. Il diritto del cittadino a essere curato al meglio è pura utopia oppure questione di fortuna, effettiva o evocata a suon di telefonate.</p>
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<h2 id="h-l-universit-come-mafia-di-stato">L’università come mafia di Stato</h2>
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<p><strong>L’Università è un</strong> “<strong>postificio</strong>” <strong>referenziato</strong>, “gerarchico, verticistico, piramidale”; è prigioniera di un sistema di potere che la ricatta e la gestisce, dall’interno ma soprattutto dall’esterno, come fosse una proprietà privata, “<strong>una cosa nostra</strong>”<em>.</em></p>
<p>Oltre il solito capitolo sulle <strong>molestie</strong>, di cui da donna ho la nausea, una sezione del libro davvero inquietante e da approfondire è quella che racconta perché la “<strong>masso-mafia</strong>” gode di protezioni e coperture ad alti livelli politico-istituzionali: per l’utile e l’interesse che ne deriva. La recente vicenda della depenalizzazione del reato di abuso d’ufficio all’interno dei concorsi universitari (voluta fortemente dal governo Conte, tramite il decreto Semplificazioni, a settembre 2020) dimostra con chiarezza questa interconnessione cronica tra accademia e politica.</p>
<p>Le <strong>lobby accademiche</strong>, potenti e stimate, fanno parte di ogni partito e movimento politico, e consolidano il rapporto tra la politica e l’università attraverso fondazioni, istituzioni e associazioni, le quali mettono spesso a disposizione “ingenti somme di denaro” per costruire borse di studio pubbliche e assegni di ricerca, con i relativi vincitori già predeterminati.</p>
<p>Questa è l’università pubblica, oggi: <strong>un’</strong><strong>enorme marchetta culturale </strong>dove girano interessi, contatti, reti e soldi in corsi, progetti, master e simili, utili solo a sistemare i parenti e non ad accrescere la qualità etica, culturale e sociale di noi cittadini, che paghiamo tasse su tasse ignari di finanziare un sistema intoccabile e dedito al profitto.</p>
<p>L’autore non usa giri di parole nel definire <strong>mafia di Stato</strong> la masso-mafia accademica, dove i cattedratici usufruiscono delle università pubbliche come se fossero loro feudi privati, con metodi e arroganza degni di esponenti della malavita organizzata.</p>
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<h2 id="h-universit-corrotta-un-alternativa-esiste">Università corrotta, un’alternativa esiste</h2>
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<p>L’ultimo capitolo è dedicato al gruppo fondato da Scirè il 10 novembre 2017 “<strong>Trasparenza e Merito. L&#8217;Università che vogliamo</strong>”, un punto di riferimento, di ascolto e di supporto per tutti coloro che intendano contrapporsi a questi abusi, segnalandoli a chi di dovere e sollecitando l’opinione pubblica.</p>
<p>Ad oggi il gruppo di difesa raduna 743 studiosi tra i ventidue e i settantacinque anni, provenienti da quasi tutti i settori scientifici, divisi in 140 professori ordinari e associati, 326 tra ricercatori a tempo indeterminato e determinato e 227 tipologie di studiosi (contrattisti, dottori di ricerca, borsisti).</p>
<p>Anche personaggi importanti del dibattito pubblico come <strong>Andrea Crisanti</strong>, scienziato di fama internazionale, e <strong>Tommaso Montanari</strong>, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, hanno deciso di aderire e diventare <em>ambassador </em>del gruppo, approvandone i valori e le cause.</p>
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<h2 id="h-perch-leggere-mala-universit">Perché leggere <em>Mala universit</em><em>à</em><em></em></h2>
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<p>Ritengo che leggere <em>Mala università </em>sia necessario per comprendere appieno quanto gli interessi clientelari, settari, maschilisti e mafiosi di un sistema così elitario innalzino pochi e sottraggano a tutti.</p>
<p>Da cittadina non posso permettere che il mio senso etico e culturale sia annebbiato e rovinato da un sistema così corrotto: solo costruendo una mia base autonoma di pensiero con letture come questa posso creare e diffondere un pensiero critico che in tanti, troppi, non conoscono o hanno paura di propagare. Perché soltanto capendo realmente il valore dell’<strong>u</strong><strong>niversità come massimo sistema di democrazia pubblica </strong>si può risollevare l’Italia dalla crisi culturale e valoriale in cui brancola da decenni.</p>
<p>L’unica critica che sento di dover fare a questo libro è la tipografia da cui proviene, ossia Grafica Veneta Spa (Trebaseleghe), salita tristemente alla cronaca come caso emblematico di caporalato e razzismo. È un peccato che un saggio di denuncia di questo tipo sia attaccabile proprio sul piano etico-culturale.</p>
<p>Iniziamo da questi piccoli accorgimenti a prendere coraggio e denunciare quello che non riteniamo corretto. Un libro non può certo cambiare un sistema, ma può avviarlo al cambiamento.</p>


E se la quarta mafia fosse l&#8217;università?

Baroni e lobbisti sono solo la punta dell&#8217;iceberg: chi ci lavora definisce l&#8217;accademia &#8220;mafia di Stato&#8221;. Vediamo perché nella recensione di &#8220;Mala università&#8221;, di Giambattista Scirè.

E se la quarta mafia fosse l&#8217;università? - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/mala-universita.png

Il mensile 106 di <em>SenzaFiltro</em>, “Un palco per il lavoro”, ispirato ai contenuti del festival Nobìlita 2021.

Numero 106 - Un palco per il lavoro


<p>Alla fine dello scorso anno il nostro Paese ha fatto registrare un aumento del 7% del numero degli studenti iscritti all’Università rispetto al 2020, secondo i dati forniti dal Miur. È interessante notare come, secondo i primissimi dati forniti all’inizio del 2021 sempre dal ministero dell’Università e della ricerca, l’orientamento degli studenti italiani su <strong>quale tipologia di scuola frequentare per la formazione secondaria</strong> fosse già piuttosto evidente: per il <strong>57,1%</strong> la scelta cadeva sui <strong>licei</strong>; molto distanziati gli <strong>istituti tecnici</strong> con una preferenza pari al <strong>30,3%</strong>; fanalino di coda le <strong>scuole professionali</strong> con l’<strong>11,9%</strong>.</p>



<p>I dati sull’<strong>aumento del numero delle immatricolazioni universitarie </strong>nel nostro Paese sono positivi, ma in realtà nascondono anche diverse ombre: aumentano gli studenti nonostante secondo un recente rapporto di Eurydice (la rete istituzionale che raccoglie, analizza e diffonde informazioni sulle politiche e la struttura dei sistemi educativi europei) <strong>l’Italia</strong> figura tra i Paesi con le <strong>tasse universitarie più alte</strong> rispetto agli altri Paesi europei.</p>



<p>E ancora, secondo uno studio Openpolis su dati Eurostat <strong>l’Italia è al penultimo posto in Europa per percentuale di laureati tra i 30-34 anni</strong> con il 27,6%. Peggio di noi solo la Romania con il 25,8%.</p>



<p>Un primato e un vice primato di cui non andare particolarmente orgogliosi: se si pensa poi che nella Strategia Europa 2020 l’Unione europea invita i Paesi membri a promuovere il conseguimento di un livello di istruzione elevato per tutti, fino al raggiungimento della soglia pari al 40% nella percentuale di laureati tra i 30-34 anni, si evince come siamo molto lontani dal raggiungere l’obiettivo richiesto.</p>



<p>Scuole superiori e università sono fortemente interconnesse. Spesso si parla di retaggio culturale delle famiglie degli studenti quando non scelgono istituti tecnici per i figli a vantaggio dei licei. È una scelta che paga o che pagherà per il futuro degli studenti italiani?</p>



<p>Lo abbiamo chiesto a <strong>Franco Amicucci</strong>, sociologo e presidente di Skilla, e <strong>Luisa Pomarici</strong>, studentessa laureata in Economic and social sciences alla Bocconi di Milano e facente parte dell&#8217;associazione Tortuga dal dicembre 2020, dove è responsabile networking ed eventi.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/Pomarici.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/Pomarici-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-46587" /></a><figcaption> <strong>Luisa Pomarici</strong>, economista che fa parte dell&#8217;associazione Tortuga, sul palco di Nobìlita 2021 &#8211; Ivrea. <br></figcaption></figure>



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<h2 id="h-luisa-pomarici-associazione-tortuga-cambiare-l-accesso-all-universit-a-partire-dalla-consapevolezza-degli-studenti">Luisa Pomarici, associazione Tortuga: “Cambiare l’accesso all’università a partire dalla consapevolezza degli studenti”</h2>



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<p><strong>Dottoressa Pomarici, con lei vorrei partire dal concetto del “privilegio chiama privilegio” che ha espresso sul palco di Nobìlita ad Ivrea. L&#8217;università a suo avviso può essere ancora considerata una sorta di ascensore sociale per tutti i suoi studenti?</strong><strong></strong></p>



<p>I dati globali dimostrano che nel 1971 l’accesso all’educazione terziaria era pari al 10% della popolazione, mentre nel 2013 si era alzato al 30%. C’è stata una grande espansione che è assai positiva, e significa che c’è stata una maggiore inclusione, ma allo stesso tempo ha portato una maggiore stratificazione del sistema terziario: ci sono lauree di primo livello, magistrali, i dottorati, i master. Si sono moltiplicati anche i vari corsi di laurea di tipo orizzontale, creando percorsi di qualificazione differente che sono collegati a dei livelli salariali e a dei livelli di occupabilità differenti. Tendenzialmente i dati mostrano come chi ha una posizione socioeconomica famigliare più vantaggiosa raggiunge percorsi professionali e retributivi migliori, e questo rappresenta un grande elemento di complessità. È importante sottolineare che svolgere stage e/o internship durante l’università, percorsi propedeutici alla carriera che poi si vuole intraprendere, è fondamentale: spesso queste attività non sono retribuite ed è altrettanto difficile trovarle in modo autonomo. Il problema della non retribuzione degli internship e degli stage è molto importante, soprattutto per chi si deve mantenere per studiare: lavorando come cameriera al bar, o facendo anche semplici ripetizioni, poi non si ha il tempo materiale di cercare percorsi di quel tipo, per giunta non retribuiti. Proprio per questi motivi in Tortuga pensiamo che per colmare il mismatch durante la triennale occorra avere un periodo di stage gestito dall’università stessa, evitando così che la ricerca sia tutta sulle spalle degli studenti che devono trovare l’internship senza avere gli strumenti adeguati a farlo.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/immagine_2021-10-14_202709.png"><img width="606" height="397" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/immagine_2021-10-14_202709.png" alt="" class="wp-image-46443" /></a><figcaption><em> <em>Fonte Miur &#8211; Ministero Università e Ricerca</em> </em></figcaption></figure></div>



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<p><strong>Come pensare a università non troppo elitarie e magari irraggiungibili per qualcuno, senza parlare di vera e propria discriminazione in base alle condizioni economiche di partenza degli studenti? </strong><strong></strong></p>



<p>È importante sottolineare che non tutti gli studenti e le famiglie hanno le possibilità di affrontare l’investimento economico del percorso universitario. In Italia spendiamo nell&#8217;educazione primaria e secondaria quanto gli altri Paesi europei, ma spendiamo meno per l’educazione terziaria; è inoltre da considerare che le tasse universitarie in Italia sono tra le più alte in Europa, e questo non viene compensato da un numero di borse di studio altrettanto alto. Come Tortuga crediamo che occorra fare in modo che tutti gli studenti siano a conoscenza degli strumenti a sostegno dello studio universitario. Secondo punto: i soldi delle borse di studio dovrebbero essere erogati all’inizio dell’anno e non a rimborso, pensando alle famiglie che hanno problemi di liquidità, dove il rischio reale è che si decida di non iscrivere i propri figli all’università proprio per mancanza di disponibilità economica. Un tema altrettanto importante è quello del costo di vitto e alloggio: se una persona arriva da un contesto socioeconomico modesto non può permettersi questo scenario, proprio perché andare a vivere in un’altra città con i relativi costi da sostenere diventa proibitivo per alcune famiglie, e questo è un altro elemento di complessità.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/immagine_2021-10-14_202737.png"><img width="598" height="436" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/immagine_2021-10-14_202737.png" alt="" class="wp-image-46444" /></a><figcaption> <em>Fonte Miur &#8211; Ministero Università e Ricerca</em> </figcaption></figure></div>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/AMicucci-per-norman.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/AMicucci-per-norman-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-46596" /></a><figcaption> <strong>Franco Amicucci</strong>, sociologo e presidente di Skilla, sul palco di Nobìlita 2021 &#8211; Ivrea. <br></figcaption></figure>



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<h2 id="h-il-sociologo-franco-amicucci-il-lavoro-manuale-di-domani-avr-una-forte-componente-intellettuale">Il sociologo Franco Amicucci: “Il lavoro manuale di domani avrà una forte componente intellettuale”</h2>



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<p><strong>Dottor Amicucci , se andiamo verso una società ibrida e incerta, come ha dichiarato proprio lei sul palco di Nobìlita a Ivrea, che cosa dovrebbero studiare i giovani per il loro futuro? E ancora: esiste un ROI per le famiglie che decidono di far studiare i propri figli?</strong><strong></strong></p>



<p>Il tema è profondamente culturale: noi pensiamo alla laurea dal punto di vista del <em>Return Of Investment</em> immediato perché diamo un significato alla posizione lavorativa soddisfacente da conquistare. Vediamo meno il vero valore dello studio, che è quello di acquisire competenze di base, fondamentali per apprendere ad apprendere lungo tutto l’arco della vita. Siamo entrati nell’epoca del continuo cambiamento. Siamo poi figli di una cultura che separa nettamente il lavoro manuale da quello intellettuale: l’impiegato è di serie A mentre l’operaio è di serie B.</p>



<p><strong>Come vede il futuro del lavoro?</strong><strong></strong></p>



<p>Mi piace pensare al futuro del lavoro con una buona dose di utopia, dove tutti arrivano alla laurea ma lo sbocco lavorativo potrà essere ovunque: si potrà fare il contadino, l’idraulico, l’operaio, l’artigiano, ma con la laurea, con la stessa dignità dell’insegnante e del magistrato. Questo è il messaggio nuovo che noi dobbiamo dare al lavoro. Non è la liberazione dal concetto di fatica o dalla manualità, considerati come elemento di serie B. Sarà la tecnologia a liberarci dalla fatica, ma il lavoro dovrà rimanere centrale nella dimensione umana.</p>



<p><strong>Che cosa manca al nostro Paese per arrivare a un vero e proprio cambio di paradigma?</strong><strong></strong></p>



<p>Occorre pensare che il cambiamento nel nostro Paese avverrà attraverso questi due passaggi: la rivalutazione del lavoro manuale, che sarà da pagare di più, e far capire come la tipologia di nuovo lavoro manuale sarà strategica in futuro. Ci mancano la visione e la capacità di imbastire una riflessione collettiva sul futuro del lavoro che oggi è totalmente assente: stiamo vivendo il futuro guardandolo dagli specchietti retrovisori, utilizzando le categorie del passato. Non comprendiamo come il lavoro manuale futuro sarà un lavoro ibrido, ad altissima intensità intellettuale. Per questo sarà importante altresì che la cultura umanistica venga inserita anche negli ITS, ma ancora più importante sarà inserire la manualità nei licei: l’attività dello “sporcarsi le mani” è da ritenersi fondamentale. Pensiamo ancora al rapporto con l’ambiente: il lavorare nei campi, riprendere il rapporto con il verde e la manualità nei giardini urbani; questa perdita di corporeità rischia di essere pesantissima per le generazioni future. Non fermiamoci al mero dibattito sull’inserimento della filosofia negli ITS, ma allarghiamo queste riflessioni a tutto il sistema educativo.</p>



<p><strong>Si discute molto anche sulle discipline STEM nel nostro Paese per la formazione del futuro per i giovani.</strong><strong></strong></p>



<p>Concludo proprio con il concetto di STEM: manualità e intellettualità. Il concetto di futuro va ribaltato. Non si tratta di che cosa facciamo fare ai giovani; la domanda corretta è: quali strumenti diamo ai giovani perché creino il lavoro uscendo dalla vecchia cultura padronale e paternalistica? Non possiamo sempre pensare che sia un problema dello Stato e dell’impresa, quello di trovare il lavoro per i giovani del futuro. Non pensiamo di dare lavoro, ma di offrire gli strumenti affinché il giovane crei da sé il proprio lavoro del futuro.</p>



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<p>Se da una parte aumenta il numero degli studenti universitari e dall’altra, citando Franco Amicucci, il futuro è totalmente incerto, per i giovani di oggi il cambio di paradigma si rende assolutamente necessario. Anche in considerazione del fatto che laurearsi, per loro, non corrisponderà per forza a un lavoro certo, quanto piuttosto alla capacità di <strong>affrontare con le competenze acquisite anche nuovi percorsi professionali</strong>, e perché no <strong>manuali</strong>, che consentano sbocchi anche non convenzionali. Dei mestieri che facciano uscire dalle secche di attività professionali e lavorative fotocopia, per le quali si rischia da tempo di avere troppa offerta e poca domanda. Saranno proprio i giovani ad accettare il cambiamento e a combattere i retaggi culturali che respirano all’interno del loro nucleo famigliare. La rivoluzione del loro futuro sta tutta qui.</p>



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<p><em><em><em><em><em><em>L&#8217;articolo prende spunto dal panel &#8220;Competenze giovani o giovani competenze?&#8221;, che puoi seguire cliccando <a href="https://fb.watch/8EVwKVYhTy/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a> e <a href="https://fb.watch/8EVDyjePNH/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a>.</em> </em></em> </em></em></em></p>



<p><em>Foto: credits Domenico Grossi.</em></p>


Accesso all&#8217;università: anche gli studenti hanno le loro caste


<p>«Vieni in città, che stai a fare in campagna, se vuoi rifarti una vita devi venire in città». Così cantava Giorgio Gaber nel 1972. Altri tempi. L&#8217;Italia viveva gli ultimi strascichi del boom economico, prima della crisi petrolifera del 1973, e per le masse contadine, specie quelle del Meridione, la città era un obiettivo da raggiungere e un salto verso una migliore qualità della vita.</p>



<p>Nell&#8217;ultimo anno però <strong>molte realtà urbane si sono spopolate</strong>, complice la decisione di molte aziende di protrarre lo smart working. Anche se le previsioni degli urbanisti non mutano: in futuro il <strong>numero degli abitanti</strong> delle città continuerà ad <strong>aumentare</strong>, anche se il concetto stesso di metropoli subirà delle modifiche e gli spazi si dilateranno.</p>



<p>Un ruolo fondamentale in questa dinamica la giocherà la <strong>tecnologia</strong>, che avrà il ruolo di accorciare le distanze con le periferie, ma allo stesso tempo anche i manager dovranno operare scelte in un senso o in un altro. Le città cambieranno grazie allo smart working solo se ci sarà la volontà di farlo, insomma.</p>



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<h2 id="h-il-demografo-alfonso-giordano-ecco-perch-l-urbanizzazione-non-si-fermer">Il demografo Alfonso Giordano: «Ecco perché l’urbanizzazione non si fermerà»</h2>



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<p>«Nel 1950 – dice <strong>Alfonso Giordano</strong>, geografo politico e demografo – poco più del 30% della popolazione era urbanizzato. Nel 2008 il numero delle persone nel mondo che vivono in città per la prima volta ha superato chi vive nei centri periferici; nel 2050 si calcola che il 70% della popolazione mondiale risiederà in una città o in una grande area metropolitana. Non aumenterà soltanto la percentuale, ma anche i numeri in assoluto, perché si registra un incremento della popolazione mondiale. Le persone continuano a spostarsi, perché si dedicano sempre meno all&#8217;agricoltura, che rimane un&#8217;attività stanziale. Il movimento verso le città è iniziato con la rivoluzione industriale. Si va in città perché la vita delle persone è migliore, nonostante la <strong>sovraurbanizzazione</strong> porti anche elementi negativi, come l&#8217;inquinamento e il costo della vita, che invece allontanano dalla città.»</p>



<p>Questo spostamento che non accenna a fermarsi, però, porta con sé problematiche e costi sociali: «Nel caso di <strong>trasferimenti massivi</strong>, se non ci sono infrastrutture sufficienti è difficile che la città riesca a ricevere la popolazione. Negli ambienti rurali si pensa che in città si possa stare meglio, ma chi vi emigra, quando arriva e non trova quello che si aspettava, tende a inasprire i propri comportamenti, creando delle <strong>gang urbane</strong>. Ci sono bolle con tanti giovani, dall&#8217;età che oscilla tra i 25 e i 30 anni, che se non trovano lavoro diventano un pericolo sociale. L&#8217;<strong>80% dei conflitti </strong>che si crea nelle <strong>aree metropolitane</strong> nasce in <strong>Paesi in via di sviluppo</strong>. L&#8217;urbanizzazione non porta vantaggi, in questo caso. La Cina si sta muovendo per creare delle infrastrutture, anche se ad esempio manca ancora l&#8217;aspetto del preoccuparsi che i bambini vadano a scuola».</p>



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<h2 id="h-n-in-campagna-n-in-citt-potremo-avere-un-modello-a-met">Né in campagna né in città: «Potremo avere un modello a metà»</h2>



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<p>La tecnologia, che comporta un aumento dello smart working o del telelavoro, potrebbe però invertire questa tendenza alla base di molti conflitti sociali.</p>



<p>«<strong>Non credo che la tecnologia fermerà l&#8217;impellenza dell&#8217;urbanizzazione</strong>», continua Giordano, «perché le città offrono dei servizi reali e di esperienza che non offrono i piccoli paesi. L&#8217;esperienza virtuale non rimpiazza quella urbana, come la creazione di <strong>poli di ricerca</strong>. I talenti hanno bisogno di interazione, che tra tutti i beni è l&#8217;unico che non si può delocalizzare. I premi Nobel non si vincono in solitudine. Per molte categorie di persone, al contrario, la tecnologia potrà fermare questo tipo di urbanizzazione. Potremo avere un modello che è a metà, ma <strong>non potremo fare tutto a distanza</strong>».</p>



<p>Anche il <strong>modello a metà</strong> non nasce da solo, ma richiede un intervento dall&#8217;alto e uno sviluppo guidato non soltanto dalla tecnologia, ma dalle scelte delle persone. «La parte virtuale – spiega Giordano – dipenderà dalla cultura manageriale e dalla cultura urbana. La tecnologia è solo un mezzo. Poi bisogna vedere se avremo la capacità di <strong>ristrutturare il sistema</strong>. Lavorare a distanza significa lavorare per obiettivi, cominciando a rivoluzionare il lavoro pubblico. Ci vogliono manager che rivoluzionino gli obiettivi, che cambino il rapporto con il dipendente. L&#8217;adattarsi ci porterà a un minore inquinamento, ma avremo altri costi, come ad esempio una maggior produzione di dispositivi elettronici e una maggior spesa per l&#8217;elettricità. <strong>Questa transizione è incredibilmente veloce</strong> e lo sarà più di quello che è stata la rivoluzione industriale, che ci ha messo duecento anni per arrivare a tutti gli angoli del pianeta. Questa è una rivoluzione velocissima, perché corre su cavi sottomarini e occupa spazi virtuali. La tecnologia è sempre più impellente. Noi non ci rendiamo nemmeno conto di come è cambiata la nostra vita».</p>



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<h2 id="h-le-citt-vanno-ridisegnate-all-insegna-della-sostenibilit">«Le città vanno ridisegnate all’insegna della sostenibilità»</h2>



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<p>La grande sfida per l&#8217;urbanistica è poi quella che riguarda le <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-105/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">città del futuro</a>, che dovranno essere disegnate in modo diverso.</p>



<p>«Dobbiamo chiederci <strong>come progetteremo le città</strong>», spiega Giordano. «Potranno essere costruite attraverso l&#8217;inserimento di un algoritmo che tiene conto dell&#8217;afflusso di reddito, dei tipi di lavori, ma anche di altri elementi. Uno dei temi da affrontare è quello della <strong>sostenibilità urbana</strong>. Si tratta di avere nuovi mezzi per gestire le città, nelle quali ci sarà meno agglomerazione, ma non scompariranno». E di sicuro saranno molto diverse da come sono oggi, anche come dimensioni.</p>



<p>«Oggi le città hanno una <strong>conformazione concentrica</strong>. Al centro ormai ci sono solo uffici, in una seconda fascia si trovano le grandi ville, poi c&#8217;è un anello con gli uffici della classe media, come avvocati, medici e commercialisti, e infine gli immigrati, che sono utili a tutti per le mansioni che svolgono. Quello che succede è che poiché il centro diventa sempre più costoso la classe media va ad abitare nelle periferie, che hanno costi più vivibili. Non tutte le città offrono la stessa cosa. Roma, che è la più grande città italiana, al di fuori del raccordo è una periferia dove mancano i servizi; Milano è un&#8217;area metropolitana.»</p>



<p>Capire dove arrivino i <strong>confini di una città</strong> oggi è complesso, ed è un tema che si trova al centro del dibattito. «La città metropolitana di Milano – dice <strong>Gianni Biondillo</strong>, architetto, scrittore e antropologo – va da Novara fino a Brescia, e in alto fino a Mendrisio. Quando c&#8217;è molto inquinamento nel centro di Milano anche a Mendrisio si prendono provvedimenti. I teorici dell&#8217;architettura da anni ormai ragionano in questo senso, anche se poi le scelte pratiche appaiono diverse, come dimostrano i molti grattacieli che sono sorti nel centro di Milano, come nella zona di CityLife. In piena pandemia erano completamente vuoti. In questo senso la città va ridisegnata; anche se credo che molto difficilmente i centri urbani si svuoteranno, ci sarà un cambiamento. L&#8217;interazione reale non verrà mai meno». </p>



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<p><em>L&#8217;articolo prende spunto dal panel &#8220;Una città per cambiare&#8221;, che puoi seguire cliccando</em> <em><a href="https://fb.watch/8EVb1BWUxF/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a> e <a href="https://fb.watch/8EV9xOupJb/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a></em>.</p>



<p><em>In copertina: Alfonso Giordano sul palco di Nobìlita 2021 &#8211; Ivrea. Credits: Domenico Grossi</em></p>



<p>&nbsp;</p>


Ma le città sono pronte per l&#8217;urbanizzazione?

<p>La notizia è qui, nemmeno troppo nascosta tra le righe.</p>
<p>Stiamo parlando della piaga del <strong>precariato</strong> e dello <strong>sfruttamento del lavoro</strong> nel <strong>settore culturale-editoriale italiano</strong>, dove è manifesta la diffidenza nel considerare la cultura attività produttiva. La svalutazione è tale che nessuna istituzione raccoglie dati in modo sistematico, e neanche le principali fonti statistiche (ISTAT e AIE) riescono a procurare dati quantitativi utili a comprendere i cambiamenti dei settori artistici, creativi, culturali, in cui la crescita del lavoro autonomo e “atipico” è associata a un peggioramento delle condizioni lavorative e da remunerazioni sempre più basse.</p>
<p>A partire da aprile 2019 Redacta (nata dall’iniziativa di alcuni soci/e Acta, associazione che mette in rete i freelance) ha avviato <strong>un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nell’editoria libraria</strong> presentata durante la European Freelancers Week a Milano il 25 ottobre 2019, nell’ambito di <em>Works in progress. Il lavoro in prospettiva</em>, patrocinata dalla città di Milano. Un’area limitata ma cruciale, per il settore editoriale.</p>
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<h2 id="h-settore-culturale-milano-la-capitale-dello-sfruttamento">Settore culturale, è Milano la capitale dello sfruttamento</h2>
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<p><strong>Milano</strong>, locomotiva d’Italia con tutta la sua economia degli eventi, <strong>è la città dove il lavoro intellettuale è sfruttato di più</strong>. &nbsp;</p>
<p>Infatti, secondo il rapporto <em>Io sono cultura – L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi</em> diffuso da Symbola e Unioncamere, <strong>il sistema produttivo-culturale in Lombardia vale 24 miliardi</strong> (ovvero il 7% della ricchezza della regione) e impiega un occupato su quattro. Dietro questi fiorenti dati, la realtà ci racconta una storia fatta di sfruttamento, lavoro non pagato o alla peggio pagato in gloria.</p>
<p>A questo fine sono stati intervistati professionisti (290 persone in totale) con diversi livelli di esperienza in tutta Italia, e nel settembre 2019 è stato pubblicato online un <a href="https://www.actainrete.it/wp-content/uploads/2020/07/Editoria-libraria_sondaggio.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">sondaggio anonimo</a> per raccogliere dati quantitativi. La ricerca è rimasta aperta sino ai primi mesi del 2020, ove la prima parte è incentrata sull’identità dei rispondenti e le loro condizioni lavorative e reddituali, e la seconda parte invece sulle retribuzioni, confluite nella sezione compensi del sito di Redacta. I dati sulle tariffe e i compensi costituiscono la parte più rilevante del sondaggio, che viene costantemente aggiornata con nuove segnalazioni.</p>
<p>Oltre la metà dei compilatori del sondaggio Redacta (il 55% del totale) dichiara di avere un <strong>reddito annuo lordo inferiore a 15.000 euro</strong> per lavorare <strong>tra le 25 e le 55 ore alla settimana</strong>. Lavori faticosi, che impegnano molto spesso quanto un lavoro full time da dipendente e, se ci sono urgenze, si copre anche la notte e i festivi.</p>
<p>Altra piaga è quella del <strong>ritardo nei pagamenti</strong>. Simbolica la testimonianza di una lavoratrice che preferisce restare anonima: “Nel giugno di quest’anno avevo deciso di non fare vacanze perché avevo il conto in rosso. Due giorni dopo, sorpresa: mi arriva un bonifico di 500 euro, ma per un lavoro svolto nel 2015”.</p>
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<h2 id="h-l-editoria-dei-freelance-copertina-morbida-anzi-flessibile">L’editoria dei freelance: copertina morbida, anzi flessibile</h2>
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<p><strong>Maura Gancitano</strong>, filosofa e fondatrice di Tlon, sul palco di Nobìlita 2021 ha parlato di “esplosione di produzione editoriale allucinante” come reazione delle case editrici alla pandemia. Un fenomeno che può solo acuire lo sfruttamento lavorativo individuato dal sondaggio.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/Gancitano-e-Dorfles.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="751" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/Gancitano-e-Dorfles-1024x751.png" alt="" class="wp-image-46722" /></a><figcaption>Maura Gancitano, filosofa e fondatrice di Tlon, sul palco di Nobìlita 2021 a Imola con Piero Dorfles. <br />Credits: Domenico Grossi</figcaption></figure>
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<p>La preparazione di un libro richiede un susseguirsi di professionalità tra cui editor, correttori, grafici, illustratori che, con la <strong>crisi di vendita dei libri</strong> si sono visti ridurre sempre di più le loro retribuzioni (a cartella o a forfait) a fronte di una sempre più concitata “flessibilità professionale”. Infatti i redattori, specie nelle piccole case editrici, devono provvedere a più attività: impaginazione, correzione bozze, riscrittura testi, ricerca illustrativa.</p>
<p>Come dichiara <strong>Giulia Carini</strong>, redattrice freelance e coautrice del report: “Oggi <strong>la lavorazione redazionale dei libri</strong> viene svolta sempre più <strong>all’esterno delle case editrici</strong>. Spesso i progetti sono affidati interamente agli <strong>studi editoriali</strong>, che poi scorporano nelle varie prestazioni il lavoro commissionandolo ai <strong>collaboratori esterni</strong>. Questo genera una compressione inevitabile dei compensi – che sono peraltro di difficile contrattazione dato l’isolamento in cui il freelance si trova – e dei tempi di consegna. A fronte di redazioni che si svuotano, il lavoro viene realizzato da freelance invisibili, e si tratta in maggioranza di donne pagate meno degli uomini”.</p>
<p>Già nel 2012 l’indagine <em>Editoria invisibile</em> registrava questa distribuzione delle tipologie contrattuali: 12,6% partita IVA individuale, 23,7% co.co.co. e co.co.pro., 21,9% occasionali, 20% diritto d’autore e appena il 7,7% lavoro dipendente. I dati raccolti da Redacta relativi al 2019 fotografano una situazione che, anche a causa della scomparsa dei co.co.pro., sembra essersi semplificata: <strong>l’88% dei rispondenti si qualifica come freelance</strong>.</p>
<p>Questo <strong>comportamento predatorio</strong> in cui si fa un uso seriale di contratti privi di costi contributivi, con predilezione per le modalità che consentono di <strong>non avere minimi contrattuali</strong> (come stage curriculare e collaborazione occasionale) è possibile per diversi fattori, tra cui i principali si possono sintetizzare in una contrattazione fortemente individualizzata; mancanza di parametri di riferimento che fissino dei minimi nella remunerazione; mancanza di controlli da parte dell’Ispettorato del Lavoro; omertà dei professionisti sulle retribuzioni e sulle condizioni contrattuali; eccesso &#8211; svalutazione di offerta di lavoro che spinge tantissimi lavoratori ad accettare compensi irrisori; assenza di un sindacato incapace di impiegare il suo strumento principe, la contrattazione collettiva, per tutelare i lavoratori non dipendenti.</p>
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<h2 id="h-lavoratori-dei-beni-culturali-con-la-cultura-si-mangia-a-malapena">Lavoratori dei beni culturali, con la cultura si mangia a malapena</h2>
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<p>È tragica quanto analoga ai loro “colleghi” la <strong>precarietà dei professionisti dei beni culturali </strong>(archeologi, operatori del turismo, educatori museali, storici dell’arte e tanto altro), che con la pandemia da COVID-19 è diventata una condizione costante.</p>
<p>A descrivere questa precarietà è il movimento nazionale e associazione <strong>Mi riconosci?</strong>, nato nel 2015, che punta a ottenere dignità ed eque retribuzioni per tutti i lavoratori e i professionisti del settore beni culturali. A un anno di distanza dal primo lockdown, il movimento ha condotto un’indagine di settore attraverso un <strong>questionario online</strong>, diffuso sul sito e sui social media: a rispondere all’inchiesta <strong><em><a href="https://www.miriconosci.it/cultura-lavoro-e-covid-un-anno-dopo-risultati-questionario/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Cultura, lavoro e COVID: un anno dopo</a></em></strong> tra il 23 febbraio e il 31 marzo 2021 sono state 1.798 persone da tutta Italia, di cui più del 50% ha un’età compresa tra i 25 e i 35 anni.</p>
<p>Come spiega <strong>Rosanna Carrieri</strong>, storica dell’arte e coautrice dell’inchiesta: “Da marzo 2020 tante sono state le testimonianze che ci sono giunte e che raccontano storie quotidiane di difficoltà, assenza di tutele, crisi, lavoro in nero o non retribuito. Per questo abbiamo lanciato un questionario sul lavoro nel settore culturale: per fotografare la situazione a un anno dallo scoppio della pandemia e denunciare le condizioni di sfruttamento, ormai ordinario, che l&#8217;ultimo anno ha portato in luce”.</p>
<p>Dall’analisi affiora che <strong>il 65% degli intervistati aveva un lavoro prima della diffusione del COVID-19</strong>. Un’occupazione che però non è riuscito a preservare: infatti solo il 30,7% ha mantenuto il lavoro che aveva precedentemente alla pandemia, vale a dire 1.066 intervistati, mentre il 19,8% l’ha tenuto solo in parte, il 26,5% per nulla e il 23,1% in maniera intermittente. Le condizioni di quel 30,7% sono le più disparate: il 16,1% ha una partita IVA, il 18,4% ha un contratto multiservizi, il 9% un contratto turistico, il 12,6% è nel commercio e così via.</p>
<p>E quanto alle <strong>ore lavorate</strong>, il 56,2% delle persone che ha risposto alla domanda sul compenso dichiara che sono state <strong>molte di più di quelle effettivamente pagate</strong>, mentre il resto ha dichiarato di aver lavorato meno (20,2%) o lo stesso numero di ore (23,7%).</p>
<p>Per il 35,7% di chi ha potuto mantenere il lavoro nel settore dei beni culturali esso <strong>non è sufficiente per vivere dignitosamente</strong>, mentre il 31,1% pensa sia <strong>appena sufficiente</strong>. La maggioranza di chi ha risposto al sondaggio dichiara di essere riuscito a proseguire anche grazie ai sussidi lavorativi. E nonostante ciò, il 38,7% dei rispondenti non è per nulla soddisfatto degli aiuti statali.</p>
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<h2 id="h-chi-perde-il-lavoro-nel-settore-culturale-non-lo-ritrova-in-un-caso-su-due">Chi perde il lavoro nel settore culturale non lo ritrova in un caso su due</h2>
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<p>Tragici i dati di <strong>chi ha perso il lavoro</strong>. Di questi una buona fetta lavora nel turismo, oltre il 19%, il 14,6% nello spettacolo, l’8,8% nel commercio terziario e nei servizi. Lavoratori che a fronte della perdita del lavoro non sono riusciti a trovarne un altro, come ammette il 47,2%, i quali al momento non percepiscono né stipendio né sussidi, al contrario del 24,5% che ha trovato lavoro ma non percepisce sussidi. Il 17,7% ha dovuto cambiare settore per lavorare.</p>
<p>Come racconta una storica e critica dell’arte, partecipante al sondaggio (svolto in anonimo), “… dal 2009 ho sempre lavorato, ma in modo precario, prima co.co.pro., poi a tempo determinato e infine con partita IVA. A inizio 2020 lavoravo da circa un anno come consulente a partita IVA per una nota fondazione nazionale italiana che si occupa di valorizzazione e tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico, guadagnavo circa 1.000 euro al mese netti. Il 10 marzo 2020 mi è stato comunicato (con un messaggio) che non c’era più bisogno di me al momento perché naturalmente i progetti che seguivo erano saltati, ci saremmo magari risentiti più avanti (così mi si diceva). Dopo un anno passato a mandare cv e partecipare a bandi ora da un mese ho vinto una borsa di studio di un anno che mi consentirà di non morire di fame, ma che non fa che prorogare l’agonia”.</p>
<p>Per concludere, impossibile non citare l’abusatissimo <strong>volontariato</strong> in entrambi i settori, divenuto uno strumento di scambio tra occasione di lavoro in cambio di visibilità, esperienza, conoscenze. &nbsp;</p>
<p>Lavorare senza essere pagati non è un’opportunità. La passione per il proprio mestiere non deve giustificare il mancato pagamento al lavoro svolto per la riconoscenza di averlo ottenuto.</p>
<p>Riflettiamoci su, prima di considerare un passatempo la cultura.</p>
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<p><em>L&#8217;articolo prende spunto dal panel &#8220;Pandemia: tutta emergenza, niente cultura?&#8221;, che puoi seguire cliccando <a href="https://fb.watch/8ERWp8CMDT/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a>.</em></p>
<p><em>In copertina foto di <a href="https://unsplash.com/@m_siavash?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Siavash</a> su <a href="https://unsplash.com/s/photos/navigli-aperitivo?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Unsplash</a></em></p>


Con la cultura Milano mangia a sbafo

Due indagini fotografano lo stato dei lavoratori del settore culturale dopo la pandemia. Il risultato è impietoso: la stabilità si trasforma in precariato, il precariato in disoccupazione. E Milano guadagna un triste primato.

Con la cultura Milano mangia a sbafo - Informazione senza filtro

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<p><strong><em>La ragazza del convenience store</em></strong> di <strong>Murata Sayaka</strong>, pubblicato in italiano da Edizioni E/O, è un romanzo giapponese che ha nel lavoro un elemento portante della propria trama.</p>



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<h2 id="h-la-ragazza-del-convenience-store-la-storia-normale-di-un-personaggio-estremo"><em>La ragazza del convenience store</em>, la storia normale di un personaggio estremo</h2>



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<p><strong>Keiko Furukura</strong> è una donna di trentasei anni, da diciotto <strong>commessa</strong> in un<em> kombini: </em>un tipo di minimarket molto diffuso in Giappone e aperto 24 ore su 24. Si tratta di un impiego con contratto a tempo determinato, part-time, a turni, pagato a ore e in cui sono previsti due giorni di riposo settimanale. Per le sue caratteristiche d’impegno e retribuzione è adatto, ricercato e svolto soprattutto da studenti e giovani che, portato a termine il percorso scolastico, preferiscono arrangiarsi con occupazioni precarie (una categoria chiamata <em>freeter</em> in Giappone<em>).</em></p>



<p>Per la protagonista, però, il rapporto con questo lavoro sfugge da ogni logica e in questo risiede l’originalità del romanzo. Infatti Keiko, fin da bambina, presenta <strong>tratti di personalità anomali</strong>: le sue reazioni agli episodi infantili fra coetanei, a scuola o in momenti di gioco, sono imprevedibili e spiazzanti. Incapace di empatia e compassione, il suo pensiero è totalmente sganciato dalla componente emotiva (che pare non possedere affatto) ed è orientato soltanto al senso pratico, mirato all’ottenimento più rapido di un dato scopo, incurante dell’ammissibilità del modo scelto per arrivarci.</p>



<p>Tutto ciò sarà fonte di grande imbarazzo per la sua famiglia e Furukura sceglierà di <strong>esporsi il meno possibile</strong> per limitare l’impatto straniante delle sue reazioni sugli altri, trascorrendo gli anni della scuola senza alcun amico.</p>



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<h2 id="h-una-protagonista-ossessiva-che-esiste-per-il-suo-lavoro">Una protagonista ossessiva che esiste per il suo lavoro</h2>



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<p>Ed eccoci tornare al <strong>tema del lavoro</strong> e alla sua particolare coniugazione in questo libro.</p>



<p>Per Keiko essere commessa al <em>kombini </em>non è un impiego, ma <strong>diventa immediatamente la sua identità</strong> di essere umano. Fin dalla fase di training e formazione, prima di entrare in servizio, resta estasiata dal dover apprendere e applicare regole di comportamento e condotta: dopo non aver mai saputo come comportarsi, la liberazione è avere trovato qualcuno che le dica cosa e come fare, e metterlo in pratica.</p>



<p>Il rapporto con il lavoro diventa da subito viscerale in modo spontaneo: è come se Furukura assumesse la medesima sostanza, fisica e mentale, del suo market. In quell’“acquario trasparente”, come lo definisce lei stessa, &nbsp;Keiko fa della propria esistenza una funzione: <strong>commessa modello</strong>. In questo contesto si sente pienamente integrata, utile, attiva, in armonia, perché ogni azione e reazione è prevista e prevedibile.</p>



<p>L’identificazione totale con il suo lavoro, però, risulta <strong>ossessiva</strong>: Keiko giudica i suoi colleghi in base al loro attaccamento all’impiego, si nutre esclusivamente di alimenti provenienti dal <em>kombini</em>, calibra i ritmi delle sue giornate con l’unico scopo di essere più in forma possibile per lo svolgimento delle proprie mansioni; addirittura per addormentarsi immagina il market e spesso lo sogna.</p>



<p>Anche il <strong>rapporto con il mondo circostante</strong> è figlio dello sguardo funzionale all’occupazione: passeggiate mirate nei dintorni del <em>kombini </em>in cerca di cambiamenti o nuove attività e la consultazione delle previsioni del tempo sono mezzi per prevedere e programmare vendite e ordini di merce.</p>



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<h2 id="h-una-scrittura-misurata-che-mette-in-crisi-la-normalit-sociale">Una scrittura misurata che mette in crisi la “normalità” sociale</h2>



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<p>Murata Sayaka dosa la sua <strong>scrittura</strong> in maniera sapientemente piana, essenziale e chirurgica, adattandola alla personalità della sua protagonista che è la voce narrante del romanzo.</p>



<p>L’autrice riesce a cucire il pensiero di un personaggio che ha poco di umano, i cui ragionamenti spesso sono tanto immediati quanto alienanti, infondendo nel lettore un <strong>senso di disturbo</strong>, a volte di incredulità. Contemporaneamente, però, il modo di pensare di Keiko è reso in modo così coerente e senza fronzoli da assorbire chi legge, facendolo, a volte, solidarizzare con alcuni suoi passaggi. Volute sono anche alcune <strong>ripetizioni</strong> che rendono i limiti dei personaggi, ma rafforzano anche i concetti base che reggono il libro.</p>



<p>Infatti un cardine fondamentale di tutto il romanzo, portato all’attenzione non solo da Keiko ma da un altro personaggio che entrerà gradualmente nella trama, riguarda le <strong>aspettative della società sulle vite dei singoli individui</strong> affinché possano essere considerati “<strong>normali</strong>”. Per Furukura la violenza e l’invadenza dell’altrui giudizio, che si sente legittimato a esprimersi su di lei per la mancanza di un impiego fisso e di una relazione, è qualcosa con cui confrontarsi da sempre, un peso, un’ingerenza difficile da sopportare che limita e condiziona i suoi già scarsi rapporti con gli altri.</p>



<p>Dov’è la chiave, nel restare fedeli a se stessi subendo l’emarginazione e sentendosi chiedere giustificazioni, o nell’aderenza, magari forzata o simulata, agli usuali schemi sociali? Qui risiede il vero nodo del libro, che sarà approfondito nel suo sviluppo.</p>



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<h2 id="h-perch-leggere-la-ragazza-del-convenience-store">Perché leggere <em>La ragazza del convenience store</em></h2>



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<p><em>La ragazza del convenience store</em> è un interessante spaccato di alcuni <strong>usi e costumi giapponesi</strong>: principalmente il <strong>cibo</strong>, la cui varietà è ben rappresentata nelle merci distribuite dal<em> kombini; </em>poi lo è anche la <strong>casa</strong>, con il suo arredamento tipico ed essenziale. Molto utile il <strong>glossario</strong> a fine testo che spiega riccamente tutti i vocaboli giapponesi presenti.</p>



<p>Inoltre, come si diceva, è un interessante ritratto della <strong>società giapponese</strong>, fatta di schemi rituali, stereotipi, aspettative a cui spesso viene persino auspicato sia immolata la propria individualità. Interessante, poi, la parte del corso di formazione per commessǝ e l’espletamento del lavoro: la ripetizione di frasi rituali, il contegno e l’ossequio richiesti verso il cliente con modalità molto diverse da quelle a cui siamo abituati in Occidente.</p>



<p><strong>Il personaggio di Keiko</strong>, poi, è più unico che singolare. Spesso lascia basiti, eppure nel suo disagio abitano domande scomode che riguardano la dinamica collettiva dei rapporti umani con i limiti e le ipocrisie dell’omologazione, vere barriere nel capire, aiutare e supportare una persona, anche cara.</p>



<p>Il libro, poi, incoraggia riflessioni sulle <strong>questioni di genere</strong> (più che mai attuali nella nostra contemporaneità): infatti nei discorsi fra i personaggi risultano ancora ben radicati, e con una naturalezza disarmante, gli stereotipi tradizionali verso i due sessi. Insomma: la storia di Keiko, seppur nella sua particolarità così estrema, è utile per ripensare a molto di ciò che battezziamo come giusto e auspicabile, sia per la persona che per la collettività.</p>


Essere o non essere il proprio lavoro? Il Giappone risponde con un romanzo


<p><strong>Pino Aprile</strong> scrive questo libro per dimostrare come ancora oggi, e con quali mezzi, le <strong>disuguaglianze</strong> – la più clamorosa quella tra Nord e Sud – si estendono a una parte del Paese che non può contare sui diritti garantiti dalla cittadinanza.</p>



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<h2 id="h-tu-non-sai-quanto-ingiusto-questo-paese-un-compendio-delle-iniquit-d-italia"><em>Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese</em>, un compendio delle iniquità d’Italia</h2>



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<p><strong><em>Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese</em></strong> è un libro che parla di diritti negati, al pari della nostra Costituzione, la più bella ma anche la più tradita. Negati a determinate categorie, rappresentate nei capitoli in cui si sviluppa il libro: i poveri, i giovani, il mondo della scuola, i meridionali, le donne (“meglio” se madri, single e del Sud) e i disabili (per i quali la disuguaglianza si esprime alla massima potenza).</p>



<p>Se poi tutte queste caratteristiche convergono in un unico soggetto le cose si mettono davvero male, perché chi meno ha, meno riceve. Non solo: <strong>a chi meno ha lo Stato toglie</strong>, per “restituirlo” a chi invece ha diritti garantiti e sempre più privilegi.</p>



<p>Un esempio su tutti è la tratta dell’azienda ferroviaria statale Roma-Milano, la tratta degli affari, quella ad alta velocità finanziata con soldi pubblici. Soldi di tutti, quindi anche dei meridionali, per far viaggiare meglio i più ricchi, quando in certe zone mancano le strade per raggiungere la città più vicina.</p>



<p>È una provocazione, ma ciò che ad Aprile preme sottolineare è che le disuguaglianze non dovrebbero dipendere dalla <strong>parte del Paese in cui si nasce</strong>, in quali condizioni o territori, anche se in realtà le cose stanno così, in particolare per i <strong>giovani</strong>. Ciò che saranno è deciso dalla nascita, ovvero dalla famiglia da cui provengono; oppure dall’abitare in una grande città o in un paese sperduto, privo di collegamenti e possibilità.</p>



<p>Questi veri e propri tagli sono il frutto di <strong>scelte politiche</strong> – concetto ripetuto come un mantra al termine di ogni capitolo – condizionate da ragioni economiche, costruite dai più forti a danno dei più deboli. Una mancata presa di responsabilità in cui siamo coinvolti tutti.</p>



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<h2 id="h-uno-stile-denso-e-ricco-di-citazioni">Uno stile denso e ricco di citazioni</h2>



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<p>Quello di Pino Aprile è un libro difficile, perché ci mette di fronte tematiche difficili da affrontare e soprattutto da digerire, ma anche perché è <strong>stilisticamente impegnativo</strong>, in quanto le argomentazioni sono sviscerate in modo maniacale.</p>



<p>Il libro è ricco di dettagli, riferimenti a ricerche e studi di settore, così come di citazioni e di aperture di parentesi, di cui Aprile fa largo uso, che rendono la lettura non sempre scorrevole e talvolta dispersiva.</p>



<p>Il libro ha le caratteristiche di un <strong>saggio</strong> in cui, con spirito assai critico, vengono analizzati i singoli campi nei quali impera l’ingiustizia. Da un lato appare ripetitivo, perché in ciascun capitolo si fa riferimento a ricerche e studi già citati nel testo, ma allo stesso tempo ciascuna sezione potrebbe vivere di vita propria ed essere letta come un singolo studio di settore.</p>



<p>Gli argomenti e gli esempi portati per descrivere in che modo le disparità incidono sulla vita delle persone dimostrano che il nostro è un Paese diviso e divisivo, che <strong>lo Stato ha perso il senso di comunità</strong> e non compie interventi equilibrati. Motivazioni che, forse inconsapevolmente, fungono da provocazioni, e allo stesso tempo sono una spinta a reagire, ma in senso buono.</p>



<p>Aprile, infatti, mette in guardia dalla <strong>spirale di violenza</strong> che la reiterazione di interventi iniqui potrebbe generare. Ci lascia infatti con una speranza: che ci siano soggetti onesti pronti a investire in modo equo le risorse e ad abbattere la sottaciuta apartheid, in modo che non ci siano più diritti, investimenti, infrastrutture e servizi differenziati.</p>



<p>Un’occasione concreta per cambiare il destino della nostra nazione c’è, dopo il post-COVID, e sono i soldi del <strong>Recovery Fund</strong>.</p>



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<h2 id="h-perch-leggere-tu-non-sai-quanto-ingiusto-questo-paese">Perché leggere <em>Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese</em></h2>



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<p>È un <strong>libro impegnativo</strong>, dalla lettura non sempre fluida, ma che ci invita a fare un esame di coscienza affinché nessuno si senta escluso rispetto alle scelte che compie. In primis <strong>i nostri amministratori</strong>, ai quali questo libro è fortemente consigliato, che proprio grazie alle risorse del Recovery Fund hanno una chance per cambiare davvero le sorti di questo Paese.</p>



<p>E poi ci sono i <strong>ragazzi</strong>, i giovanissimi che stanno completando gli studi, che non hanno nulla da perdere se non l’opportunità di combattere per un futuro migliore anche per loro. L’opportunità di arrabbiarsi, di avviare una <strong>rivoluzione gentile</strong>, ma senza chiedere il permesso di riprendersi quanto i loro nonni e padri gli hanno tolto e non sono stati in grado di restituire.</p>



<p>Queste due categorie hanno importanti responsabilità nelle scelte che compiranno. Gli obiettivi sono garantire <strong>pari condizioni di ripartenza e di crescita</strong> e non dare per scontati i propri diritti, e anzi battersi per riguadagnarli.</p>


Pino Aprile firma il bignami delle ingiustizie italiane

<p>Si intitola <strong><em>Tre</em></strong> il romanzo più letto e discusso dell’estate 2021 pubblicato dalle Edizioni e/o. Scritto da <strong>Valérie Perrin</strong>, autrice del best seller <em>Cambiare l’acqua ai fiori</em>, il libro è il racconto di formazione di Nina, Adrien e Etienne, tre amici che si giurano amicizia eterna in un lasso di tempo che va dal 1987 al 2018.</p>
<p>In un continuo flashback temporale, la Perrin ci trascina a <strong>La Comelle</strong> (paesino rurale della Borgogna, nella Francia centro orientale) dove vivono i tre protagonisti. Tre personalità diverse eppure legatissime.</p>
<p><strong>Étienne Beaulieu</strong> è bello, ricco, superficiale. Nasconde le sue fragilità sotto uno scudo d’arroganza, amante di tante donne, ma alla fine preso solo da se stesso. La sua storia con la fidanzata del liceo Clotilde Marais, ossessionata da lui e scomparsa senza lasciare traccia in una notte d’estate, condizionerà la vita dei tre protagonisti.</p>
<p><strong>Adrien Bobin</strong> invece è l’opposto di Étienne. Timido, studioso, acuto osservatore. Padre assente che compare solo per pagare le spese mensili, madre hippy e frivola. Trasferitosi a Parigi, libero di essere e diventare quello che vuole nella grande metropoli, scriverà sotto pseudonimo un romanzo autobiografico che riscuoterà grande successo.</p>
<p>A unire il trio vi è <strong>Nina</strong>, occhi da cerbiatto, libera, bravissima a scuola, temperamento da artista: abbandonata dalla madre quando aveva pochi mesi, vive da sempre con suo nonno Pierre Beau, il postino del paese. Quando l’uomo morirà investito da un camion, sconvolta dall’accaduto e rimasta sola al mondo, accetterà di sposare, appena diciottenne, Emmanuel, un uomo ricco e possessivo che la priverà, a parole e gesti, della sua persona e dei suoi affetti. In particolar modo, dei suoi due amici d’infanzia.</p>
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<h2 id="h-tre-amici-la-borgogna-e-le-loro-speranze-e-un-delitto-sullo-sfondo">Tre amici, la Borgogna e le loro speranze. E un delitto sullo sfondo</h2>
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<p>Nella prima parte del libro il lettore viene catapultato nell’<strong>infanzia</strong> e nell’<strong>adolescenza</strong> <strong>spensierata</strong> dei tre protagonisti, godendo assieme a loro di quel tempo felice fatto di tuffi in piscina e sogni di gloria per il loro futuro, dove si progetta di fuggire insieme dalla noiosa provincia dopo il liceo per vivere la vita in città, a Parigi, non separandosi mai. Mentre Étienne e Adrien ci riusciranno, ognuno seguendo il proprio percorso di crescita fuori La Comelle, Nina sarà costretta a farlo rimanendo nel suo paese, anzi nella sua casa-prigione dorata, fatta di solitudine e violenza fisica e verbale.</p>
<p>Filo narrante del romanzo è <strong>una giornalista</strong>, <strong>Virginie</strong>, che a distanza di trent’anni racconta gli avvenimenti dei tre protagonisti: come la vita li ha cambiati e quello che sono diventati. Il ritrovamento sul fondo del lago del paese di un’automobile con i resti di Clotilde getterà un’ombra inquietante su tutto il romanzo, come ogni libro della Perrin che si rispetti.</p>
<p><em>Tre</em> è <strong>un romanzo decisamente estivo</strong>, che conquista per la sua scrittura leggera e malinconica, dimostrando ancora una volta la capacità dell’autrice di sondare l’animo umano nella sua parte più intima e profonda. Tocca temi comuni a tutti noi, come la difficoltà di crescere, l’abbandono, le insidie della vita di coppia, l’identità di genere, la sessualità, la malattia.</p>
<p>Eppure, ritengo che l’insieme di troppe tematiche, che indubbiamente fanno colpo sul lettore medio, alla lunga faccia sfociare il libro nella <strong>banalità</strong> e in un eccesso di bonarietà finale. L’aderenza a un modello vincente garantisce il celere successo editoriale, ma il prezzo da pagare è la qualità.</p>
<p>Spero che, nella sua prossima opera, la Perrin si riappropri di quella profondità che scaturisce dal talento letterario autentico, profondo e originale che le appartiene, e che ho apprezzato molto in <em>Cambiare l’acqua ai fiori</em>.</p>
<p>Nonostante quest’ultimo appunto, trovo che la sua abilità di destreggiarsi in una <strong>narrazione su più piani temporali</strong> senza far confondere il lettore sia degna di nota.</p>
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<h2 id="h-perch-leggere-tre">Perché leggere <em>Tre</em></h2>
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<p>Consiglio di leggere <em>Tre</em> perché la Perrin racconta – e in ciò sta il suo talento, il suo timbro unico – una storia ordinaria rendendola speciale. La sua capacità di far <strong>affezionare</strong> e <strong>immedesimare</strong> i lettori nei suoi personaggi, di far riflettere sul potere degli incontri (anche se sbagliati e tossici), crea una sorta di dipendenza dai suoi libri, pagina dopo pagina.</p>
<p><em>Tre</em> è un romanzo ricco di <strong>spunti musicali</strong> (ho riempito il mio Spotify di tutte le musiche ritrovate nella narrazione, come ad esempio gli Indochine), letterari (tanti i libri citati) e di luoghi geografici, dalla Borgogna alla Sicilia, ricchi di dettagli accurati e onirici. Apprezzo molto la sua idea salvifica dell’amicizia: un sentimento spesso sottovalutato, ma forse pari all’amore.</p>
<p>Concludo con uno scambio di battute fra Étienne e Adrien, che a mio avviso rappresenta le paure che tutti noi abbiamo provato una volta nella vita:</p>
<p>“Di che hai paura?”</p>
<p>“Della felicità, della liberazione, di diventare quello che sono. Non so cosa sono”.</p>


Tre vite fanno un libro. Il romanzo dell&#8217;estate è francese?

Tre ragazzi, in Borgogna, si giurano amicizia eterna. Attraverso i decenni, però, le loro vite prendono direzioni assai diverse &#8211; talvolta inquietanti. La recensione di &#8220;Tre&#8221;, di Valérie Perrin.

Tre vite fanno un libro. Il romanzo dell&#8217;estate è francese? - Informazione senza filtro

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Alessandra Quaranta

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