[VIDEO] Antonio Prigiobbo e il falso mito chiamato incubatore

In tanti gli chiedono che lavoro faccia, ma non tutti capiscono la risposta. Per lui non è importante: «È segno che la società in cui viviamo è troppo ancorata a un modello vecchio di professioni e imprenditoria; per questo non può capire cosa faccio», dice. A parlare è Antonio Prigiobbo, classe ’73, designer, giornalista, ma […]

In tanti gli chiedono che lavoro faccia, ma non tutti capiscono la risposta. Per lui non è importante: «È segno che la società in cui viviamo è troppo ancorata a un modello vecchio di professioni e imprenditoria; per questo non può capire cosa faccio», dice. A parlare è Antonio Prigiobbo, classe ’73, designer, giornalista, ma soprattutto acceleratore. Nel 2014 fonda NAStartUp, la community con base a Napoli che ha l’ambizione di sostenere tutto l’ecosistema delle startup. L’obiettivo è quello di mettere insieme le forze e “accelerare” i processi produttivi, partendo da un’idea fino a trasformarla in un’azienda che scala i mercati internazionali.

In pochi anni NAStartUp è diventata un punto di riferimento per startupper, imprenditori, ricercatori, venture capitalist o semplicemente curiosi in tutta Italia. Prigiobbo, che si occupa di startup e innovazione da diversi anni, è anche tra i promotori dello SpinUpAward, la business competition che si ripete a Scilla da quattro anni. Non ha peli sulla lingua; mette all’angolo anche le istituzioni, «perché in Italia sono in pochi a fare bene le cose». Lo fa con piglio duro e usando le sue proverbiali infografiche, con cui tiene il polso della situazione del mondo delle startup in Italia in tempo reale.

Qualche settimana fa è stato il primo ad annunciare un nuovo primato di Napoli: è la terza città in Italia per numero di startup, al contrario delle classifiche ufficiali che la ponevano al quarto posto. Si tratta dell’effetto immediato del brio di idee e voglia di impresa che si sta sviluppando negli ultimi anni, e che Prigiobbo tocca con mano ogni mese durante gli incontri della palestra di NAStartUp. Con un dialogo continuo con tutte le realtà locali e nazionali, ha ben chiara la situazione dell’ecosistema startup, a partire dagli incubatori. E sa bene che non è tutto oro quello che luccica.

 

Come disegnerebbe l’attuale scenario italiano?

In Italia esistono gli incubatori da circa trent’anni. Sono nati a supporto delle aree industriali, e poco delle idee. Ma con il passare del tempo tutto è cambiato e non tutte le realtà si sono adeguate al cambiamento. Anche per le startup esiste un forte divario Nord-Sud e non è un problema di fondi. Al Nord ci sono più imprese, le pubbliche amministrazioni funzionano meglio e supportano realmente le aziende. Poi c’è il mondo della finanza più presente e operativo, a partire da Piazza Affari, e l’imprenditoria privata è maggiormente interessata a sviluppare nuovi modelli. Anche a Roma ci sono le ex aziende di Stato che sentono il bisogno di innovarsi. Poi c’è un Sud in cui fino a poco tempo fa non c’era nemmeno un incubatore certificato, fatta eccezione per le isole; un Sud che non ha saputo aggiornarsi, non è passato da un’idea di assistenzialismo alle imprese alla necessità di accelerarle. Non creare servizi che possano eventualmente servire, ma strumenti finanziari.

C’è un freno che impedisce alle imprese del Sud di innovarsi e andare avanti. Di che cosa si tratta?

Al Sud è più sentito, ma è un problema nazionale. Abbiamo famiglie industriali che da sempre si tramandano le tecniche per fare business. Dicono: “Si è sempre fatto così e così continuiamo a fare”. Invece i paradigmi di innovazione e startup sono differenti, e continuiamo a non avere mercati completamente aperti e liberi. Non è solo un ritardo dovuto alle pubbliche amministrazioni, ma anche un ritardo culturale. Le imprese del Sud si sono abituate a non intercettare la finanza privata, ma solo i fondi pubblici. Non si impegnano a produrre ma aspettano i finanziamenti a pioggia, che tra l’altro sono fatti e gestiti male. Praticamente il lavoro delle aziende consiste nel trovare il modo di usare i fondi pubblici. È anche per questo lassismo che i giovani talenti vanno via, perché non trovano un contesto in grado di comprendere le loro idee innovative e la loro capacità di inventare soluzioni.

In questo scenario gli incubatori non danno una mano a superare il gap e a tirar fuori buone soluzioni e servizi?

Gli incubatori italiani hanno un grosso deficit e un problema di modello di sviluppo, soprattutto per quelli pubblici. Questi non misurano le loro performance e si autoalimentano con fondi pubblici. Sono un modello assistenzialistico, di supporto e copertura di servizi per aree di sviluppo. Gli incubatori che invece servono per l’ecosistema delle startup, non per le imprese, intercettano il talento e hanno una forte portante privata disposta a investire sui progetti; non assorbono risorse pubbliche e basta, ma ne sono dei catalizzatori. Serve un maggiore investimento pubblico per l’ecosistema delle startup, ma non deve essere un finanziamento a operatori pubblici. In Europa circa il 40% dei fondi che arrivano alle startup sono di fondi pubblici. Bisogna trovare il modo per mettere i soldi direttamente nelle tasche degli innovatori, e poi questi sceglieranno come investirli, non darli agli incubatori, che magari sono pure pubblici. Non si può fare sviluppo con soldi pubblici come se fosse solidarietà.

Ci sono vari modelli di incubatori però. Quale funziona meglio e quale peggio?

Partiamo dal fare un confronto tra imprese innovative private e pubbliche, magari entrambe del Sud, Campania e Sicilia. C’è il modello Mosaicoon, un’azienda i cui dipendenti hanno investito su loro stessi, sulle loro capacità e voglia di fare. Quando l’azienda ha chiuso nessuno di loro ha avuto problemi a ricollocarsi subito sul mercato. E poi c’è il modello Città della Scienza, che prende dal pubblico 6-8 milioni di euro all’anno, assume persone e le abitua a fare la vita del dipendente pubblico. Ammazza i talenti non legandoli alle performance. Poi mi spiegheranno come un gruppo di persone che non paga ottanta dipendenti da mesi mette in piedi Campania NewSteel che vuole insegnare agli startupper come funziona il mercato, e ancora meglio a fare i soldi. Tuttavia esistono modelli pubblici di successo. Per me il migliore è quello del Politecnico di Torino che ha un incubatore a due componenti: la prima è I3P, il comparto legato agli spinoff universitari; poi c’è Tetrabit legato alle startup tech. Poi c’è il più recente PoliHub del Politecnico di Milano. Entrambi sono ben collegati con il mondo delle imprese e della finanza del territorio. Quando un comparto si mette in gioco i privati premiano il merito e investono su quell’idea. Poi ci sono, tra i più grandi, Digitalmagics, LuissEnLab, Nana Bianca e H-Farm.

Che cosa ha di diverso NAStartUp da un incubatore?

Con gli incontri di NaStartup vogliamo creare cultura imprenditoriale innovativa, la sharing economy delle competenze. Mettiamo insieme persone diverse che però gravitano intorno al mondo dell’innovazione. In un Sud dove non ci sono club di investitori e c’è solo un venture capital, che però ha sede anche a Milano, c’era urgenza di trovarne e creare match con chi le idee le ha. Durante ogni incontro le startup si raccontano, i ricercatori dicono la loro, chiunque può dire di aver pensato a qualcosa di utile e che possa far guadagnare. Comunicatori, ingegneri, economisti, scienziati: la platea è eterogenea e ciascuno può dare il suo apporto secondo le sue competenze. Tutto questo avviene con cadenza mensile. Diventa una sicurezza, un luogo di confronto su cui contare. Un luogo sempre diverso, perché se stai sempre dentro alla stessa scatola pensi sempre a quella scatola. In più le attività sono sempre gratuite per tutti, perché sono organizzate da professionisti e imprenditori, a oggi oltre trenta. Durante gli incontri sia i giovani che i più esperti stanno bene e si divertono. Si sentono valorizzati per il loro lavoro e sono spinti a portare altre persone. Così la community si amplia e può arrivare più lontano. Oggi sono 6.000 gli iscritti che vengono da tutta Italia e anche dall’estero. In questi quattro anni di attività abbiamo accelerato e promosso 270 progetti, 80 di social innovation e 190 startup. Di questi 190 metà sono fermi, alcuni in cerca di nuovi finanziamenti, altri sono attivi perché hanno trovato fondi o perché ce la fanno da soli. Che sia difficile o no, nessuno a NAStartUp abbandona la sua idea.

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