Whirlpool e le multinazionali tascabili

Alitalia, eternamente alla ricerca di un cavaliere bianco che la salvi dal disastro, resta la madre di tutte le crisi aziendali. Ma nelle scorse settimane la lista nera delle crisi di impresa è diventata lunga e preoccupante: dal caso della multinazionale americana Whirlpool, che dopo aver incassato un sacco di quattrini dallo Stato italiano ha […]

Alitalia, eternamente alla ricerca di un cavaliere bianco che la salvi dal disastro, resta la madre di tutte le crisi aziendali. Ma nelle scorse settimane la lista nera delle crisi di impresa è diventata lunga e preoccupante: dal caso della multinazionale americana Whirlpool, che dopo aver incassato un sacco di quattrini dallo Stato italiano ha improvvisamente comunicato ai sindacati e al governo l’intenzione di cedere la sede di Napoli ad acquirenti ancora misteriosi, al nostrano Mercatone Uno, gestito, fino alla dichiarazione di fallimento, nella più totale opacità finanziaria da misteriose scatole cinesi societarie. Se a questo pasticcio aggiungiamo l’ultimo menù di Unilever, che ha annunciato lo spostamento del dado Knorr da Verona al Portogallo, e la riapertura del caso Ilva con la richiesta di cassa integrazione, il quadretto che ne esce non è consolante, e fa dire a molti osservatori che l’assenza di una vera politica industriale sta producendo oggi i frutti più amari.

 

Whirlpool e Mercatone Uno, disastri industriali made in Italy

Il dramma è che non si tratta soltanto di cifre o di grigi atti del tribunale fallimentare. Dietro quei numeri ci sono migliaia di famiglie che rischiano di andare a ingrassare il già nutrito esercito di disoccupati. Nella vicenda di Mercatone Uno sono coinvolti 1800 lavoratori sparsi in 55 punti vendita, mentre nel caso Whirlpool si parla di 450 lavoratori che non sanno quale sarà il loro destino.

“È proprio questo il punto, il fattore umano”, osserva Sergio Casella, presidente di una divisione della multinazionale americana Barry Wehmiller. “Il tema è legato ai valori dell’azienda. Quando l’obiettivo di un’azienda è soltanto il massimo profitto, accade quello a cui stiamo assistendo nel caso da lei citato. Quando invece l’obiettivo principale sono le persone, la visione cambia. Anche noi siamo una multinazionale americana, ma i nostri valori sono diversi: sacrificare le persone al massimo profitto non è la nostra politica. Sembrerebbe un discorso marxista ma non lo è. Più semplicemente, noi pensiamo che nel lungo periodo questa politica aziendale sia più equilibrata e paghi di più”.

C’è chi sostiene che le intenzioni di Whirlpool erano chiare fin dal momento dell’acquisizione di Indesit, ma resta il fatto che in questo comportamento si intravede la filosofia del “prendi i soldi e scappa” adottata da molte società multinazionali in Italia, spesso corteggiate dai governi a suon di agevolazioni fiscali.

Marco Scippa, capo del personale del gruppo Angel, conosce bene quella situazione e avanza dei dubbi sulla politica della multinazionale americana: “Il caso Whirlpool? Io mi sono fatto questa idea: credo che questo signori, quando hanno acquisito la Indesit, abbiano sbagliato strategia. Si sono fidati soltanto dei numeri, pensando alla sommatoria dei fatturati, senza considerare la possibilità che ci fossero dei doppioni. Appena si sono accorti di questo hanno deciso di cedere lo stabilimento di Napoli. D’altronde le devo dire che negli ambienti industriali molti immaginavano che sarebbe andata a finire così. Matteo Renzi, quando avvenne la fusione, diceva: viva gli americani, probabilmente senza considerare che quella fusione, fatta senza guardare i dettagli e le sovrapposizioni, avrebbe creato non pochi problemi. Mi pare che in tutta questa storia emerga un dato: non esiste una politica industriale che tuteli i gioielli di famiglia come quella di Indesit. Ha visto in Francia che cosa è successo? Lo Stato a un certo punto della trattativa ha deciso che la fusione con la Renault non era conveniente e non si è fatto più nulla”.

L’altro caso che ha creato scalpore è Mercatone Uno, che oltre a essere un caso aziendale è diventato un caso giudiziario grazie alla sua opacissima gestione fatta da società sconosciute oltreconfine. La Procura della Repubblica di Milano, infatti, due mesi fa ha aperto un fascicolo nel quale l’amministratore delegato Valdero Rigoni veniva messo sotto inchiesta con l’ipotesi accusatoria di bancarotta fraudolenta. La società tra il 24 e il 25 maggio scorso ha lasciato a casa oltre 1800 lavoratori. Il cerino bollente della crisi di Mercatone Uno passa di mano più volte fino ad arrivare alla Shernon Holding, controllata dalla società di diritto maltese Star Alliance Limited, che a sua volta, prima del fallimento, cede la titolarità alla Maiora Invest di Padova, sempre controllata da Valdero Rigoni e dallo svizzero Michael Tahlman. Insomma, un esempio di opacità che poteva far presagire la crisi.

 

L’economista Perugini: “La speranza dell’Italia? Le multinazionali tascabili”

Che cosa c’è dietro queste crisi aziendali? Quali sono le responsabilità della politica? Non c’è in tutto ciò anche una debolezza cronica del capitalismo italiano? Il professor Mario Perugini, docente di Storia Economica e Storia dell’Impresa all’Università Bocconi di Milano, ha accettato volentieri di parlarne con Senza Filtro. E anche lui, come molti osservatori ed economisti, sostiene che l’unica vera speranza del nostro Paese è una politica industriale che valorizzi quelle che lui definisce le “multinazionali tascabili italiane”, ovvero quelle imprese medio grandi, come ad esempio la Barilla, la Lavazza e altre decine di imprese di quelle dimensioni, che sono la vera ossatura del capitalismo italiano grazie alla loro capacità di stare sui mercati internazionali in modo autonomo.

Il caso Whirlpool è assai diverso. È impensabile poter influenzare le decisioni di una multinazionale minacciando di togliere gli incentivi. Il Ministro dello Sviluppo Economico Luigi di Maio ha fatto bene a minacciare Whirlpool di togliere gli incentivi che gli erano stati dati nell’accordo del 2018, ma è una battaglia perdente”. E allora come mettere mano alle continue crisi aziendali che ogni giorno esplodono da nord a sud? “La mia valutazione parte da una riflessione fatta da Giuseppe Berta, uno storico dell’economia che si è interrogato spesso sui destini il capitalismo italiano. Berta nei suoi studi sostiene che da noi c’è una specificità, quella di un tessuto produttivo fatto da imprese magari deboli sul piano finanziario, ma assai vitali sul piano economico, con una vocazione internazionale. Mi riferisco all’ampia fascia di medie imprese come quelle che le ho citato prima. Sono le cosiddette multinazionali tascabili. La loro forza per la nostra economia sta nel fatto che hanno un mercato mondiale, e dietro di loro ci sono filiere assai strutturate che alimentano piccole e medie imprese altrettanto importanti, e che restano sul territorio italiano. Lei mi chiedeva che cosa dovrebbe fare la politica industriale. Io credo che dovrebbe alimentare e sostenere le filiere che stanno dietro le medie imprese. Supportare le filiere è fondamentale per la crescita dell’economia e dell’occupazione, anche se sono consapevole che c’è un problema di risorse finanziarie, poco compatibile con i vincoli europei e i gravi problemi che caratterizzano i bilanci italiani. Per questo forse il dibattito si sta orientando su un ritorno al keynesismo, perché soltanto lo Stato può fare una politica fiscale di sostegno in quella direzione”.

Torniamo alla politica industriale. “Se devo essere sincero, l’unico modello di politica industriale con un paradigma chiaro era quello dell’Iri. Quel sistema è stato smantellato per molte ragioni; nel corso degli anni Ottanta c’è stato un buco enorme nella siderurgia, anche se in altri settori le cose andavano bene. La Stet, ad esempio, alla fine degli anni Novanta macinava molti profitti. Sia chiaro, oggi sarebbe impensabile ricostruire l’Iri, lo impedirebbero le regole europee e non solo”.

Quali sono a suo parere i modelli di politica industriale che prevalgono? “I paradigmi non sono molti. C’è ad esempio il modello francese, con una forte presenza dello Stato in economia: lo Stato è in sostanza l’azionista di controllo. Una delle ragioni per cui è fallita la trattativa tra Fca e Renault sta proprio in questo modello. È la tradizione colbertiana”. E poi c’è la Germania. “Già. In quel caso si tratta di un’alleanza tra il grande capitale e lo Stato. Il segreto di questo modello è che la Germania, grazie a quell’alleanza, è riuscita a tenere sotto controllo il mercato del lavoro attraverso la cogestione, anche se non è stato sempre un buon affare per i lavoratori. In Italia, lo ripeto, il modello da perseguire deve tenere conto di quelle specificità di cui abbiamo parlato a proposito delle multinazionali tascabili. I fallimenti di politica industriale in Italia, comunque, non li imputerei soltanto alla politica; si dovrebbe aprire ad esempio una riflessione seria sulle debolezze croniche del capitalismo italiano. Ma questa è un’altra storia”.

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