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È  giornalista di Radio 24, dove si occupa di UE e notizie dall’estero. Conduce la trasmissione settimanale “Generazioni Mobili”, il primo programma radiofonico a fornire informazioni utili per studiare, lavorare e fare impresa oltreconfine (ogni sabato alle 13.30).

Sergio Nava

È giornalista di Radio 24, dove si occupa di UE e notizie dall’estero. Conduce la trasmissione settimanale “Generazioni Mobili”, il primo programma radiofonico a fornire informazioni utili per studiare, lavorare e fare impresa oltreconfine (ogni sabato alle 13.30).

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Il lavoro come lo vedono i giovani, e come gli altri non l'hanno visto mai: guardiamo in faccia la nuova generazione per chiedergli che cosa vuole fare da grande - e che cosa vuole fare ora.

Numero 113 - Sentirsi giovani


<p>Da alcuni mesi sto riprovando a leggere i “<strong>classici</strong>”, i libri che non mettono su le rughe nonostante il tempo, i titoli che ci assegnavano come compiti per le vacanze e che leggevamo senza capirci niente di cosa sarebbe stata la vita, che invece era già a grandi linee tratteggiata in quelle pagine per chi voleva buttare un occhio sul futuro. </p>



<p>Succede qualcosa di simile anche con le <strong>gite scolastiche</strong>, dove proviamo ad afferrare il tempo liberato dalle aule e dalle classi piuttosto che la bellezza o l’arte verso cui ci portano per qualche giorno, in giro per l’Italia o per il mondo; o gite in cui preferiamo rubare un bacio in fondo al pullman invece che ascoltare la spiegazione del monumento a fianco. Ma anche i baci sono forme d’arte a quell’età. </p>



<p>La sensazione infallibile, in quel preciso momento, è che <strong>da ragazzi non si stia perdendo niente</strong>. Fatalismo e istinto sono i muscoli migliori da ragazzi, proprio quelli che col tempo atrofizziamo. C’è un libro, che però non è un classico e che ho ripreso in mano da poco, uscito nel 2007 prima che lo ristampassero a gennaio 2019 numerando ben ventidue edizioni. Si chiama <em><strong>L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani </strong></em>(Feltrinelli, Serie Bianca), la firma è di <strong>Umberto Galimberti</strong>: figura divisiva, si sa, ma che sul tema dei giovani, della scuola e del futuro ha le idee molto chiare e la prima è quella di tenere lontani i genitori. </p>



<p>Non è un libro solo per giovani e, come tutti i libri dedicati a un genere o a una generazione, di fatto fa bene a tutti. Mi appassiona quando parla della “omologazione dell’intimo a cui tendono tutte le società conformiste che, davanti alla massima <em>a ognuno il suo</em>, la sostituiscono con <em>a ognuno il mio</em>, per cui ciascuno finisce per sentirsi proprietà comune e si comporta come se appartenesse a tutti. E, poiché sa che se non si comportasse così verrebbe considerato sconveniente e diventerebbe sospetto, lo fa anche con un certo ardore; con somma gioia di chi deve governare la società. Gli altri, che dovrebbero stare al confine esterno dell’intimo, diventano invece inevitabili”. </p>



<p>In altri passaggi parla della <strong>vergogna</strong>, spiega l’etimologia <em>vereor gognam</em> (temo la gogna, la mia esposizione pubblica) e rimarca che spesso non è di un fatto in sé che i giovani si vergognano, ma della sua pubblicizzazione, l’essere messi a nudo davanti agli altri, insomma il pudore che si fa più incalzante della colpa. </p>



<p>Se metto insieme questi due concetti, penso al <strong>mondo del lavoro visto da loro</strong>, penso a un misto tra la colpa di non riuscire a trovarlo o di non volerlo cercare fino in fondo e la vergogna di non averlo com’era successo invece a padri e madri. C’è una generazione nata all’alba del terzo millennio che sta come i funamboli tra la scuola e il lavoro, tra un’idea di istruzione vecchia quasi cent’anni che con loro non sa dove mettere le mani e un mercato &#8211; tra l’altro invaso da parole mal-educate come talento e competenze &#8211; che si incaglia sul presente perché non ha ancora capito a quale Italia di domani vuole rispondere. </p>



<p><strong>Abbiamo buttato i giovani nei sondaggi e nelle statistiche qualche anno fa e non li abbiamo più tirati fuori</strong>. Forse questa è una generazione a cui non si riesce a invidiare fino in fondo la giovinezza che si portano addosso. Alle persone di una certa età e piene di spirito si dice che sono giovanili; loro stessi dicono spesso di <strong>sentirsi giovani</strong>. Essere giovani è un’altra cosa e non ha niente a che fare col sentirsi; i giovani non si sentono per definizione, si sentiranno dopo.</p>



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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>



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Editoriale 113. Sentirsi giovani


<p>Secondo Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista, “la nostra epoca è passata dal mito dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia a un altro mito, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo”. Quella impotenza Spinoza la chiamava “<strong>passione triste</strong>”; l’incapacità di comprendere ci spinge a vivere il mondo e gli altri come una <strong>minaccia</strong>. </p>



<p>Quando scopriamo la trama complessa delle cose incontriamo abitudini e gusti nuovi con fastidio, non più con curiosità e spirito di apprendimento, non accettiamo i processi di <strong>trasformazione</strong>. Se non riusciamo a cucire i nessi fra particolare e universale, singolare e collettivo, tra il fenomeno e il sistema, rischiamo di essere travolti dalla percezione di una situazione che non presenta vie d’uscita. I legami, i luoghi, il lavoro, si fanno più temporanei e meno lineari, la vita perde significato.</p>



<p>Si diventava adulti appartenendo alla scoperta e alle tradizioni, ai luoghi, al lavoro con la sua fatica, con il fare concreto e tangibile, nel sostenere gli ambiti familiari e le possibilità sociali di crescita. <strong>Quel lavorare</strong>, anche come prospettiva, <strong>non sembra esistere più</strong>: si è consumato nel suo appellarsi al sacrificio, nella sua dedizione totalizzante, nel suo pretendersi come assoluto di vita. </p>



<p>Nelle ultime decadi si è lavorato soprattutto per sopravvivere, poi per acquistare prodotti e infine per pensionarsi. In cambio il sistema (economico, di politiche sociali, di conservazione dei poteri) ha preteso allineamento, esecuzione cieca, accettazione di autorità, talvolta di soprusi. Ci ha abituati a pensare che discriminazioni, sofferenze, precarietà, rassegnazione siano sempre elementi necessari della vita. Abbiamo imparato che il nostro lavoro lo si deve tenere stretto perché non esistono alternative, mobilità, autonomia. <strong>La scala sociale è sabotata, il discorso civile silente</strong>.</p>



<p>Il <strong>destino </strong>in questo <strong>trauma di sistema</strong> sembra essere solo quello di subire, di abitare il represso, di chiudersi all’interno di posizioni rigide, difensive, sospese, o di fuggire lontano. Fughe consolate dal pensiero del “si vive una volta sola” (YOLO), fughe che assumono in certi luoghi il peso di fenomeni collettivi (The Great Resignation). Negli USA, secondo McKinsey, <strong>tra aprile e settembre 2021, ben 19 milioni di americani si sono dimessi</strong> pur non avendo un’alternativa pronta. Stress e burnout ne sono le ragioni primarie: negli ambienti di lavoro tossici si vive schiavi di tensioni, di forme di bullismo manageriale basato sulla difesa a ogni costo, sull’assenza di riconoscimento delle competenze, nel mancato rilascio di autonomia e delega reali. </p>



<p>Non siamo stati capaci di trasformare il lavoro in un momento di felicità: il lavoro si dovrebbe compiere per sentirsi parte attiva e orgogliosa di qualcosa.</p>



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<h2 id="h-siamo-noi-il-peso-del-mondo-e-le-sue-vittime">Siamo noi il peso del mondo (e le sue vittime)</h2>



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<p>Quando le relazioni, lo studio e il lavoro sono subiti con sofferenza, l’individuo non vuole più affrontare sfide o inseguire mestieri appaganti; preferisce rinunciare, rinchiudersi in dimensioni protette (<strong>illanguidire</strong>, come dicono gli psicologi). <strong>Diventiamo vittime del peso del mondo</strong> e smarriamo la forza dei sogni, rinunciamo a immaginare: <strong>è una tragedia collettiva</strong>. </p>



<p>“In un mondo fissato con il vittimismo, il trauma sarebbe diventato una sorta di status distintivo” scrive la critica letteraria Parul Sehgal del <em>New York Times</em>. Se ci riteniamo vittime non ci fidiamo e finiamo col credere in tutto ciò che ci fornisce l’illusione di poter avere un ruolo almeno nei processi di distruzione. <strong>Ci facciamo macigno</strong> legandoci a milioni di altri individui malinconici, rabbiosi e solitari. Aderiamo a comunità rancorose che preferiscono bruciare il proprio capitale di relazioni e fiducia all’interno (<em>bonding</em>) invece di investirlo per ampliare la propria conoscenza relazionale (<em>bridging</em>). In quanto generazioni digitali, native o parvenu, lo facciamo non più “protestando” in piazza, ma “seguendo”, “piacendo”, “postando” con furia, senza ascolto verso voci che non ri-conosciamo. Ci esprimiamo senza pausa, senza fuoco, senza senso. </p>



<p>Marciando all’interno di reti fumose vinciamo <strong>battaglie virtuali contro l’opinione</strong>, combattiamo a colpi di hype, dentro le nostre bolle trolliamo interazioni compulsive. La ribellione al sistema, la protesta necessaria quando fatta in nome dello spirito critico, del progettare miglioramenti o dell’autentico coinvolgimento, si aggrappa all’improvvisato articolo già smentito, al primo studio trovato in rete, al dato già consumato o scaduto. </p>



<p><strong>Se il macigno è di granito, anche le nostre convinzioni lo diventano</strong>.</p>



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<h2>La realtà particellata delle bolle individuali</h2>



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<p>Torniamo <strong>raccoglitori</strong>, non più di cibo ma di conferme, e non ci accorgiamo che fenomeni di protesta vengono derubricati immediatamente a momenti di fuga, ad accadimenti funzionali al desiderio che nulla cambi. </p>



<p>Alcune reazioni – <em>hikikomori</em>, la vita rinchiusa e separata; <em>The Great Resignation</em>, la grande fuga dal lavoro – sono segnali che emergono in modo serio, ma vengono masticati e ingabbiati con rapidità. Ciò che ne resta è modellato mediaticamente per essere ridotto all’irrilevanza. Il paradosso è che quelle urla ad alta voce creano un enorme rumore di fondo che tutto complica e astrae. </p>



<p>In <em>Lezioni da un secolo di vita</em>, quando Edgar Morin scrive “la Realtà si nasconde dietro le nostre realtà”, vuole dirci che nel flusso di parole rotolanti la cronaca contingente occupa sempre il piano della scena, che <strong>migliaia di singoli accadimenti</strong> offuscano ogni visione di insieme. La realtà viene particellata, ogni evento reclama per sé una verità che vuole dirsi definitiva nella pretesa di essere un momento esemplare.</p>



<p>Abbiamo una comprensione debole delle conseguenze su larga scala, dei cambiamenti nei comportamenti collettivi. <strong>Stare connessi significa sconnettersi</strong>: subendo il ritmo delle notifiche dei social network, misurando il numero dei follower o dei like, allontanando la consapevolezza di sé. Il tentativo di controllo genera però solo <strong>bolle confermative</strong>.</p>



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<h2>Il nomadismo comune della nostra epoca e la nuova poetica della relazione</h2>



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<p>È la <strong>generazione di senso</strong> la vera questione. In fondo anche il pensiero <em>You Only Live Once</em> parla di questo. Se tramontano i sogni personali, l’unica speranza è che ne sorgano di <strong>collettivi</strong>. Dobbiamo distrarci dai fenomeni in primo piano e provare a ricostruire gli immaginari, la capacità di vedere l’intero e di sognare. </p>



<p>I nostri antenati hanno vissuto in piccoli gruppi che abitavano un ambiente irto di pericoli. Il potere e l’autorità erano accettati sulla base della paura di essere abbandonati <strong>soli in un luogo ostile</strong>. Poco è cambiato. Il terrore è ancora quello di essere spinti a partire per un lungo viaggio, attraverso una terra che sembra non conoscere varietà e fertilità; soltanto un inverno perenne e solitario. Il punto è lì: per uscire dal trauma si devono attraversare con coraggio e sensibilità le terre ignote, per scoprire che non esistono una sola stagione, il rumore continuo, un unico destino. </p>



<p>Il rilancio della <strong>cultura nomade</strong> ci offre un potenziale enorme: dai grandi flussi migratori che ci attraversano alla consapevolezza che uscire dai recinti chiusi (come le grandi e piccole società industriali o dei servizi), che si pensavano permanenti e sicuri, significa generare una visione che superi il limite e in cui si riaprano le grandi frontiere del cambiamento. Non si tratta di un nomadismo lineare e solitario, predatorio, ma di un <strong>percorso circolare e condiviso</strong>. Si tratta di <strong>ricostruire la fertilità dei tessuti sociali</strong>.</p>



<p>Errare è necessario. È la natura di ciò che incontriamo che disegna il nostro vissuto, che crea appartenenze e posizioni. Per dare senso a quella Grande Dimissione, a quel <em>You Only Live Once</em>, serve una nuova poetica collettiva della relazione e dell’attraversamento; occorre favorire con coraggio le persone che co-creano esperienza sul posto di lavoro, premiare chi si prende genuinamente cura degli altri. Servono esploratori, pionieri, cercatori. Servono persone capaci di prendersi cura. </p>



<p>È importante sviluppare sistemi sociali che credano nella bellezza del lavoro, dell’impegno, dello scambio nella “carne” della vita come proponeva Merleau-Ponty, che promuovano benessere anziché requisire la nostra attenzione, la nostra voce, il presente, e con quello il <strong>futuro collettivo</strong>. </p>



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Nell&#8217;attesa che il presente finisca

<p>Tracciare una <strong>mappa dell’impiego internazionale</strong> dopo due anni di pandemia è impresa complicata. Il COVID-19 ha stravolto schemi consolidati, frenando una globalizzazione del lavoro che ha registrato – nell’ultimo ventennio – una profonda accelerazione. Anno  dopo anno, tutti i principali studi hanno suggerito un <strong>costante aumento della popolazione adulta</strong>, sempre più “under 40” e qualificata, <strong>in uscita dall’Italia</strong>. Troppo spesso per cercare migliori condizioni di lavoro. </p>
<p>L’ultimo <em>Rapporto Italiani nel Mondo</em> della Fondazione Migrantes (2021) evidenzia come <strong>persino la pandemia non abbia fermato</strong>, bensì solamente ridimensionato, <strong>l’espatrio dei nostri connazionali</strong>. Anche nell’annus horribilis 2020, segnato da mesi di lockdown e restrizioni alla mobilità, ben 109.528 italiani hanno lasciato il Paese (-21.000 unità circa rispetto al 2019, l’ultimo anno COVID-free). </p>
<p>La conferma della crescente qualità in termini formativi dei nostri expat arriva da Istat, che – sempre in riferimento al 2019 – ha stimato intorno al <strong>30% i connazionali emigrati</strong> in possesso di almeno una <strong>laurea </strong>(+23% in un quinquennio). Fatte queste premesse, utili a comprendere come l’emergenza sanitaria abbia sì pesantemente modificato le nostre abitudini di vita, ma non del tutto annullato la mobilità internazionale, è il momento di tracciare una <strong>mappa delle destinazioni possibili</strong>. Insieme a qualche utile consiglio da riporre in valigia.</p>
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<h2 id="h-le-rotte-europee-del-lavoro">Le rotte europee del lavoro</h2>
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<p>È inevitabile constatare come l’<strong>Unione europea</strong>, sull’onda del biennio pandemico, rappresenti sempre di più un porto di approdo “sicuro”, sia per le minori restrizioni alla mobilità, sia per una libertà di circolazione e insediamento che non ha pari. Alcune barriere restano, ma sono minime: in diversi Paesi, come ad esempio <strong>Germania </strong>e <strong>Olanda</strong>, occorre <strong>registrarsi all’arrivo presso il Comune di residenza</strong>, per poter espletare tutte le successive pratiche burocratiche. </p>
<p>La <strong>tessera E111</strong> – da un punto di vista della copertura sanitaria – rappresenta una soluzione transitoria. Successivamente occorrerà adeguarsi alla legislazione nazionale, optando eventualmente per assicurazioni integrative private. Pure il <strong>welfare</strong> cambia da Paese a Paese, e l’UE solo di recente ha mosso qualche passo per garantire un maggiore coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale tra Paesi membri, a tutela dei lavoratori “mobili”. Senza dimenticare il riconoscimento delle<strong> qualifiche professionali</strong>.  Un’utile guida su tutti gli aspetti appena citati, seppur limitata solo ad alcuni Paesi europei, è stata messa online dal <strong>progetto EUReKA</strong> (col portale key4mobility.eu). </p>
<p>Germania, <strong>Francia</strong>, Olanda, <strong>Belgio</strong>, Svizzera (pur con i prevedibili limiti di Paese extra-UE), <strong>Spagna</strong>, <strong>Portogallo </strong>(per i freelance) e <strong>Irlanda </strong>(profili innovativi e tecnologici) rappresentano mete interessanti per spostarsi in Europa. A nord <strong>Svezia </strong>e <strong>Danimarca </strong>costituiscono approdi da prendere in considerazione, per qualità del lavoro e della vita. A est non bisogna sottovalutare i Paesi baltici, su tutti <strong>Estonia </strong>e <strong>Lituania</strong>, che puntano ad attrarre talenti legati all’innovazione, così come la <strong>Polonia</strong>. </p>
<p>Nota importante, sempre a riguardo dell’Europa: l’uscita della <strong>Gran Bretagna</strong> ha inflitto un durissimo colpo alla mobilità di studenti e lavoratori, che oltremanica trovavano un ambiente flessibile e meritocratico. Tuttavia, secondo i racconti che raccolgo, il <strong>Regno Unito</strong> offre ancora possibilità professionali. </p>
<p>Certo, occorre trovare un’offerta che garantisca il necessario visto di ingresso e permanenza. Scordatevi invece esperienze di lavoro brevi o stagionali.</p>
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<h2>Le geografie del lavoro fuori dall&#8217;Europa</h2>
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<p>Fuori dall’Europa, la nostra mappa non può che fare rotta verso gli <strong>Stati Uniti</strong>, Paese sempre ricco di occasioni a 360° tra studio, dottorato, lavoro e imprenditoria start-up. New York, Boston, San Francisco e Los Angeles restano in cima alle preferenze dei nostri expat. L’ideale è cominciare con un’esperienza di studio oltreoceano, per poi percorrere tutte le successive tappe di carriera. Un ottimo programma per approcciare gli USA – se gravitate nell’area accademica – è offerto dalla Borsa Fulbright (www.fulbright.it).</p>
<p>Ha una condizione importante, alla base: terminata la borsa, occorre rientrare in Europa e aspettare almeno due anni prima di chiedere un nuovo visto a stelle e strisce. Per trovare opportunità oltreoceano conta molto essere proattivi: possedere il giusto spirito di iniziativa, contattare direttamente l’azienda per cui ci si intende candidare, o il centro di ricerca dove si vuole lavorare. </p>
<p>Restando in Nordamerica, il <strong>Canada </strong>rappresenta una meta alternativa agli USA. A differenza di quanto si possa ritenere, però, è molto selettivo riguardo gli expat che decide di accogliere. </p>
<p><strong>Sudamerica </strong>e <strong>Africa </strong>restano abbastanza marginali nel mainstream dei professionisti qualificati che si recano all’estero. Non sono però da escludere, anzi: soprattutto <strong>Brasile </strong>e <strong>Sudafrica </strong>possono offrire occasioni interessanti, tuttavia bisogna essere pronti ad adattarsi a contesti molto differenti. </p>
<p>In <strong>Asia</strong>, la <strong>Cina </strong>ha rappresentato una delle maggiori delusioni dell’ultimo decennio: se all’inizio degli anni Dieci appariva come la nuova terra promessa, in poco tempo Pechino ha gradualmente introdotto una politica restrittiva di accesso al mercato del lavoro, soprattutto per gli occidentali, privilegiando le professionalità interne. La pandemia, che ha sigillato i confini cinesi a partire dalla primavera 2020, ha dato la mazzata finale. Così restano soprattutto <strong>Singapore </strong>e il <strong>Giappone </strong>ad attrarre talenti: l’arcipelago nipponico rappresenta la vera sfida. Per emigrare nel Paese del Sol Levante serve sicuramente una fortissima motivazione: la società locale e la cultura aziendale, oltre alla inevitabile barriera linguistica, lo rendono un ambiente quantomeno ostico, all’inizio. </p>
<p>In <strong>Medio Oriente</strong>, <strong>Emirati Arabi Uniti</strong> e <strong>Qatar </strong>(quest’ultimo in vista dei Mondiali di Calcio di fine anno) possono rappresentare punti di approdo interessanti, soprattutto per ingegneri e architetti. Infine, il sogno australiano: anche qui le rigide regole sull’immigrazione e i due anni pandemici hanno inaridito le opportunità di espatrio. Per l’<strong>Australia</strong> vale quanto detto per gli USA: meglio approcciare il Paese fin da giovani, con esperienze studentesche o di scambio in grado di offrire un primo contatto con il mondo locale. Tre le destinazioni da segnare in agenda, a livello professionale: Sydney, Melbourne e Brisbane.</p>
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<h2>Destinazione lavoro: che cosa va in valigia</h2>
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<p>Un giovane professionista italiano al lavoro all’estero ha riassunto in una parola la condizione imprescindibile alla base di qualsiasi scelta di espatrio professionale: il giusto mindset. <strong>La mentalità</strong>. La decisione di partire deve essere innanzitutto frutto di una scelta ponderata: essere pronti a cambiare città, Paese, contesto sociale e lavorativo, richiede una motivazione forte, utile a superare tutte le difficoltà iniziali. </p>
<p>A ciò occorre accompagnare un’<strong>accurata pianificazione</strong>. Il punto di partenza di qualsiasi ricerca è sempre il curriculum: asciutto, massimo due-tre pagine, da tarare sulla destinazione di approdo (e sulle sensibilità locali: in UK non inserite mai la vostra data di nascita). Un CV internazionale deve essere scritto in un inglese impeccabile; se poi si riesce a prepararlo anche nella lingua del Paese desiderato si possono solo guadagnare punti. <strong>Dimenticate invece il formato Europass: non funziona</strong>. </p>
<p>I canali per trovare impiego all’estero: una <strong>ricerca personalizzata delle aziende </strong>presso cui lavorare, vagliando le offerte di impiego presenti sui loro portali (sì, oltreconfine questo è abbastanza normale) e/o un contatto diretto con i loro uffici HR restano probabilmente la strada maestra. <strong>Agenzie internazionali di head hunter</strong> possono rappresentare un ulteriore primo step, soprattutto per profili altamente qualificati. </p>
<p>In alternativa, <strong>LinkedIn </strong>e <strong>Indeed </strong>vengono segnalati più o meno da tutti come i portali di riferimento per cercare lavoro oltreconfine. Almeno a livello generale: ogni singolo Paese ha i suoi siti di riferimento (in Germania va forte Xing), ma questi sono i più citati a livello globale. </p>
<p>Non sottovalutate infine né eventuali <strong>contatti personali</strong> né <strong>ex colleghi al lavoro fuori dall’Italia</strong>: spesso possono rivelarsi “ponti” preziosi verso la vostra nuova realtà di approdo, sia nella fase di ricerca di impiego, sia in quella di arrivo. E se non conoscete nessuno all’estero che possa guidarvi, selezionate i <strong>gruppi social</strong> (molti li trovate su Facebook) <strong>di italiani espatriati</strong>: fate un’attenta cernita, alcuni sono scarsamente popolati o ambigui, ma in quelli più seri troverete connazionali disposti ad aiutarvi un po’ su tutto, anche nella ricerca di una casa.</p>
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<h2>Imparare la lingua dell&#8217;ambiente di lavoro</h2>
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<p>Uno dei “benefici”, se così si può dire, della pandemia, è rappresentato dall’<strong>aumento dei colloqui da remoto</strong>, almeno nelle prime fasi. Questo costituisce un’indubbia comodità, per non essere obbligati a continui spostamenti, magari a proprie spese, per sostenere colloqui fuori dall’Italia. </p>
<p>Non è un mistero che <strong>parlare la lingua del Paese dove si andrà a lavorare</strong> rappresenta un apprezzato vantaggio. Dipende ovviamente dalla lingua, come dipende dal lavoro: professioni più tecniche possono richiedere livelli linguistici meno elevati. Evitate però di mettervi alla ricerca di un impiego all’estero se non conoscete la lingua del posto e se il vostro livello di inglese non è accettabile (ideale almeno un B2).</p>
<p>Infine, è fondamentale arrivare <strong>preparati ad affrontare l’ambiente di lavoro locale</strong>: esistono realtà più gerarchiche e meno gerarchiche, con orari di lavoro più o meno lunghi o flessibili, e soprattutto con mentalità diverse dall’Italia. Premesso ciò, dovete essere voi a adattarvi a contesti differenti, senza dimenticare di portare quel briciolo di creatività e capacità risolutiva dei problemi che solo un italiano può vantare nel proprio DNA.</p>
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Lavoro in tutte le lingue del mondo

Quali sono le destinazioni più appetibili, e quali invece le grandi delusioni per chi cerca lavoro all&#8217;estero? Alcuni suggerimenti su come si organizza un espatrio lavorativo.

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Sergio Nava

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