Lavoro in tutte le lingue del mondo

Quali sono le destinazioni più appetibili, e quali invece le grandi delusioni per chi cerca lavoro all’estero? Alcuni suggerimenti su come si organizza un espatrio lavorativo.

Tracciare una mappa dell’impiego internazionale dopo due anni di pandemia è impresa complicata. Il COVID-19 ha stravolto schemi consolidati, frenando una globalizzazione del lavoro che ha registrato – nell’ultimo ventennio – una profonda accelerazione. Anno dopo anno, tutti i principali studi hanno suggerito un costante aumento della popolazione adulta, sempre più “under 40” e qualificata, in uscita dall’Italia. Troppo spesso per cercare migliori condizioni di lavoro.

L’ultimo Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes (2021) evidenzia come persino la pandemia non abbia fermato, bensì solamente ridimensionato, l’espatrio dei nostri connazionali. Anche nell’annus horribilis 2020, segnato da mesi di lockdown e restrizioni alla mobilità, ben 109.528 italiani hanno lasciato il Paese (-21.000 unità circa rispetto al 2019, l’ultimo anno COVID-free).

La conferma della crescente qualità in termini formativi dei nostri expat arriva da Istat, che – sempre in riferimento al 2019 – ha stimato intorno al 30% i connazionali emigrati in possesso di almeno una laurea (+23% in un quinquennio). Fatte queste premesse, utili a comprendere come l’emergenza sanitaria abbia sì pesantemente modificato le nostre abitudini di vita, ma non del tutto annullato la mobilità internazionale, è il momento di tracciare una mappa delle destinazioni possibili. Insieme a qualche utile consiglio da riporre in valigia.

Le rotte europee del lavoro

È inevitabile constatare come l’Unione europea, sull’onda del biennio pandemico, rappresenti sempre di più un porto di approdo “sicuro”, sia per le minori restrizioni alla mobilità, sia per una libertà di circolazione e insediamento che non ha pari. Alcune barriere restano, ma sono minime: in diversi Paesi, come ad esempio Germania e Olanda, occorre registrarsi all’arrivo presso il Comune di residenza, per poter espletare tutte le successive pratiche burocratiche.

La tessera E111 – da un punto di vista della copertura sanitaria – rappresenta una soluzione transitoria. Successivamente occorrerà adeguarsi alla legislazione nazionale, optando eventualmente per assicurazioni integrative private. Pure il welfare cambia da Paese a Paese, e l’UE solo di recente ha mosso qualche passo per garantire un maggiore coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale tra Paesi membri, a tutela dei lavoratori “mobili”. Senza dimenticare il riconoscimento delle qualifiche professionali. Un’utile guida su tutti gli aspetti appena citati, seppur limitata solo ad alcuni Paesi europei, è stata messa online dal progetto EUReKA (col portale key4mobility.eu).

Germania, Francia, Olanda, Belgio, Svizzera (pur con i prevedibili limiti di Paese extra-UE), Spagna, Portogallo (per i freelance) e Irlanda (profili innovativi e tecnologici) rappresentano mete interessanti per spostarsi in Europa. A nord Svezia e Danimarca costituiscono approdi da prendere in considerazione, per qualità del lavoro e della vita. A est non bisogna sottovalutare i Paesi baltici, su tutti Estonia e Lituania, che puntano ad attrarre talenti legati all’innovazione, così come la Polonia.

Nota importante, sempre a riguardo dell’Europa: l’uscita della Gran Bretagna ha inflitto un durissimo colpo alla mobilità di studenti e lavoratori, che oltremanica trovavano un ambiente flessibile e meritocratico. Tuttavia, secondo i racconti che raccolgo, il Regno Unito offre ancora possibilità professionali.

Certo, occorre trovare un’offerta che garantisca il necessario visto di ingresso e permanenza. Scordatevi invece esperienze di lavoro brevi o stagionali.

Le geografie del lavoro fuori dall’Europa

Fuori dall’Europa, la nostra mappa non può che fare rotta verso gli Stati Uniti, Paese sempre ricco di occasioni a 360° tra studio, dottorato, lavoro e imprenditoria start-up. New York, Boston, San Francisco e Los Angeles restano in cima alle preferenze dei nostri expat. L’ideale è cominciare con un’esperienza di studio oltreoceano, per poi percorrere tutte le successive tappe di carriera. Un ottimo programma per approcciare gli USA – se gravitate nell’area accademica – è offerto dalla Borsa Fulbright (www.fulbright.it).

Ha una condizione importante, alla base: terminata la borsa, occorre rientrare in Europa e aspettare almeno due anni prima di chiedere un nuovo visto a stelle e strisce. Per trovare opportunità oltreoceano conta molto essere proattivi: possedere il giusto spirito di iniziativa, contattare direttamente l’azienda per cui ci si intende candidare, o il centro di ricerca dove si vuole lavorare.

Restando in Nordamerica, il Canada rappresenta una meta alternativa agli USA. A differenza di quanto si possa ritenere, però, è molto selettivo riguardo gli expat che decide di accogliere.

Sudamerica e Africa restano abbastanza marginali nel mainstream dei professionisti qualificati che si recano all’estero. Non sono però da escludere, anzi: soprattutto Brasile e Sudafrica possono offrire occasioni interessanti, tuttavia bisogna essere pronti ad adattarsi a contesti molto differenti.

In Asia, la Cina ha rappresentato una delle maggiori delusioni dell’ultimo decennio: se all’inizio degli anni Dieci appariva come la nuova terra promessa, in poco tempo Pechino ha gradualmente introdotto una politica restrittiva di accesso al mercato del lavoro, soprattutto per gli occidentali, privilegiando le professionalità interne. La pandemia, che ha sigillato i confini cinesi a partire dalla primavera 2020, ha dato la mazzata finale. Così restano soprattutto Singapore e il Giappone ad attrarre talenti: l’arcipelago nipponico rappresenta la vera sfida. Per emigrare nel Paese del Sol Levante serve sicuramente una fortissima motivazione: la società locale e la cultura aziendale, oltre alla inevitabile barriera linguistica, lo rendono un ambiente quantomeno ostico, all’inizio.

In Medio Oriente, Emirati Arabi Uniti e Qatar (quest’ultimo in vista dei Mondiali di Calcio di fine anno) possono rappresentare punti di approdo interessanti, soprattutto per ingegneri e architetti. Infine, il sogno australiano: anche qui le rigide regole sull’immigrazione e i due anni pandemici hanno inaridito le opportunità di espatrio. Per l’Australia vale quanto detto per gli USA: meglio approcciare il Paese fin da giovani, con esperienze studentesche o di scambio in grado di offrire un primo contatto con il mondo locale. Tre le destinazioni da segnare in agenda, a livello professionale: Sydney, Melbourne e Brisbane.

Destinazione lavoro: che cosa va in valigia

Un giovane professionista italiano al lavoro all’estero ha riassunto in una parola la condizione imprescindibile alla base di qualsiasi scelta di espatrio professionale: il giusto mindset. La mentalità. La decisione di partire deve essere innanzitutto frutto di una scelta ponderata: essere pronti a cambiare città, Paese, contesto sociale e lavorativo, richiede una motivazione forte, utile a superare tutte le difficoltà iniziali.

A ciò occorre accompagnare un’accurata pianificazione. Il punto di partenza di qualsiasi ricerca è sempre il curriculum: asciutto, massimo due-tre pagine, da tarare sulla destinazione di approdo (e sulle sensibilità locali: in UK non inserite mai la vostra data di nascita). Un CV internazionale deve essere scritto in un inglese impeccabile; se poi si riesce a prepararlo anche nella lingua del Paese desiderato si possono solo guadagnare punti. Dimenticate invece il formato Europass: non funziona.

I canali per trovare impiego all’estero: una ricerca personalizzata delle aziende presso cui lavorare, vagliando le offerte di impiego presenti sui loro portali (sì, oltreconfine questo è abbastanza normale) e/o un contatto diretto con i loro uffici HR restano probabilmente la strada maestra. Agenzie internazionali di head hunter possono rappresentare un ulteriore primo step, soprattutto per profili altamente qualificati.

In alternativa, LinkedIn e Indeed vengono segnalati più o meno da tutti come i portali di riferimento per cercare lavoro oltreconfine. Almeno a livello generale: ogni singolo Paese ha i suoi siti di riferimento (in Germania va forte Xing), ma questi sono i più citati a livello globale.

Non sottovalutate infine né eventuali contatti personaliex colleghi al lavoro fuori dall’Italia: spesso possono rivelarsi “ponti” preziosi verso la vostra nuova realtà di approdo, sia nella fase di ricerca di impiego, sia in quella di arrivo. E se non conoscete nessuno all’estero che possa guidarvi, selezionate i gruppi social (molti li trovate su Facebook) di italiani espatriati: fate un’attenta cernita, alcuni sono scarsamente popolati o ambigui, ma in quelli più seri troverete connazionali disposti ad aiutarvi un po’ su tutto, anche nella ricerca di una casa.

Imparare la lingua dell’ambiente di lavoro

Uno dei “benefici”, se così si può dire, della pandemia, è rappresentato dall’aumento dei colloqui da remoto, almeno nelle prime fasi. Questo costituisce un’indubbia comodità, per non essere obbligati a continui spostamenti, magari a proprie spese, per sostenere colloqui fuori dall’Italia.

Non è un mistero che parlare la lingua del Paese dove si andrà a lavorare rappresenta un apprezzato vantaggio. Dipende ovviamente dalla lingua, come dipende dal lavoro: professioni più tecniche possono richiedere livelli linguistici meno elevati. Evitate però di mettervi alla ricerca di un impiego all’estero se non conoscete la lingua del posto e se il vostro livello di inglese non è accettabile (ideale almeno un B2).

Infine, è fondamentale arrivare preparati ad affrontare l’ambiente di lavoro locale: esistono realtà più gerarchiche e meno gerarchiche, con orari di lavoro più o meno lunghi o flessibili, e soprattutto con mentalità diverse dall’Italia. Premesso ciò, dovete essere voi a adattarvi a contesti differenti, senza dimenticare di portare quel briciolo di creatività e capacità risolutiva dei problemi che solo un italiano può vantare nel proprio DNA.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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