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Tortuga è un think-tank di studenti, ricercatori e giovani professionisti del mondo dell'economia e delle scienze sociali, nato nel 2015. Attualmente conta 56 membri, sparsi tra Europa e il resto del mondo. Scrivono articoli su temi economici e politici, e offrono alle istituzioni, associazioni e aziende un supporto professionale alle attività di ricerca o policy-making. Vogliono mettere a disposizione la loro voglia e le loro competenze per il dibattito pubblico, e trovare soluzioni tecniche ed elaborate in un paese in cui troppe volte le decisioni non vengono prese sulla base di valutazioni scientifiche. Nel 2020 è uscito il libro "Ci pensiamo noi".

Tortuga

Tortuga è un think-tank di studenti, ricercatori e giovani professionisti del mondo dell&#8217;economia e delle scienze sociali, nato nel 2015. Attualmente conta 56 membri, sparsi tra Europa e il resto del mondo. Scrivono articoli su temi economici e politici, e offrono alle istituzioni, associazioni e aziende un supporto professionale alle attività di ricerca o policy-making. Vogliono mettere a disposizione la loro voglia e le loro competenze per il dibattito pubblico, e trovare soluzioni tecniche ed elaborate in un paese in cui troppe volte le decisioni non vengono prese sulla base di valutazioni scientifiche. Nel 2020 è uscito il libro &#8220;Ci pensiamo noi&#8221;.

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Il lavoro come lo vedono i giovani, e come gli altri non l'hanno visto mai: guardiamo in faccia la nuova generazione per chiedergli che cosa vuole fare da grande - e che cosa vuole fare ora.

Numero 113 - Sentirsi giovani


<p><strong>Scuole </strong>che dedicano pochissime ore all’interazione e alla conoscenza del mondo delle<br>imprese. Imprese, soprattutto piccole realtà artigianali, totalmente impreparate sulla cultura della sicurezza. <strong>Studenti </strong>che, a ragione, manifestano per rivendicare maggiore attenzione ma, in particolare tra gli iscritti a istituti professionali di provincia, rimangono <strong>inconsapevoli dei reali rischi</strong>, complice una formazione incapace di trasmettere messaggi. </p>



<p>I casi di <strong>Filippo </strong>e <strong>Giuseppe</strong>, vittime di un sistema malato, hanno risvegliato coscienze e media, almeno per il momento. Le statistiche dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, però, dicono che da sempre le persone che rischiano più infortuni gravi sono quelle comprese tra i diciotto e i ventiquattro anni.</p>



<p>“Ho visitato una carpenteria che era un inferno, lì i miei studenti non li ho più mandati”, mi dice Roberto, docente di meccanica. Rara sensibilità. Ecco, quindi, la risposta al problema: <strong>scegliere scuole impegnate, denunciare imprese pressapochiste, coinvolgere i ragazzi nei processi</strong>. Facile no?</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/51528839129_155a34695c_o.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/51528839129_155a34695c_o-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-51588" /></a><figcaption><strong>Bruno Giordano</strong>, direttore dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro</figcaption></figure>



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<h2 id="h-bruno-giordano-non-possiamo-chiedere-ai-ragazzi-la-sensibilita-per-la-sicurezza-dobbiamo-dargliela-noi">Bruno Giordano: “Non possiamo chiedere ai ragazzi la sensibilità per la sicurezza. Dobbiamo dargliela noi”</h2>



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<p>“La <strong>formazione </strong>è fondamentale, uno dei requisiti per poter svolgere qualsiasi attività lavorativa”.</p>



<p><strong>Bruno Giordano</strong>, direttore dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, spiega il suo pensiero citando la Costituzione. “L’articolo 35 lo dice, ogni professione necessita di un’elevazione culturale, non si tratta solamente di prestare una qualsivoglia forma di servizio ma anche di crescere dal punto di vista culturale e sociale. Anche l’articolo 4 va in questa direzione, parlando di elevazione spirituale e correlando a doppio nodo cultura e lavoro”.</p>



<p>Purtroppo, però, la cronaca quotidiana racconta una realtà ben diversa. “Nell’attività quotidiana, in effetti, vediamo molte <strong>violazioni </strong>di questi principi, con il lavoro ridotto a mera offerta di una prestazione lavorativa. Ed è un problema, perché la formazione è un obbligo funzionale anche alla sicurezza; chi è reso edotto sulle misure di prevenzione è soggetto capace di svolgere un servizio in sicurezza e, oltretutto, di rendersi conto dei pericoli, per sé stessi e per gli altri”.</p>



<p>Ma le <strong>aziende </strong>sono coscienti di questa responsabilità? “Molte volte no, si sottovaluta l’importanza della formazione nella cultura nel lavoro e le conseguenze si vedono in quello che è successo, ad esempio, nei r<strong>ecenti casi di cronaca, giovani vittime di un approccio insicuro</strong>. Le piccole e medie imprese, però, devono essere supportate dalle associazioni di categoria. Non possiamo pretendere che siano strutturate per supportare tutti i processi legati a formazione e risorse umane”.</p>



<p>E dal suo punto di vista, <strong>i giovani hanno percezione</strong> dei rischi e del valore della sicurezza? “Questo è un tema che deve essere sezionato su due livelli. Il primo è quello della <strong>scuola</strong>, che ha l’obbligo di formarli su tutta l’attività che andranno a svolgere. Poi ci sono le aziende, che conoscono bene i propri rischi e che accolgono ragazzi minorenni, ai quali bisogna garantire tutele e spiegare i pericoli. A loro non possiamo chiedere questa sensibilità, gliela dobbiamo dare noi a livello scolastico e aziendale, altrimenti <strong>i PCTO rischiano di essere solo la dissimulazione di un rapporto di lavoro</strong>”. </p>



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<h2>“Se te lo chiedono non puoi dire di no”. Se per i giovani la sicurezza non conta abbastanza</h2>



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<p>“Un giorno mi hanno chiesto se avessi paura dell’altezza. Io ho risposto di no e quindi, su indicazione dei colleghi, sono salito sopra le forche di un muletto, trovandomi <strong>a sei metri da terra </strong>per sistemare il materiale di una scaffalatura”.</p>



<p><strong>Nicola</strong>, il nome è di fantasia, frequenta la classe terza di un centro di formazione professionale veneto, a indirizzo meccanico, e sintetizza così la sua ultima esperienza di stage in  azienda. “Comunque non sono il solo ad aver corso dei rischi. Un mio compagno di classe dice di <strong>aver guidato il carrello elevatore senza corso di formazione e patentino</strong>”.</p>



<p>Racconti impressionanti, soprattutto perché vissuti in un contesto storico dove tutto l’universo aziendale, almeno a parole, si riempie le tasche di valori indispensabili, in primis la sicurezza. Bisogna dire che i ragazzi sono consapevoli della differenza tra grandi e piccole imprese, con quest’ultime spesso latitanti quanto a cultura organizzativa. Per la verità Nicola, allineato al pensiero della maggioranza degli studenti incontrati, <strong>non sembra scandalizzato</strong>, e anzi non ritiene di indicare la sicurezza tra i valori più importanti. </p>



<p>Specialmente chi tra gli studenti ancora crede nelle professioni tecniche e manuali, e oggi sembrano in pochi, tende a privilegiare come valori prioritari retribuzione e passione per il lavoro, lasciando la sicurezza in posizione marginale. “Durante lo stage ho svolto attività che non avrei dovuto, ma si vive sul campo e, parlando di paga, se il gioco vale la candela nessun problema. E poi, <strong>se te lo chiedono, non puoi dire no</strong>”.</p>



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<h2>“Un&#8217;assurdità togliere i PCTO. Le scuole non sanno parlare di sicurezza”</h2>



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<p>“Succede sempre così. Dopo un evento tragico si urla dal pulpito: fermiamo la strage, aumentiamo i controlli. La stessa storia da sempre, mentre il numero degli infortuni mortali rimane ogni anno immutato e grave”.</p>



<p><strong>Valerio Forti </strong>è esperto di sicurezza e la vive da sempre in azienda nelle vesti di HSE Manager, con esperienze in gruppi complessi come acciaierie Beltrame e cartiere Burgo. “<strong>Togliere di mezzo i PCTO o gli stage formativi è un’assurdità</strong>, sarebbe come chiudere le autostrade perché ci sono gli incidenti”. E allora? “Bisogna creare le condizioni affinché questi episodi non accadano. I giovani non vivono isolati, ma in un mondo dove la cultura della sicurezza è a livelli bassissimi. E arrivano in azienda totalmente impreparati, anche perché <strong>nelle scuole si parla pochissimo di sicurezza</strong> e se ne condivide poco l’importanza e il valore”.</p>



<p>I PCTO, peraltro, prevedono <strong>l’obbligo di includere nel programma di formazione corsi in materia di salute e sicurezza </strong>nei luoghi di lavoro. “Certo. Ma cosa viene insegnato e con che approccio viene proposto ai giovani questo percorso introduttivo? L’ho chiesto a mio figlio. Qualche settimana fa ha ricevuto una mail dalla scuola che lo invitava a partecipare a uno di questi corsi. Una comunicazione impersonale e asettica”.</p>



<p>Magari i contenuti hanno prodotto risultati più confortanti. “Sa come l’ha definita quando ho chiesto riscontro su cosa avesse imparato? <strong>Una rottura inutile</strong>. E la cosa incredibile è che i suoi amici sono sulla stessa lunghezza d’onda: nessuno si sente più sicuro con queste pillole formative e la sicurezza non viene percepita come valore irrinunciabile”.</p>



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<h2>A scuola di sicurezza con sindacati e associazioni: il caso dell&#8217;istituto Falcone di Gallarate</h2>



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<p>Un p<strong>rogetto corale sulla sicurezza</strong>, implementato sul tavolo unico provinciale tra sindacati, associazioni di categoria, INPS, INAIL, ATS e provincia. Lo segnala la CGIL di Varese, indicando il <strong>Falcone di Gallarate</strong> tra le scuole pioniere dell’iniziativa. <strong>Vito Ilacqua</strong> è il dirigente scolastico dell’istituto. </p>



<p>“Si tratta di un programma che ha origine addirittura nel 2007 e che vede la partecipazione degli studenti a un percorso di formazione sulla sicurezza che precede i periodi di alternanza nelle aziende. Al termine del corso i ragazzi sono chiamati a superare un <strong>esame</strong>, che in caso di esito negativo preclude l’inizio dell’esperienza di stage. Le ore erogate, grazie agli accordi sindacali raggiunti, sono riconosciute come formazione generale e spendibili all’interno delle imprese”.</p>



<p>Un’iniziativa interessante. Ma che benefici ha portato concretamente? “Nel corso degli anni abbiamo senz’altro <strong>alzato il livello della cultura della sicurezza</strong>, aiutando le aziende nell’inserimento degli studenti nei percorsi di PCTO. Anche i docenti ne hanno tratto giovamento, grazie alla collaborazione con il sindacato nel miglioramento formativo continuo. Sindacato che ha supportato anche la stesura del piano e la formulazione dei test”.</p>



<p>Qual è stato il riscontro dei giovani? “Direi molto positivo, anche perché la sicurezza è cultura e non si vende a chili. Viene sicuramente visto dalla maggioranza come una <strong>forma di crescita culturale</strong>”.</p>



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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>



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Voglio uno stage spericolato?


<p>&#8220;Impegnarsi a non cercare responsabilità negli altri, schiarirsi le idee e capire se il mondo ha qualcosa di più importante da offrire rispetto a situazioni che sembrano non poter cambiare”. </p>



<p>Questo è il primo consiglio di <strong>Andrea Gherpelli</strong>, classe 1975, di Reggio Emilia. Attore, ma non solo. Infatti, nella sua vita reale è anche agricoltore, specializzato nella coltivazione di semi e produzione di farine. Tra i suoi lavori più recenti ci sono la fiction di Rai1 <em>Cuori</em>, dove interpreta il ruolo di un rigoroso capo-chirurgo, e il docu-reality prodotto da Discovery+ <em>Wild Teens</em>, in cui veste i panni di un fattore con il compito di far conoscere la vita in fattoria a un gruppo di adolescenti viziati. Attore, agricoltore e anche ingegnere. <strong>Gli abbiamo chiesto come riesce a conciliare questi diversi ruoli </strong>e quali consigli può dare ai giovani per esprimersi al meglio dal punto di vista lavorativo.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/gherpelli-1.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/gherpelli-1-1024x683.jpg" alt="Andrea Gherpelli, ingegnere, attore, agricoltore e conduttore del programma &quot;Wild Teens&quot;." class="wp-image-51610" /></a><figcaption>Andrea Gherpelli, ingegnere, attore, agricoltore</figcaption></figure>



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<p><strong>Ingegnere, agricoltore e attore. Come si conciliano queste tre anime?</strong></p>



<p>Le diverse professioni che svolgo appartengono ad ambiti lavorativi apparentemente distanti tra loro. Ma le competenze da ingegnere si sono rivelate utili per gestire le molte criticità della mia azienda agricola. Dal seme al prodotto messo in tavola ci sono tanti passaggi importanti: i rapporti con gli artigiani e i clienti, la definizione della linea dei prodotti, il nome da dare a ognuno. In pratica ho rimesso in carreggiata l’azienda di famiglia e gestito il cambiamento generazionale e societario. Ho imparato che bisogna avere antenne puntate verso le radici e verso il mondo che cambia, e se una di queste non funziona, c’è il collasso. Sono nato e cresciuto in campagna, ma con il desiderio di conoscere persone, farmi coinvolgere in situazioni virtuose che mi hanno permesso di rielaborare un preciso modo di esprimermi.</p>



<p><strong>Per questo ti definisci un creativo?</strong></p>



<p>Tratto allo stesso modo un ruolo e un prodotto: in entrambi i casi lavoro per ottenere e trasmettere il massimo, in termini di emozioni e di esperienza. In un film devo dare corpo, sensazioni, sorrisi e lacrime a un personaggio scritto su carta. Anche lo spaghetto deve trasmettere un’esperienza, che passa dal raccontare il modo in cui ho mantenuto il seme in purezza, come ho ottenuto la semola, trafilato la pasta, come cuocerla per avere il massimo del suo rendimento organolettico e nutrizionale. Anche lì c’è molta emozione, ma in tutti casi c’è bisogno di competenza. Bisogna passare da informazioni noiose per ottenere la creatività.</p>



<p><strong>Quale tra questi lavori è più redditizio?</strong></p>



<p>Ci sono stati periodi dove un’attività sosteneva l’altra. Ho trattato ogni progetto come una startup, un acceleratore, affinché ciascuno potesse poi funzionare in autonomia. All’inizio la recitazione necessitava di essere sostenuta economicamente e ho attinto dalle rendite dell’azienda agricola. In epoca più recente, per la parte agricola ho dovuto fare degli investimenti, resi possibili grazie a ciò che ho guadagnato facendo l’attore. È stato uno scambio continuo, che ha permesso poi di rendere ogni attività autosufficiente. Un’attività per essere redditizia richiede un periodo durante il quale deve essere predominante rispetto all’altra.</p>



<p><strong>Quale tra le tue professioni consiglieresti a un ragazzo?</strong></p>



<p>Dovrei conoscere il ragazzo, ma qualunque sia l’attività che si intraprende è importante trovare lo spazio per esprimere la propria creazione personale. Per quanto mi riguarda, la mia attività principale è l’agricoltura virtuosa, sempre esistita e che sempre esisterà. La pandemia ci ha insegnato che molte professioni sono state messe in stand by, tra le quali quella di attore, a differenza dell’agricoltura, in particolare quella volta alla cura della persona e al rispetto del pianeta. Pertanto, il mio consiglio è di imparare a fare l’agricoltore, un mestiere che si può fare in tutte le misure, piccole o grandi che siano. </p>



<p><strong><em>Wild Teens – contadini in erba</em>, un format che appare distante dal modus vivendi dei giovanissimi. Qual è l&#8217;interesse di Discovery+ nel proporre un programma così distante dallo stile di vita dei ragazzi?</strong></p>



<p>Parliamo di giovani che sono nati digitali, che vivono in città asfaltate e non hanno avuto l’opportunità di avere un contatto diretto con la natura. Quando i ragazzi sono arrivati in fattoria sembravano atterrati da un altro pianeta, ma nonostante ciò ho voluto insegnare loro un mantra che si riveli utile per qualsiasi evento della loro vita: “Chi semina raccoglie”. Un mantra che deriva dalla legge botanica, e la natura resta sempre la grande maestra. Discovery+, pertanto, ha intercettato la possibilità di raccontare questa enorme distanza tra asfalto e natura, un racconto che si è rivelato di crescita personale per questi ragazzi. Vangare l’orto o sbadilare il letame è stato solo un  mezzo per far superare i loro limiti personali; siamo riusciti a far scattare un click nella testa e nel cuore di questi ragazzi, e solo per questo è valsa davvero la pena di fare il programma. Ora sono tornati nel loro habitat, ma siamo rimasti in contatto e sento che lasciano un‘orma più piena quando passano. Se dovessero passare il mio mantra – bada a cosa a semini – a un loro compagno, per me sarebbe una festa, un Carnevale.</p>



<p><strong>Sei un esperto nel cambiare abito con disinvoltura e riesci a vestire bene i panni che indossi. Quanto lavoro c&#8217;è dietro?</strong></p>



<p>C’è un grande lavoro. Il lavoro attoriale non è soltanto intuito ed espressione, il talento non basta. Ho iniziato circa vent’anni fa con i laboratori teatrali, vincendo la borsa di studio dell’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, e lì sono iniziati in guai: mi sono trovato a un bivio della mia via che non ho inforcato. Ho mantenuto in parallelo l’attività di attore e agricoltore, perché ne valeva la pena. C’è molta preparazione e rispetto verso la divulgazione delle emozioni. L’attore è un amplificatore di sensazioni di qualcun altro, e l’unico modo per trasmetterle allo spettatore è farle risuonare dentro  di te. Il mio metodo è di immergermi nel personaggio, il che implica un processo di conoscenza personale nel corso del quale vengono allo scoperto difetti e leggerezze umane, e più emergono più li accetti. Più ti conosci, più puoi metterti a disposizione di un ruolo. È un lavoro intenso, per il quale non sono contemplate distrazioni. Quando sono sul set esiste solo quello, l’azienda è gestita dalla mia compagna e dai miei genitori. Ho affrontato gli studi di recitazione con la stessa determinazione degli studi in ingegneria e dello studio approfondito dei frumenti antichi. Se mi guardo indietro riconosco che c’è una linea comune tra questi tre progetti: sono stato molto solido su ciascuno, ogni passo l’ho fatto con molta concretezza.</p>



<p><strong>Cosa consigli a un giovane che, lavorativamente parlando, sente stretti i panni che indossa?</strong></p>



<p>Di impegnarsi a non cercare responsabilità negli altri e capire se il mondo ha qualcosa di diverso da offrire. Mentre stanno vivendo una situazione “stretta”, consiglio di aprirsi allo studio e alla ricerca. Aprire qualcosa che è rimasto chiuso in un cassetto; non si tratta di sogni, ma di intuizioni di una mente libera, propria di quando si è giovani, rispetto all’età del lavoro. Riprendere quelle intuizioni, essere onesti con sé stessi e capire se c’è la possibilità di cambiare la propria vita. Questo è il momento storico per farlo. Si è capito che il contratto a tempo indeterminato non è una garanzia, e in più nella nostra società ci sono sempre meno artigiani. Porto un esempio. Conosco un ragazzo che ha lavorato in una fabbrica meccanica, ben inquadrato e con un ruolo di responsabilità. A un certo punto, si è innamorato del profumo di un calzolaio e dopo i turni in fabbrica andava a imparare il mestiere. Alla fine ha rilevato l’attività e lasciato il posto fisso. Guadagna il giusto, vive bene con sé stesso e con gli altri. Non è stata una decisione presa dall’oggi al domani, ma ha capito che lo sforzo di imparare il mestiere di calzolaio è decisamente più appagante rispetto alla fatica del lavoro in fabbrica.</p>



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L&#8217;uomo che coltivava i ragazzi

<p>Chi oggi si affaccia per la prima volta al mercato del lavoro italiano sa che la <strong>forma contrattuale</strong> della sua prima esperienza lavorativa prevederà una durata “<strong>a scadenza</strong>”: un tirocinio, un apprendistato o un contratto a tempo determinato. </p>
<p>I <strong>contratti a tempo determinato</strong> in genere sono diffusi fra i lavoratori più giovani: nel 2020 il 53.8% degli occupati fra i 15 e i 39 anni aveva un contratto a tempo determinato, contro circa il 12% della popolazione totale fra i 50 e i 64 anni. Non sono un male in sé per sé; la loro natura permette di favorire l’incontro fra le competenze dei lavoratori e la domanda del datore di lavoro, soprattutto in una fase iniziale e in contesti in cui vigono leggi rigide sui licenziamenti. Problematico è invece l’uso massiccio di questo tipo di contratti, che può determinare un <strong>forte dualismo del mercato del lavoro</strong>: da una parte lavoratori con contratti a tempo indeterminato e forti tutele, dall’altra i cosiddetti “precari” con contratti a termine, bassi salari e minori tutele sociali. </p>
<p>Questo dualismo in Italia è inasprito dall’alta presenza di contratti a tempo determinato con una <strong>durata molto breve</strong>. Nel 2019 il 17,3% dei giovani italiani tra i 15 e i 39 anni con un contratto a tempo determinato era stato assunto con una durata inferiore ai tre mesi, e il 26,3% con una durata inferiore ai sei. Guardando lo stesso dato in Germania, le percentuali scendono a 2,7% e 9,8%. </p>
<p>Questa elevata percentuale di contratti a brevissimo termine non favorisce l’inserimento permanente nel mercato del lavoro dei più giovani, spesso in balia di carriere discontinue. Raggiungere l’indipendenza economica e l’emancipazione dalla famiglia per loro diventa un miraggio.</p>
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/SENZAFILTRO_INFOGRAFICA8.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="373" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/07/SENZAFILTRO_INFOGRAFICA8-1024x373.jpg" alt="" class="wp-image-51592" /></a></figure>
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<h2 id="h-flessibilita-contro-stabilita-le-riforme-del-lavoro-in-italia">Flessibilità contro stabilità. Le riforme del lavoro in Italia</h2>
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<p>A fronte di questi dati e di una simile precarietà, negli ultimi dieci anni si è assistito a una serie di <strong>interventi </strong>per favorire una maggiore stabilità nei contratti dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia. </p>
<p>Gli interventi in questione si dividono in due categorie: quelli che <strong>incentivano l’utilizzo dei contratti a tempo indeterminato</strong>, rendendoli economicamente più vantaggiosi, e quelli che <strong>penalizzano l’utilizzo dei contratti a tempo determinato</strong>, attraverso l’imposizione di sanzioni e vincoli restrittivi. Riforme come la Fornero, e in maniera molto più decisa il Decreto Dignità, seguono la seconda via, mentre il Jobs Act si può invece collocare nella prima. </p>
<p>A proposito di <strong>Jobs Act</strong>. Diversi studi ne hanno approfondito gli effetti, trovando risultati controversi: secondo alcuni le assunzioni a tempo indeterminato sono aumentate più di quanto siano aumentati i licenziamenti; secondo altri tuttavia l’aumento aggregato dell’occupazione è dovuto principalmente a una crescita dei contratti a termine, ed è concentrato sui lavoratori over 50. </p>
<p>In risposta alla crisi economica causata dal COVID-19, il <strong>Governo Draghi </strong>ha deciso di <strong>allentare i limiti</strong> attualmente vigenti nell’impiego dei <strong>contratti a termine</strong>, eliminando l’obbligo di causale reintrodotto dal Decreto Dignità. La normativa è stata largamente utilizzata: i dati post-lockdown mostrano infatti che più del 70% delle nuove assunzioni è costituito da contratti a tempo determinato. Data l’incertezza economica in cui vivono le imprese oggi, imporre il contratto a tempo indeterminato come via maestra nelle assunzioni risulta sempre più difficile. </p>
<p>D’altra parte, è quanto più urgente dare una risposta ai giovani che si trovano in una situazione di precarietà esasperata dalla pandemia. In questa direzione va la<strong> Legge di Bilancio 2021</strong>, che prevede un esonero contributivo per il datore di lavoro nel caso di un’assunzione a tempo indeterminato di un lavoratore con meno di 36 anni.</p>
<p>Introdurre tali incentivi, però, potrebbe non essere abbastanza per eliminare l’incertezza lavorativa dei giovani in Italia. Lo evidenzia la storia.</p>
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<h2>I tirocini non sono rapporti di lavoro: la &#8220;confusione&#8221; con gli apprendistati che avvantaggia i soliti noti</h2>
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<p>Quando si parla <strong>contratti di lavoro adibiti ai giovani </strong>è bene tenere a mente un concetto: il <strong>tirocinio</strong>, come sottolineato dal ministero del Lavoro, <strong>non si configura come un rapporto di lavoro</strong>. È anzi da considerarsi un periodo di orientamento e formazione, svolto in un contesto lavorativo e volto all’inserimento nel mondo del lavoro. </p>
<p>In Italia esistono ad oggi due tipi di tirocini. Il primo è il <strong>tirocinio curricolare</strong>, indirizzato ai giovani frequentanti un percorso di istruzione o formazione e finalizzato a integrare apprendimento e lavoro. Il secondo invece è il <strong>tirocinio extracurricolare</strong>, diverso per finalità e soggetti coinvolti: l’obiettivo sarebbe quello di agevolare le scelte professionali dei giovani tramite un approccio hands-on col mondo del lavoro.</p>
<p>Le definizioni del ministero stridono con l’<strong>applicazione effettiva</strong> di questo strumento, tuttavia. Basta dare un’occhiata alle norme per intuire le <strong>difficoltà </strong>affrontate da un tirocinante e perché questa soluzione venga <strong>abusata dai datori di lavoro</strong>: nel caso dei tirocini curricolari, ad oggi in Italia non è prevista un’indennità minima mensile – nonostante il Parlamento europeo abbia condannato come sfruttamento tale pratica nell’ottobre del 2020 – mentre per gli extracurricolari la contribuzione è prevista, ma fissata dalle singole Regioni (si va dai 500 € in Lombardia agli 800 € nel Lazio, per arrivare ai 300 € della Sicilia). Inoltre la peculiarità contrattuale del tirocinio non contempla periodi di ferie, contribuzione previdenziale e malattia, rendendo di fatto l’esperienza una <strong>forma impropria di lavoro</strong>. </p>
<p>Non è quindi un caso se oggi si dibatte sull’inefficacia per l’inserimento nel mondo del lavoro dei tirocini e sulla loro scarsa natura formativa, poiché vengono spesso utilizzati come forma di impiego di manodopera a basso costo. Arrivano perfino a fare da <strong>ostacolo nei confronti dell’apprendistato</strong>, un vero e proprio contratto di lavoro che gode di molte più tutele. Pare sia questa la direzione presa dal Governo nell’ultima Legge di Bilancio 2022, la quale, per contrastare gli abusi nell’utilizzo di tirocini extracurriculari, prevede che entro sei mesi dall’entrata in vigore Governo e Regioni debbano emanare nuove linee guida, secondo criteri ben definiti e più stringenti degli attuali. Ai tirocinanti dovrà essere riconosciuta una congrua indennità di partecipazione, dovrà essere stabilita una durata massima del rapporto e verranno poste limitazioni in merito al numero massimo e minimo di praticanti di cui un’impresa può farsi carico. </p>
<p>La novità più sostanziale però riguarda lo <strong>sgravio contributivo del 100%</strong> per le PMI che stipuleranno <strong>contratti di apprendistato di primo livello</strong>, incentivando così una forma contrattuale più equa.</p>
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<h2>Più formazione e meno burocrazia</h2>
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<p>Le prime esperienze lavorative dovrebbero essere caratterizzate da <strong>più formazione e stabilità</strong> piuttosto che da tirocini e brevi contratti a termine. Per questo motivo, il <strong>contratto di apprendistato</strong> è da considerarsi la via maestra per l’accesso dei giovani nel mercato del lavoro. </p>
<p>Tuttavia, per rendere questa forma contrattuale percorribile per i datori di lavoro, potrebbe non essere sufficiente introdurre uno sgravio fiscale come già previsto dalla Legge di Bilancio. È necessario <strong>semplificare la complessa burocrazia</strong> legata all’apprendistato, al fine di rendere l’esperienza più flessibile ed efficiente, innanzitutto snellendo le barriere di attivazione che potrebbero ostacolare l’utilizzo del contratto, specie nel caso delle PMI.</p>
<p>Tale obiettivo può essere raggiunto attraverso la <strong>digitalizzazione </strong>della procedura, in linea con gli obiettivi del PNRR. Inoltre questo tipo di contratto dovrebbe essere formulato come un apprendistato al lavoro, con l’<strong>opportunità</strong>, invece dell’obbligo, di <strong>svolgere corsi certificati </strong>quando realmente necessari allo sviluppo professionale del lavoratore. Come proponiamo nel libro <em>Ci pensiamo noi</em>, l’istruzione formale dovrebbe invece essere incentivata attraverso la creazione di un conto personale, costituito da “punti” accumulabili durante l’esperienza lavorativa; punti che andrebbero spesi in corsi formativi di propria scelta, magari su suggerimento del datore di lavoro, che in base all’esperienza sul campo potrebbe aiutare il giovane a individuare il percorso formativo ideale. </p>
<p>La strada scelta dal Governo è promettente, ma non basterà se non si sfronda l’iter amministrativo per le imprese nella gestione del contratto di apprendistato. Dopo una crisi di questa portata, non possiamo permetterci un altro mezzo successo. Figurarsi un fallimento. </p>
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<p><em>Ha collaborato all’articolo:</em></p>
<p><em><br /><strong>Sara Rabino</strong> &#8211; Nata a Torino nel 1996 e cresciuta ad Asti. Ha conseguito sia la laurea triennale che quella magistrale all’Università Bocconi, con uno scambio all’University College of London. Dopo un periodo di ricerca al centro IGIER (Milano) e al CNRS (Parigi) in economia del lavoro e economia della salute, ha iniziato un PhD in Economics all’Università di Zurigo. Senior fellow del think-tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.</em></p>


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Qui di indeterminato c&#8217;è solo il futuro

Il mondo del lavoro, per i giovani ma non solo, è contraddistinto da assunzioni a breve e brevissimo termine e tirocini impiegati al posto di contratti di apprendistato. Il Governo prende contromisure, ma basteranno?

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seven


<p><strong>Giovanni D’Antonio se li è meritati senza dubbio, sabato, i riflettori di Procida Capitale della Cultura 2022 alla sua inaugurazione ufficiale. Li merita perché è giovane e perché vale, peccato che lo abbiano usato per il messaggio sbagliato. </strong>Campione olimpico di filosofia &#8211; ai campionati mondiali del 2021 si è classificato primo in Italia e quarto al mondo &#8211; D’Antonio ha poi ottenuto risultati talmente brillanti nello studio che al momento se lo contendono Harvard, Princeton, Yale, Columbia e Stanford University. </p>



<p><strong>Lo hanno scelto per la Lectio magistralis arrivata dopo il discorso di Mattarella facendo quindi un filotto perfetto secondo le regole della comunicazione, del marketing e dell’impatto emotivo sul pubblico</strong>. Se però grattiamo la patina di ogni manifestazione e di ogni politica, spesso ci resta&nbsp;un misto di vernice e ipocrisia sotto le unghie.</p>



<p>In una fase storica dell’Italia che perde pezzi da troppe parti, <strong>i luoghi comuni li hanno infilati tutti</strong> a Procida, per quanto io stimi molto Agostino Riitano che <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/procida-le-isole-il-turismo-i-piccoli-non-stanno-piu-a-guardare/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">i</a><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/procida-le-isole-il-turismo-i-piccoli-non-stanno-piu-a-guardare/">ntervistai su SenzaFiltro in occasione della candidatura vincente dell&#8217;isola.</a></p>



<p><strong>Hanno infilato, per primo, il luogo comune del dialogo generazionale tra il giovane talentuoso e il Presidente anziano</strong>, quello che si è “sacrificato” per sopperire a una politica di partito vergognosa e immatura (il dibattito pubblico sulla seconda rielezione di Mattarella e sulla clamorosa sconfitta della politica di casa nostra è durata il tempo di qualche giorno, finché non si sono scorticate le dita sui tasti dei social per gridare allo scandalo davanti all’applauso da stadio in Parlamento).&nbsp;</p>



<p><strong>Il secondo luogo comune è stato il tema scelto per la lectio, non so dire se da lui o dal comitato organizzatore: la speranza</strong>. Chi non sarebbe d’accordo a dare sponda alla speranza in una fase di passaggio nazionale e mondiale in cui della speranza non riusciamo più a tirare su nemmeno i cocci? In un’intervista rilasciata da D’Antonio qualche giorno prima della cerimonia, con un sorriso disarmante come solo un ragazzo della sua età può avere, aveva usato queste parole: “<em>Il concetto di speranza, come lo intendo io, è un concetto universale, è rivolto a tutti. Il bambino ha le speranze perché in futuro vorrebbe diventare qualcuno, l’adulto ha speranze perché ogni giorno deve provvedere alla sua famiglia o perché vuole progredire nella carriera. Ognuno di noi può sperare</em>”. </p>



<p>Appunto: la carriera, la crescita, la possibilità di riuscirci. L’ipocrisia di chiamarlo a tenere un discorso sulla speranza mentre sta decidendo in quale università americana andarsene a spendere le sue doti e mentre, da una Procida capitale, tutti si chiedano se abbia già scelto in quale facoltà andare. Nessuno che si sdegni che se ne stia andando uno bravo, uno giovane, l&#8217;ennesimo: no, noi italiani abbiamo ancora il sogno dell&#8217;America. Di fatto D&#8217;Antonio sta lasciando un’Italia incapace di provare a dare una speranza a un giovane di 18 anni, un&#8217;Italia incapace di dirgli “vai perché è giusto che tu veda il mondo però ti aspettiamo qui per offrirti noi un futuro”.</p>



<p><strong>Il terzo luogo comune è usare i social, i media e la comunicazione per distrarci dai problemi reali che stanno chiusi anche dentro i dati parlanti</strong>. Travolto dalle interviste, D’Antonio spiegava che il suo sogno “sarebbe quello di fare l’imprenditore e di occuparmi dei problemi seri dell’umanità. Primo tra tutti quello del cambiamento climatico, le cui conseguenze sono già evidenti». Non ha fatto un discorso teorico alla Greta Thunberg ma ha espresso un desiderio concreto: mettere su un lavoro che aiuti il pianeta e dia a sua volta lavoro a catena. Non ci ho visto la spinta da inutile start up che dematerializza tutto e azzera le fabbriche e il lavoro coi piedi poggiati sul territorio: spero che l’aria americana non lo converta al lavoro invisibile.</p>



<p>L’Istat, coi suoi report periodici, ha attestato a fine marzo che il tasso di disoccupazione tra i giovani tra i 15 e i 24 anni è sceso al 24,2%, con un calo di 0,6 punti sul mese e di 8,4 punti sull’anno. E questi sono i numeri, apparentemente positivi ma drammaticamente dolorosi nel giorno per giorno perché, <strong>in Italia, chi ci parla davvero coi giovani, chi li orienta, chi li ascolta, chi accoglie il loro malumore e la loro incapacità di immaginare un futuro o, meglio, una speranza come la chiama D’Antonio?</strong></p>



<p>L’Italia del 2022, per i nostri giovani, non è il corteggiamento meritato ma isolato di un solo studente, non è il sorriso di Giovanni D’Antonio che tiene una lectio magistralis sulla speranza, non è l’illusione che qui tutti possano davvero farcela se hanno vent’anni, meriti, capacità e intraprendenza. <strong>Proprio il fatto che, per incapacità dei più giovani e del sistema, sia servito un ottantunenne alla sua seconda rielezione al Quirinale tradisce lo sfarzo della cerimonia in rosa di Procida capitale della Cultura. Avrei preferito un giovane meritevole ma indignato, a cui dare la parola: allora sì che avremmo potuto sperare in qualcosa di diverso per l’Italia.</strong></p>



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<p><em>Foto di copertina: Giovanni D&#8217;Antonio durante la cerimonia ufficiale del 10 aprile 2022. Credits: @Procida 2022 Capitale italiana della Cultura </em></p>


Procida Capitale Cultura 2022 e Giovanni D&#8217;Antonio: il giovane giusto ma col messaggio sbagliato


<p>Sono attori, registi, musicisti, tecnici, scenografi, fonici e chi più ne ha più ne metta, perché il <strong>mondo degli spettacoli</strong> è molto più vasto di quanto si possa immaginare. Mette insieme tante competenze, studi ed esperienze. Tutto quello che due anni di pandemia e le relative chiusure hanno quasi cancellato, o comunque molto ridotto. E, anche se con la diffusione dei vaccini e la <strong>sospensione del Green Pass dal 1 maggio</strong> si cerca di recuperare la programmazione del 2020 e 2021 e si cominciano a organizzare gli eventi estivi, il <strong>settore non se la passa bene</strong>, come evidenzia una recente ricerca di Fondazione Centro Studi di Verona sull’impatto del COVID-19.</p>



<p>Dallo studio emerge un dato tra tutti:<strong> un quinto dei tecnici degli spettacoli non sta più lavorando</strong>. E ancora più in dettaglio: il 10,3% non lavora ma comunque cerca opportunità per farlo, mentre l’<strong>11,4%</strong> ha deciso di<strong> dire addio per sempre al mondo degli spettacoli</strong>. A fare una scelta simile in particolare chi è impiegato nei settori produzione, allestimenti e scenografie, negli eventi live e teatrali che in questo biennio hanno proceduto a singhiozzo, tra chiusure, capienze limitate e accessi consentiti solo con il super Green pass. Colpiti più degli altri le<strong> donne </strong>e chi è nella fascia <strong>30-50 anni</strong>.<strong></strong></p>



<p>Una situazione che riguarda tutto il comparto, che dal 2019 al 2020, secondo l’Osservatorio INPS, ha conosciuto una <strong>perdita di</strong> <strong>ben 8 miliardi di euro </strong>e del <strong>21,7% dei lavoratori</strong>.</p>



<p>Ma dietro ai numeri c’è di più: ci sono persone che fanno altri lavori, direttori artistici che anticipano soldi per ristrutturare il teatro, musicisti e performer che non si esibiscono dall’autunno scorso. E ancora: giornate di prove non pagate e riforme di settore ferme mentre ci si riempie la bocca con parole come “ripresa” e “ripartenza”.</p>



<p>Proviamo a tratteggiare questo mondo con le parole di <strong>Jacopo Bottani</strong>, attore professionista, <strong>Silvia Command</strong>, presidente dell’associazione Bauli in Piazza, <strong>Aldo Mella</strong>, musicista, <strong>Caterina Genta</strong>, danzatrice e performer, e <strong>Cettina Sciacca</strong>, direttrice artistica del Teatro Val d’Agrò.</p>



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<h2 id="h-come-vive-un-attore-professionista-prove-non-pagate-lavori-alternativi-e-fundraising">Come vive un attore professionista: prove non pagate, lavori alternativi e fundraising</h2>



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<p>Quando un <strong>attore</strong> può dirsi <strong>professionista</strong>? Di fatto non c’è un percorso prestabilito, né tantomeno un albo. Eppure <strong>Jacopo Bottani</strong>, nonostante la giovane età – va per i 31 – lo è. Tra gli studi all’Accademia Nico Pepe a Udine, le attività legate al teatro sociale e la creazione di due compagnie indipendenti, PanDomu Teatro e Collettivo l’Amalgama, di esperienza ne ha da vendere.</p>



<p>Nonostante il suo cv, è ancora precario e la gestione dei teatri in pandemia non l’ha di certo aiutato. Anzi: “Ha sicuramente fatto cadere i veli su una realtà che esisteva già e che vede questo lavoro <strong>fortemente instabile </strong>e appoggiato a<strong> puntelli diversi</strong>. Sono pochi gli artisti che hanno la fortuna di potersi sostenere con i proventi degli spettacoli. A questo aggiungiamo il fatto che per due anni sono saltati eventi e che <strong>adesso stiamo recuperando le repliche del 2020</strong>”.</p>



<p>Jacopo, che vive a Milano, per mantenersi ha dovuto barcamenarsi con altre attività: “Ho lavorato sia per una cooperativa multiservizi che per una università privata, dove mi occupavo della gestione COVID-19: dovevo misurare la temperatura agli ingressi. Inoltre ho portato avanti dei laboratori online e lavorato nelle scuole, sia per il pre e post scuola che come docente”.</p>



<p>Certo, in questi anni ci sono stati i <strong>sussidi</strong>, come il <strong>decreto Ristori</strong> che ha previsto l’indennità COVID-19 per i lavoratori dello spettacolo a chi aveva almeno trenta contributi giornalieri dal 1 gennaio 2019 al 23 marzo 2021 (con reddito superiore a 75.000 euro) purché non titolari di contratto indeterminato, oppure a chi avesse almeno sette giornate e con un reddito fino a 35.000 euro. Ci sono stati poi i fondi FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) ed extra FUS.</p>



<p>“All’inizio i Ristori erano garantiti solo a chi aveva <strong>trenta giornate</strong>, poi per fortuna la platea è stata ampliata anche a chi ne aveva <strong>sette</strong>. Queste giornate possono sembrare poche per chi non è in questo mondo, <strong>ma arrivare a farle è invece un miracolo</strong>. Inoltre perché i contributi vengano riconosciuti bisogna avere un ente alle spalle che sia in possesso del cosiddetto certificato di agibilità.”</p>



<p>Aggiunge l’attore: “<strong>C’è tanto lavoro non riconosciuto</strong>, spesso dovuto alla mancanza di mezzi e di tempi adeguati per le produzioni. Uno spettacolo per nascere e crescere può impiegare più di ventuno giorni di produzione, ed è difficile che una compagnia o una cooperativa abbiano i soldi per pagarli tutti. Se in un mese di prove arrivi a sette giorni retribuiti è già tanto. Nel caso poi delle compagnie indipendenti, per un nuovo spettacolo abbiamo tutto il lavoro di <strong>fundraising</strong> (per cui dobbiamo trovare i partner, le date eccetera) che di fatto non è retribuito”.</p>



<p>Per quel che riguarda le <strong>modalità di lavoro</strong>, molti attori sono<strong> liberi professionisti con partita IVA</strong> o lavorano con<strong> contratti a chiamata</strong>. Quasi mai, ci spiega Jacopo, è il teatro ad assumere, “perché di fatto non hanno questa forza. Può succedere solo quando si tratta di un teatro che è produttore”. E le stesse compagnie sono sempre meno: “È un mondo molto frammentato”.</p>



<p>Un’altra tipologia di contratto è la <strong>scrittura</strong>, formula che si divide in continuata e a tempo parziale. Esiste anche una terza modalità: la<strong> scrittura con base mensile</strong>, che aiuterebbe ad avere una sorta di stipendio e andrebbe nella direzione di un lavoro più regolare. Di fatto, però, questa formula prevista dal CCNL del 2018, <strong>scaduto nel 2021</strong> e non ancora rinnovato, è scarsamente utilizzata.</p>



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<h2 id="h-l-indennita-di-discontinuita-avrebbe-salvato-il-settore-ma-i-soldi-non-ci-sono-ripartiamo-senza-riforma">L’indennità di discontinuità avrebbe salvato il settore, ma i soldi non ci sono: “Ripartiamo senza riforma”</h2>



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<p>Tra contratti e scritture prevale una “<strong>selva di inquadramenti</strong> con una grossa casistica di rapporti contrattuali”.</p>



<p>A parlare è <strong>Silvia Command</strong>, presidente dell’associazione di promozione sociale Bauli in Piazza, nata nell’agosto del 2020 e che, dopo la manifestazione dell’ottobre dello stesso anno in piazza Duomo con cinquecento bauli neri utilizzati di solito per trasportare le attrezzature sceniche, continua a tenere i riflettori accesi su questo mondo con varie iniziative.</p>



<p>“La pandemia ha toccato il nostro settore perché <strong>i tempi di programmazione sono piuttosto lunghi</strong>. Questo modo di procedere a singhiozzo ci ha portato nelle due estati passate a organizzare concerti con massimo mille persone ed eventi molto piccoli, tutte cose che hanno permesso solo al 10% di persone di andare avanti”. Tutti gli altri, tra cui i <strong>tecnici</strong>, hanno cercato di <strong>sfruttare al massimo le loro competenze in altri settori</strong>, “come il mondo dei servizi informatici e dell’edilizia”.</p>



<p>Non tutto il male viene per nuocere perché, come ci racconta Silvia, un mondo che era disgregato ha cominciato a prendere coscienza delle sue difficoltà: oltre alla contrattazione sindacale si sono “costituite molte sigle che prima non c’erano”.</p>



<p>Nonostante ciò la situazione è in stand-by: “Abbiamo chiesto al ministero un <strong>tavolo di confronto per mettere in piedi una riforma del settore</strong>. Un tavolo che si è riunito tra il 2020 e 2021 e che poi è rimasto fermo. Sono partite delle riforme oggi riunite in una legge delega, e da <strong>Roberto Rampi</strong> e <strong>Nunzia Catalfo</strong> è arrivata la proposta dell’<strong>indennità di discontinuità</strong>, che non è andata avanti perché non c’è la copertura finanziaria per farla”.</p>



<p>Un’indennità di questo tipo aiuterebbe a <strong>riconoscere un tempo di inattività come preparatorio</strong> e fondamentale per chi svolge professioni creative. “Il lavoro culturale viene considerato alla stregua di divertimento, come qualcosa che ognuno può fare, e invece richiede delle competenze che vanno riconosciute”, chiosa Silvia.</p>



<p>“Quello che non possiamo tollerare è che <strong>stiamo ripartendo senza una vera e propria riforma del settore</strong> e ci ritroviamo punto e daccapo, con una macchina rimasta ferma e molti professionisti che se ne sono andati. Un mese fa siamo stati auditi dalla Commissione sicurezza in Senato e si è parlato di questo tema che per noi è importante, ma ci sembra impossibile andare verso questa direzione se ancora non siamo visti e inquadrati dal Governo”.</p>



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<h2 id="h-aldo-mella-caterina-genta-non-abbiamo-piu-lavorato-a-causa-del-green-pass">Aldo Mella, Caterina Genta: “Non abbiamo più lavorato a causa del Green pass”</h2>



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<p>Un altro nodo è stato il <strong>Green pass</strong>, che ha tenuto lontani dalle scene anche artisti di grande esperienza come <strong>Aldo Mella</strong> e <strong>Caterina Genta</strong>, con un pensiero “diverso”. Il primo è un bassista/contrabbassista che fa questo mestiere da quarant’anni e vanta tra le sue collaborazioni Rossana Casale, Fabio Concato e Franco D’Andrea, solo per dire alcuni nomi. All’età di 62 anni e con un curriculum d’eccezione, si è trovato con un pugno di mosche.</p>



<p>“<strong>Il Green Pass non mi ha affatto aiutato</strong>: mi sono subito schierato contro perché non ero d’accordo con questa limitazione. <strong>Come si fa a portare in scena Brecht e a chiedere un lasciapassare?</strong> Gli ultimi concerti li ho fatti nell’estate del 2020, avrei poi dovuto suonare a un festival jazz, ma ho rinunciato per via del Green pass. Quello che non tollero è non solo che lo chiedessero a me, ma soprattutto al pubblico. Come facevo con la musica a portare un messaggio di pace e libertà in quel contesto?”</p>



<p>Green pass che tra l’altro ad Aldo è stato chiesto ancor prima che fosse necessario negli spazi chiusi. “Avrei dovuto suonare con un mio collega, e prima del concerto l’ho chiamato chiedendogli se dovevo averlo. Il suo silenzio è stato interrotto da una domanda ‘<strong>Non sarai mica un no vax?</strong>’. Quella è stata per me l’ultima occasione. Non sono più neanche andato a propormi in giro, anche perché molti dei musicisti che lavoravano con me sono letteralmente spariti. Devo dire che sono molto deluso”.</p>



<p>Lo stesso stato d’animo attanaglia <strong>Caterina Genta</strong>, performer, autrice, interprete di spettacoli multimediali e dal vivo, oltre che parte del duo Electro Indao insieme a Luigi Parravicini.</p>



<p>“Nel mondo del teatro il <strong>risultato negativo di un tampone</strong> lo chiedevano ancor prima del Green pass: a me è successo nel giugno del 2020, così come in generale era richiesto <strong>anche per le prove</strong>. Il fatto di rifiutarmi non mi ha aiutato: purtroppo se vuoi stare dentro un sistema ti devi adeguare. Andare in un posto, poi, dove le persone sono obbligate a mostrare un QR Code mi faceva tristezza e così il mio ultimo spettacolo è stato il 31 ottobre dello scorso anno. In questi mesi mi sono stati d&#8217;aiuto i sussidi e i risparmi che avevo messo da parte, e confesso che tutto ciò mi ha demotivata e fatto pensare di <strong>abbandonare tutto</strong>”.</p>



<p>Per una persona eclettica come lei, con esperienze a New York, in Germania e la commistione dei linguaggi che caratterizza il suo modo di essere artista, è sicuramente un’amara verità. E in più c’è il sentirsi diversa e poco compresa: “Ora che è tutto riaperto, se non lavoro, viene vista come una scelta mia della quale devo accettare le conseguenze. Mi piacerebbe riprendere, ma in modo diverso da prima: <strong>c’era qualcosa di storto, di marcio che andrebbe superato</strong>”.</p>



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<h2 id="h-la-difficile-sopravvivenza-dei-piccoli-teatri">La difficile sopravvivenza dei piccoli teatri</h2>



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<p>Non solo chi lavora nel mondo degli spettacoli vive grandi difficoltà, ma anche chi i <strong>teatri</strong> li gestisce, spesso facendo leva soprattutto sulle proprie forze.</p>



<p>È il caso di <strong>Cettina Sciacca</strong>, direttrice artistica del Teatro Val d’Agrò a Santa Teresa di Riva, in quella provincia di Messina dove di teatri ne sono rimasti davvero pochi. Quello che dirige, in modo del tutto volontario come chi collabora con lei, è un piccolo fiore all’occhiello: nato negli anni Novanta, è rimasto chiuso per dieci anni finché l’Associazione Culturale Sikilia, di cui la Sciacca è presidente, non l’ha ottenuto come posto in cui provare.</p>



<p>“Quando ci hanno dato il teatro in gestione era in condizioni pietose. <strong>Lo abbiamo rimesso a nuovo da soli</strong> e con grande fatica; dopodiché abbiamo cominciato a fare gli spettacoli. Ogni cosa che guadagnavamo la mettevamo per migliorare il teatro finché il COVID-19 non ci ha ucciso. Abbiamo riaperto nel gennaio 2022 e impiegato i mesi di chiusura per ristrutturare, portando avanti in zona gialla e arancione i laboratori con bambini e adulti. Tra contributi concessi dalla Regione di cui ci manca l’ultima parte e contributi personali – ho chiesto un <strong>prestito personale di 20.000 euro</strong> – siamo riusciti a riaprire a dicembre”.</p>



<p><strong>Ma il pubblico non risponde come prima</strong>. “Riempivamo tutti i posti, adesso il sabato arriviamo a meno del 50% della capienza, la domenica all’80%. Le persone in alcuni casi si sono assuefatte a stare in casa, con lo streaming TV; in altri casi non hanno soldi da spendere o hanno paura. <strong>Noi muoviamo un’economia</strong>, anche se non siamo come l’edilizia: chi va a teatro va al ristorante subito dopo, si compra dei vestiti, esce. Abbiamo lasciato il biglietto d’ingresso a 18 euro anziché 20, come hanno fatto altri, e lo abbiamo fatto solo per rispetto degli spettatori”.</p>



<p>Peccato che però non tutti siano ancora della stessa idea, e che la riforma tanto agognata sia in stand-by.</p>



<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/spettacolo/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Spettacolo</a></strong>.</em></p>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 110, &#8220;<strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-110/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Di tutte le Russie</a></strong>&#8220;, e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</strong></a>&#8220;.</em></p>



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<p><em>Photo credits: quinteparallele.net</em></p>


Spettacoli, ripartenza immobile: 1 tecnico su 5 ha cambiato mestiere

<p>Nei <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/author/tortuga/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">precedenti articoli</a> di questa serie abbiamo discusso l’opportunità di implementare il salario minimo in Italia, e le possibili conseguenze di tale introduzione per chi lavora e per le imprese.</p>
<p>In questo contributo analizziamo <strong>l’effetto del salario minimo</strong> su un’ulteriore componente del mercato del lavoro: <strong>i lavoratori e le lavoratrici irregolari e il lavoro sommerso</strong> (c.d. “in nero” o black economy). Come più volte evidenziato nella letteratura economica, il cambiamento dei salari per gli occupati regolari potrebbe infatti avere un impatto anche sulle condizioni di lavoro al di fuori della legalità.</p>
<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<h2 id="h-i-lavoratori-irregolari-in-italia-sono-piu-di-tre-milioni-e-mezzo">I lavoratori irregolari in Italia sono più di tre milioni e mezzo</h2>
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<p>Ma innanzitutto: chi sono, dove sono, di che cosa di occupano i <strong>lavoratori in nero in Italia</strong>?</p>
<p>Secondo le più recenti stime Istat, nel 2019 c’erano in Italia <strong>3.569.000 lavoratori in nero a tempo pieno</strong>, pari a circa il <strong>14,9% del totale</strong>. Concentrati principalmente nei settori dei servizi alla persona (46,4% sul totale degli occupati nel comparto), dell’agricoltura (18,8%), delle costruzioni (16,3%) e del commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (15,3%), il loro lavoro pesa nel complesso il <strong>4,3% del PIL nazionale</strong>. Una componente che, seppure in calo negli ultimi due anni, rimane non trascurabile, anche perché questi dati non rilevano ancora l’impatto della pandemia.</p>
<p>Una precedente analisi di Tortuga sui dati dell’European Social Survey ha individuato ulteriori caratteristiche individuali che sono associate con maggior probabilità a un lavoratore in nero in Italia: <strong>giovane</strong>, <strong>poco istruito e povero</strong>, <strong>insoddisfatto e</strong> <strong>sfiduciato</strong>. La probabilità di essere un lavoratore in nero è infatti maggiore tra i giovani (18-30 anni) rispetto alle persone di età compresa tra i 40 e i 50 anni, per poi risalire nella fascia degli anziani. Inoltre, la probabilità è più alta tanto sono più bassi il livello di istruzione e il reddito famigliare.</p>
<p>Altre caratteristiche spesso trascurate associate con una più alta probabilità di lavorare in nero sono la maggiore sfiducia per il sistema istituzionale (ad esempio nel Parlamento, nel Governo, nei partiti politici) e un più alto grado di insoddisfazione per la propria vita. Infine, si osserva che il lavoro in nero è anche correlato con la <strong>minore integrazione</strong>, con i livelli più alti osservati tra <strong>cittadini stranieri non nati in Italia</strong>.</p>
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<h2 id="h-salario-minimo-e-retribuzioni-dei-lavoratori-in-nero-lo-studio-sui-paesi-in-via-di-sviluppo">Salario minimo e retribuzioni dei lavoratori in nero: lo studio sui Paesi in via di sviluppo</h2>
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<p>Come già accennato sopra, la letteratura economica ha investigato il <strong>possibile impatto del salario minimo sul settore informale</strong>. I primi studi, risalenti agli anni Ottanta, hanno affrontato la questione da un punto di vista teorico, prevedendo una migrazione dei lavoratori e delle lavoratrici dal settore formale a quello informale e una diminuzione dei salari per chi lavora in quest’ultimo.</p>
<p>Gli studi più aggiornati, invece, dicono l’esatto contrario. La letteratura recente utilizza nuovi metodi empirici per studiare l’impatto dell’introduzione del salario minimo sulla retribuzione media del lavoratore in nero: analizzano <strong>dati dai Paesi in via di sviluppo</strong> nei quali questa misura è stata introdotta recentemente, e dove il tasso di irregolarità è particolarmente elevato.</p>
<p>La ricerca di Boeri, Garibaldi e Ribeiro, per esempio, mostra come in <strong>Brasile</strong> l’introduzione del <strong>salario minimo</strong> abbia portato ad un <strong>aumento dei salari anche per i lavoratori in nero</strong>. Gli economisti riconducono questo trend a due fattori: il <em>“</em><strong>lighthouse effect</strong><em>”, </em>per cui il nuovo livello minimo serve da riferimento anche per i lavoratori nel settore informale – che chiederanno un salario più alto in fase di contrattazione – e la <strong>riallocazione dei lavoratori tra settore formale e informale</strong>. Mentre il primo canale è stato proposto da diversi studi empirici sul tema, il secondo si basa su un modello teorico elaborato dagli autori. Secondo quest’ultimo, in seguito all’introduzione di un minimo salariale, la produttività media e i conseguenti salari dei lavoratori nel settore informale crescono, poiché lavoratori relativamente più produttivi e qualificati si spostano nel settore informale, mentre lavoratori a bassa produttività si spostano nel settore formale.</p>
<p>Uno <strong>studio sul salario minimo in Costa Rica</strong> espone simili risultati: in seguito all’innalzamento della retribuzione minima, i salari non sono aumentati solo nei settori interessati, ovvero nell’economia legale, ma anche in quello che viene considerato il settore informale, dove la legislazione viene raramente applicata (piccole imprese rurali, ad esempio).</p>
<p>Infine, un <strong>report della Banca Mondiale</strong> raccoglie evidenze dai Paesi dell’America Latina per studiare l’impatto del salario minimo sul settore formale e informale che conferma nuovamente <strong>l’impatto positivo della misura sui salari dei lavoratori in nero</strong>.</p>
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<h2 id="h-germania-il-salario-minimo-non-incide-sulla-dimensione-del-lavoro-nero">Germania, il salario minimo non incide sulla dimensione del lavoro nero</h2>
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<p>Nell’analizzare gli effetti di una retribuzione minima bisogna pensare non solo ai salari di chi lavora nel settore informale, ma anche alla vera e propria <strong>dimensione</strong> di quest’ultimo: come accennato sopra, vi è il rischio che l’introduzione di questa misura <strong>aumenti il numero di lavoratori e lavoratrici in nero</strong>.</p>
<p>Per approfondire questo punto è utile studiare il <strong>caso della Germania</strong>, che ha introdotto una paga minima di 8,50 euro lordi all’ora nel 2015, e che prevede di aumentare gradualmente il compenso fino al raggiungimento di 12 euro lordi orari entro ottobre 2022. Come avevamo spiegato nel nostro <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/dignita-del-lavoro-salario-minimo-comune-denominatore/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">primo</a><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/dignita-del-lavoro-salario-minimo-comune-denominatore/"> articolo</a>, l’introduzione del salario minimo in Germania ha portato a un aumento dei salari per i lavoratori a basso reddito, e un effetto sull’occupazione quasi nullo. <strong>Ma qual è stato l’impatto sul lavoro in nero?</strong></p>
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<figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/SF-NEW-Irregolari.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/04/SF-NEW-Irregolari-1024x1024.png" alt="" class="wp-image-49734" /></a></figure>
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<p>Nel 2015, alcune previsioni suggerivano un <strong>aumento dei costi delle aziende tedesche</strong>, per potersi adeguare al salario minimo, di 7 miliardi di euro, dei quali circa il 20% sarebbero stati evasi, contribuendo a un aumento dell’economia sommersa di 1,5 miliardi di euro (Schneider &amp; Boockmann, 2015). Ciononostante, <strong>le stime dell’economia sommersa tedesca mostrano un trend in discesa</strong>, passando dal 14,3% del PIL nel 2009 al 8,7% del PIL nel 2022 (Schneider, 2022).</p>
<p>Nel complesso, il salario minimo non ha dunque comportato un consistente aumento dell’economia sommersa, ma nemmeno una sua diminuzione, che è invece da attribuirsi all’andamento positivo dell’economia tedesca. La letteratura scientifica non ha infatti evidenziato una causalità tra implementazione della retribuzione minima e dimensione dell’economia sommersa, e interviste a lavoratori di settori particolarmente toccati dal lavoro nero, come quello edile, non hanno percepito un aumento del lavoro irregolare in seguito all’aumento del compenso (Fuchs et al., 2020).</p>
<p>Come <strong>fattori determinanti dello sviluppo del lavoro in nero</strong> in Germania vengono invece identificate caratteristiche specifiche di alcuni settori, come basse barriere d’ingresso, subappalti e una forte pressione competitiva in termine di prezzi (Fuchs et al., 2020), e dell’economia, come una crescita economica e una riduzione della disoccupazione (Schneider &amp; Boockmann, 2018).</p>
<p>Infine, un aspetto particolarmente importante è la <strong>qualità e quantità di controlli effettuati</strong>. Secondo Bosch et al. (2019), il numero di ispezioni sull’applicazione della normativa è costantemente diminuito nel corso degli anni, portando a una possibile sottovalutazione della dimensione del lavoro irregolare. Questo è un punto fondamentale da considerare per l’implementazione del salario minimo anche in Italia, dove spesso l’introduzione di una norma non viene seguita dalla verifica della sua implementazione.</p>
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<h2 id="h-il-salario-minimo-tirando-le-somme-che-effetti-avrebbe-in-italia">Il salario minimo, tirando le somme: che effetti avrebbe in Italia?</h2>
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<p>Guardando dunque sia a esperienze a noi più vicine, come quella della Germania, sia alle analisi sui Paesi in via di sviluppo presenti nella letteratura, è evidente che <strong>il salario minimo ha un effetto anche sul settore informale e sui lavoratori in nero</strong>. In particolare, come ipotizzato anche nell’ultima Relazione del Gruppo di Lavoro sugli Interventi e le Misure di Contrasto alla Povertà in Italia (novembre, 2021), è possibile che la sua introduzione crei un effetto lighthouse anche per i lavoratori irregolari, portando a un aumento del salario in nero senza modificare significativamente il numero di occupati nell’economia sommersa.</p>
<p>Quest’articolo conclude la serie sul <strong>salario minimo</strong> redatta da Tortuga. Qual è dunque il <strong>bilancio complessivo dell’introduzione di questa misura?</strong></p>
<p>Negli articoli precedenti abbiamo visto come il salario minimo potrebbe portare non solo a una <strong>riduzione delle diseguaglianze</strong>, ma anche a un <strong>miglioramento dell’ambiente competitivo</strong> nel nostro Paese.</p>
<p>Nel <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/dignita-del-lavoro-salario-minimo-comune-denominatore/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">primo articolo</a> abbiamo parlato di come la letteratura scientifica più recente abbia <strong>rigettato la teoria che il salario minimo riduca l’occupazione</strong>, e di come sia invece un importante strumento per tutelare i lavoratori che non sono coperti dai contratti collettivi e si trovano in una posizione contrattuale più debole.</p>
<p>Nel <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/non-tutte-le-imprese-possono-permettersi-il-salario-minimo/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">secondo articolo</a> abbiamo poi mostrato come l’introduzione di una retribuzione minima potrebbe <strong>migliorare la competitività del mercato del lavoro</strong>. Le nostre analisi mostrano come molte aziende paghino stipendi inferiori al minimo ipotizzato, e come l’impatto di un aumento dei costi del lavoro sarebbe marcato soprattutto per le aziende a bassa produttività, con una spiccata eterogeneità settoriale e territoriale.</p>
<p>Infine, nel <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/working-poor-italia-salario-minimo/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">terzo articolo</a> abbiamo considerato il <strong>fenomeno della povertà da lavoro</strong>, per il quale il salario minimo sarebbe solo una delle politiche di sostegno necessarie.</p>
<p>Nonostante gli effetti positivi del salario minimo che abbiamo evidenziato, va sempre ricordato che <strong>non si tratta di una bacchetta magica, ma di un ulteriore strumento</strong> per agire sull’intero panorama lavorativo italiano, che deve essere supportato da uno studio approfondito delle inefficienze del mercato e dall’implementazione di altri strumenti a supporto di lavoratori e aziende.</p>
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<p><em>Ha collaborato all’articolo:&nbsp;</em></p>
<p><strong><em>Sara Rabino</em></strong><em> – Nata a Torino nel 1996 e cresciuta ad Asti. Ha conseguito sia la laurea triennale che quella magistrale all’Università Bocconi, con uno scambio all’University College of London. Dopo un periodo di ricerca al centro di ricerca IGIER (Milano) e al CNRS (Parigi) in economia del lavoro e economia della salute, ha iniziato un PhD in Economics all’Università di Zurigo. Senior fellow del think-tank </em><a href="https://www.tortuga-econ.it/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow"><em>Tortuga</em></a><em>, tramite il quale pubblica questo contributo.</em></p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/salario/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Salario</a></strong>.</em></p>
<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 110, &#8220;<strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-110/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Di tutte le Russie</a></strong>&#8220;, e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</strong></a>&#8220;.</em></p>
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Se il salario minimo aumenta anche gli stipendi in nero

Quali effetti avrebbe l&#8217;introduzione del salario minimo sul lavoro irregolare? Su tutti, un aumento delle retribuzioni e una riallocazione dei lavoratori tra il settore formale e quello informale. Ne parliamo in un&#8217;analisi basata sugli studi più recenti del fenomeno con i dati della Germania e dei Paesi in via di sviluppo.

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<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500"><em>Il parere di Aldo Confalonieri, presidente sezione Turismo di Assosistema Confindustria, e di due imprenditori: &#8220;Ripresa spezzata dalla guerra: aziende costrette ad alzare i prezzi, rischiano 4.000 lavoratori. Il Governo aveva dato aiuti nel 2020, oggi ignora le stesse imprese&#8221;.</em></p>



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<p>Tra pandemia, crisi delle materie prime e ora la guerra russa in Ucraina non sembra esserci pace per l’industria dell’ospitalità italiana, così come per tutte le altre attività a essa collegate. Fra queste, quella delle <strong>lavanderie industriali del comparto del turismo</strong> è tra le prime per necessità di funzionamento delle strutture ricettive e della ristorazione. Un totale di circa <strong>300 aziende e 8.000 lavoratori </strong>(di cui il 65% donne), per un fatturato pari a 660 milioni di euro nel 2019. Un settore oggi in <strong>grande difficoltà</strong>, che si trova a scontrarsi con il fatto di non essere stato ricompreso dal Governo tra i destinatari delle nuove misure previste a sostegno del turismo, pur essendone parte integrante.</p>



<p>In mancanza di aiuti del Governo le lavanderie provano ad alzare i prezzi, ma se i clienti stessi sono in crisi la soluzione non sembra così semplice. Già fiaccate dalla pandemia, le lavanderie del comparto rischiano di pagare un conto troppo alto a causa degli aumenti delle materie prime e della guerra in Ucraina, i cui scenari non sono ancora prevedibili.</p>



<p>La sofferenza è condivisa in questo <strong>settore</strong>, non delocalizzabile e <strong>molto avanzato </strong>da un punto di vista <strong>informatico </strong>e <strong>tecnologico</strong>. Tamponano le perdite le aziende più grandi, soprattutto quelle che negli anni si sono diversificate in altri comparti, come quello dei servizi sanitari integrati. Intanto però, in attesa di una ripresa forte del turismo, il futuro delle piccole e medie aziende e dei lavoratori sembra molto a rischio, anche a causa della concorrenza sleale di chi lavora ai margini del settore. La speranza degli addetti ai lavori intanto è che il Governo cambi idea sui sostegni, e si attivi in tempi rapidi al fine di garantire la sopravvivenza di queste imprese.</p>



<p>Su questo tema abbiamo raccolto le posizioni di <strong>Aldo Confalonieri</strong>, presidente della sezione Turismo di Assosistema Confindustria, e di <strong>due aziende del comparto</strong>.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/aldo-confalonieri.jpeg"><img width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/aldo-confalonieri-1024x768.jpeg" alt="" class="wp-image-49367" /></a><figcaption>Aldo Confalonieri, presidente della sezione Turismo di Assosistema Confindustria.</figcaption></figure></div>



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<h2 id="h-aldo-confalonieri-assosistema-confindustria-per-le-lavanderie-industriali-salgono-i-costi-e-calano-i-turisti">Aldo Confalonieri, Assosistema Confindustria: “Per le lavanderie industriali salgono i costi e calano i turisti”</h2>



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<p>“Gli effetti della pandemia sono stati molto gravi per tutte le <strong>lavanderie del settore del turismo</strong>”, esordisce Confalonieri. “Si sono registrate delle contrazioni rilevanti del fatturato, con <strong>una perdita di 396 milioni nel 2020</strong>, e una stima di <strong>350 milioni andati in fumo nel 2021</strong>. Le aziende sono rimaste in piedi con notevoli sforzi e investimenti di risorse proprie, al fine di restare attive sul mercato. Una sofferenza condivisa, ma chi ha subito perdite maggiori sono in particolare le lavanderie che lavorano nelle <strong>grandi città d’arte</strong> (Venezia, Milano, Firenze, Roma…), che faranno più fatica a tornare ai livelli normali”.</p>



<p>Un problema dovuto inizialmente alle <strong>chiusure imposte dalla pandemia</strong>, a cui si sono sommati non solo la mancanza dei flussi turistici pre-COVID, ma anche<strong> l’aumento delle materie prime.</strong></p>



<p>Secondo i dati forniti da Assosistema, da gennaio a novembre 2021 i <strong>numeri dei rincari</strong> si attestano su cifre difficilmente sostenibili nel lungo periodo, a partire dal <strong>gas</strong> ( +153% rispetto al 2019 e +286% sul 2020 l’aumento medio per il metano) e dalla <strong>materia energetica</strong> (+112% rispetto al 2019 e +185% rispetto al 2020). Alti i rincari anche per le <strong>sostanze chimiche e i detergenti</strong> (+57% sul 2019 e + 72% sul 2020 sul prezzo medio dei detergenti all’ingrosso), per il <strong>polietilene</strong> per l’imballaggio (+41% sul 2019 e +80% rispetto ai valori 2020 sui prezzi all’ingrosso) e per il <strong>tessile</strong> impiegato per i servizi di noleggio della biancheria (+17,50% sul 2019 e +30% sul 2020).</p>



<p>Rispetto a quest’ultima voce, inoltre, come precisa Confalonieri, c’è un problema di <strong>scarsità</strong>: “Il cotone si ottiene con fatica e con ritardi, perché poco e proveniente dall’estero. Prima le navi arrivavano in una settimana, oggi sono praticamente ferme”.</p>



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<h2 id="h-a-rischio-4-000-posti-di-lavoro-il-nodo-degli-stagionali">A rischio 4.000 posti di lavoro. Il nodo degli stagionali</h2>



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<p>Se gli aumenti continuano, e i turisti non arrivano, <strong>restano in forse gli stagionali</strong>, che rappresentano più della metà degli addetti del comparto delle lavanderie industriali.</p>



<p>“Le lavanderie industriali impiegano circa <strong>8.000 addetti, di cui 5.000 stagionali</strong>”, spiega Confalonieri. “Si lavora soprattutto con <strong>assunzioni a tempo determinato</strong>, sia per la stagione invernale che per quella estiva, e poi ci sono le aziende che servono le grandi città d’arte che assumono soprattutto da marzo a ottobre. Il calo della manodopera al momento c&#8217;è stato, e ha riguardato in particolare gli stagionali della montagna, circa 2.000 lavoratori, che non sono stati richiamati a lavoro. Se non riparte il settore sono a rischio anche gli stagionali della Pasqua. Il pericolo più grave però sono <strong>le chiusure definitive nel breve termine</strong>, soprattutto per le piccole e medie imprese, che <strong>potrebbero lasciare a casa almeno 4.000 dipendenti</strong>”.</p>



<p>Problemi verso i quali il Governo non starebbe facendo abbastanza per l’associazione confindustriale. Come sottolineato da Confalonieri, “<strong>nel 2020 il Governo aveva riconosciuto le aziende</strong> come parte della filiera, e quindi danneggiate dal COVID-19. <strong>Oggi sono state escluse senza nessuna ragione dagli ultimi ristori </strong>previsti per il settore. Le richieste di Assosistema sono di riconoscere la nostra centralità, e soprattutto di considerarci come le aziende energivore, al fine di garantire una <strong>riduzione </strong>della<strong> componente elettrica </strong>e del<strong> gas </strong>che stiamo pagando. Non è solo la manifattura in Italia che manda avanti il Paese, sono centrali anche le aziende dei servizi”.</p>



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<h2 id="h-i-prezzi-aumentano-fino-al-21-confalonieri-scelta-obbligata-anche-per-concorrenza-sleale">I prezzi aumentano fino al 21%. Confalonieri: “Scelta obbligata anche per concorrenza sleale”</h2>



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<p>A questa situazione di crisi le aziende hanno iniziato a rispondere con <strong>un aumento progressivo dei prezzi</strong>: “Già da diversi anni, a causa di un mancato adeguamento dei contratti, il settore aveva progressivamente perso di marginalità. Oggi, con la pandemia e gli aumenti delle materie prime, siamo arrivati a produrre sottocosto. Per far fronte a questo, le lavanderie hanno adeguato i loro prezzi di<strong> noleggio e sanificazione della biancheria</strong>, <strong>aumentandoli</strong> <strong>dal 15 al 21%</strong> a seconda delle diverse situazioni delle singole imprese”.</p>



<p>Secondo Assosistema, per le aziende si tratta di una <strong>scelta obbligata</strong> per sostenere i costi e continuare a lavorare secondo le regole, necessarie per il rispetto degli standard di igiene del servizio, per la tutela dell’ecosostenibilità e l’applicazione dei contratti nazionali. Come testimoniato dal dott. Confalonieri, infatti, la <strong>concorrenza sleale </strong>e il mancato rispetto delle normative da parte di <strong>aziende che lavorano al margine del settore</strong> erano già presenti anche prima di questo momento di crisi: “Aziende che, per fare prezzi bassi, non offrono nessuna certificazione o garanzia igienica, sia per le strutture che per i clienti finali, che non hanno depuratori o che ricorrono a cooperative al posto di assumere il personale secondo i contratti nazionali previsti”.</p>



<p>Una concorrenza che, in questo momento di crisi, rischia di pesare di più sulle aziende che sostengono costi più alti lavorando nel rispetto di norme e certificazioni.</p>



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<h2 id="h-il-parere-delle-aziende-la-guerra-ha-lavato-via-le-speranze-di-ripresa">Il parere delle aziende: la guerra ha lavato via le speranze di ripresa</h2>



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<p>Di fronte a questa difficile situazione, cosa ne pensano le lavanderie del comparto?</p>



<p>Per <strong>Federico Bini</strong>, Amministratore Unico del Gruppo Lavanderie Bini di Bagno a Ripoli (prima periferia di Firenze), la guerra in corso in Ucraina è arrivata come un duro colpo, dopo le altre complessità vissute negli ultimi due anni: “<strong>L’anno scorso abbiamo perso l’80/85% del lavoro</strong>, poi da gennaio iniziavamo a vedere la luce dopo il COVID-19, e invece ora con l’aumento dei costi e la guerra e<strong> si arresta nuovamente tutto</strong>. Stiamo facendo tanta fatica, qui a Firenze le lavanderie sono strettamente legate al turismo, va un po’ meglio in quelle città in cui c’è un flusso legato agli affari. Per ora gli alberghi confermano i numeri delle prenotazioni future, però è evidente che il conflitto avrà degli impatti non solo sul<strong> turismo proveniente dalla Russia</strong>, ma su chi, provenendo da altri continenti, <strong>deciderà di non venire in Europa</strong>. Nel frattempo abbiamo anche<strong> perso circa il 15% del personale durante il periodo di cassa integrazione</strong>, che ha scelto giustamente di ricollocarsi. Per noi ha significato perdere una professionalità che, qualora dovessero aumentare nuovamente i carichi di lavoro, non sarà più disponibile”.</p>



<p>È intervenuto poi il <strong>titolare di una storica lavanderia romana</strong>, che ha chiesto di restare anonimo, per cui quello dei costi oggi resta il primo dei problemi. “<strong>Per noi</strong> <strong>è aumentato tutto</strong>, e il primo costo è ovviamente quello dell’energia che usiamo per lavorare. Poi ci sono i materiali, a cui si somma la gestione logistica del servizio: dalla benzina per i furgoni all’acquisto dei mezzi stessi. Oggi ci stiamo trovando a pagare 40.000 euro lo stesso modello di furgone acquistato a 24.000 euro nel 2019. Anche se la domanda dovesse tornare normale, ciò che non potremo mai recuperare è<strong> la marginalità</strong>. Va fatto un intervento serio sulla regolamentazione del mercato e su concorrenza e rapporti tra lavanderie. Su comportamenti quali il pagamento a lungo termine dei fornitori, l’uso di manodopera a basso costo, le continue chiusure e riaperture di S.r.l. Servono controlli e tutele”.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/turismo/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Turismo</a></strong>.</em></p>



<p class="has-text-align-right"><em>Leggi il mensile 109 &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/numero-109/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Stipendi d&#8217;Italia</strong></a>&#8221; e il reportage &#8220;<a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/reportage/109-reportage/" target="_blank" rel="noreferrer noopener"><strong>Aziende sull&#8217;orlo di una crisi di nervi</strong></a>&#8220;.</em></p>



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<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p><em>Photo credits: novusagens.it</em></p>


Lavanderie industriali, più sporco non si può: dopo la guerra il Governo nega i ristori


<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500"><em>Chi forma gli operai specializzati? Gli stipendi di periti e laureati che lavorano nelle scuole sono molto inferiori a quelli che si percepiscono nelle imprese: così l&#8217;insegnamento diventa una missione sociale per pochi. L&#8217;opinione di Davide Prato (EnAIP Veneto) e Giorgio Spanevello (ITS Academy Meccatronico Veneto).</em></p>



<div style="height:80px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>“Con le retribuzioni contrattualmente previste è piuttosto difficile essere attrattivi, a maggior ragione negli <strong>insegnamenti di indirizzo</strong> come il mio.”</p>



<p>Analizza un aspetto originale <strong>Davide Prato</strong>, docente di meccanica in forza a EnAIP Veneto, da sempre impegnato nel mondo dei percorsi di istruzione e formazione professionale. Già, perché se negli ultimi mesi il dibattito si è arenato sulle difficoltà vere o presunte delle imprese nel reperire operai specializzati, nessuno si è posto una domanda fondamentale: <strong>come si formano i ragazzi senza formatori preparati e ben pagati?</strong></p>



<p>“<strong>I tecnici sono difficilissimi da scovare</strong>, spesso perché molto strutturati nel bagaglio di conoscenze, ma non all’altezza di trasferire agli studenti competenze specifiche; ragion per cui diventa complicato trovare risorse preparate e con particolare orientamento alla formazione. Io mi reputo una mosca bianca, dopo l’istituto tecnico industriale ho deciso di seguire un percorso di studi in scienze della formazione, una sorta di vocazione che non tutti hanno nelle proprie corde. Peraltro, la mancanza di vocazione non è l’unica causa se <strong>oggi i professori del mondo meccanico o elettrico latitano pericolosamente</strong>.”</p>



<p>Il riferimento alla <strong>condizione contrattuale</strong> di chi presta servizio nella formazione professionale è scontato. E suona come un ulteriore grido di allarme, visto e considerato che in generale gli insegnanti italiani lavorano di più e percepiscono il 30% in meno rispetto alla media dei colleghi europei.</p>



<p>“Ma la nostra è una situazione ancor più drastica. Intanto perché siamo chiamati a un carico settimanale ben superiore agli insegnanti della scuola pubblica e poi perché, pensando al mio caso, <strong>se paragono le trentasei ore spese in istituto con le dieci di consulenza esterna</strong> che fatturo a officine e aziende, <strong>gli introiti complessivi non sono molto divergenti</strong>.”</p>



<p>Un vero peccato, visto che sono in media circa centomila l’anno gli studenti che si iscrivono a questi percorsi di istruzione e formazione. E che insegnare in un centro professionale talvolta si traduce in <strong>impegno sociale</strong>, dovuto al contesto di comunità nel quale operano i docenti dei CFP, spesso coinvolti con costanza in attività tese a <strong>contenere la dispersione formativa</strong>.</p>



<p>“E chi lavora con partita IVA vive una situazione se possibile ancora più deficitaria, per non dire alla canna del gas. Parliamo di un fatturato pari a venti, venticinque euro l’ora, che quindi netti diventano poco più di dieci, ai quali devi sottrarre tutte le spese di gestione autonoma”.</p>



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<h2 id="h-la-formazione-professionale-ha-bisogno-di-ingegneri-ma-le-aziende-pagano-piu-delle-scuole">La formazione professionale ha bisogno di ingegneri, ma le aziende pagano più delle scuole</h2>



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<p>Un diverso termine di paragone è in ogni caso utile averlo. La guida ai salari redatta da Hays a fine 2021 fotografa, tra le altre professionalità, anche gli <strong>stipendi dei ruoli che periti e laureati</strong> in meccanica, elettrotecnica ed elettronica svolgono all’interno delle <strong>imprese private</strong>. Ebbene, nel mondo dell’engineering, un lavoratore dedicato alla ricerca e sviluppo con un’esperienza minima guadagna <strong>dai trenta ai trentacinquemila euro</strong> come retribuzione annua lorda. Se parliamo però di profili con significativa esperienza le RAL lievitano, toccando, ad esempio nell’universo automotive<em>,</em> vette <strong>dai cinquanta ai sessantamila euro</strong> per le mansioni di progettista e project manager.</p>



<p>Vocazione oppure no, <strong>perché decidere di insegnare nella formazione professionale davanti ad alternative simili?</strong> Questi valori, che subiscono variazioni minime a seconda del settore, rendono l’idea dei percorsi di carriera che uno specialista può incontrare nel mondo impiegatizio R&amp;D. Stesso discorso vale per i <strong>manutentori</strong>, risorse che magari hanno seguito il medesimo percorso scolastico ma che, per attitudine, scelgono di vivere il campo attraverso il contatto diretto con l’attività di ricerca guasto e riparazione. Anche loro, soprattutto in quanto ricercatissimi sul mercato del lavoro, viaggiano in media a vele retributive spiegate. In questo panorama si inseriscono anche <strong>saldatori</strong>, <strong>meccanici</strong>, <strong>collaudatori</strong>, <strong>installatori di impianti</strong>, che guarda caso per peculiarità tecniche sono oggi le risorse più complesse da selezionare.</p>



<p>L’indagine del sistema informativo Excelsior di febbraio 2022 ha messo inoltre in evidenza che <strong>industria, meccatronica e metallurgia coprono oltre il 50% delle previsioni di assunzione</strong>. A riprova di quanto detto finora anche questa ricerca individua nella carenza di figure tecniche specializzate la criticità principale. Insomma mancano, tra gli altri, fonditori, saldatori e caldaisti.</p>



<p>Un cortocircuito impressionante, perché se <strong>insegnare queste materie nei CFP è diventata una missione sociale e pure sottopagata</strong>, il mondo delle aziende dice al contrario che la domanda di ragazzi con questa formazione è indirettamente proporzionale al numero degli iscritti e alla volontà degli ingegneri di intraprendere un percorso di valore come l’insegnamento.</p>



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<h2 id="h-insegnanti-presi-a-prestito-dalle-aziende-problema-risolto-no-servono-soldi">Insegnanti presi a prestito dalle aziende: problema risolto? “No, servono soldi”</h2>



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<p>Interessante il punto di vista di <strong>Giorgio Spanevello</strong>, direttore generale di ITS Academy Meccatronico Veneto, una concreta opportunità post diploma, naturale conseguenza dei percorsi tecnici superiori Giocoforza legata anche ai centri di formazione professionale, nella tipologia di figure professionali da inserire, pur con livelli di conoscenza ben diversi.</p>



<p>“Noi siamo una realtà molto particolare, e lo sottolineo perché non abbiamo nei nostri organici insegnanti assunti con contratto di lavoro dipendente, ma al contrario sono tutti a contratto. Una parte di questi arriva dal mondo delle professioni, per vincoli legati al decreto istitutivo che prevede questa quota obbligatoria fissata al 50%. Per tale ragione cerchiamo, per quanto possibile, di concordare con le <strong>aziende socie</strong> una <strong>concessione di alcune ore dei loro tecnici</strong>. In alternativa andiamo a cercare queste figure tra i professionisti e, tra questi, chiaramente puntiamo su chi ha le caratteristiche migliori per approcciarsi all’insegnamento. Chiaro che per noi sono quasi tutti <strong>insegnanti che svolgono altri lavori</strong>: credo che questa sia nei fatti la differenza principale con le dinamiche della IeFP”.</p>



<p>Ma non potrebbe essere, a mali estremi, una soluzione anche per le scuole professionali incapaci di mettere sotto contratto professori di meccanica? “Non c’è dubbio, possono anche pensare di procedere in questi termini. Però, mi duole dirlo, <strong>il problema sono i soldi</strong>. Io pago settanta euro l’ora il mio docente a contratto, non so se i CFP hanno queste disponibilità economiche”.</p>



<p>Una situazione che potrebbe creare <strong>ripercussioni anche sugli ITS</strong>. È assurdo pensare che, a causa delle difficoltà nei centri professionali, a cascata si perdano magari studenti di valore in grado di proseguire sulla strada della maturità e della specializzazione post-diploma? “Obiettivamente da noi in pochi provengono dal percorso di formazione professionale. <strong>Noi abbiamo perlopiù diplomati di scuola statale</strong>, i CFP come dice lei dovrebbero entrare in terza battuta. Diciamo che siamo su percentuali infinitesimali, anche perché la formazione di base nelle professionali è forse troppo bassa dal punto di vista teorico”.</p>



<p>E dal punto di vista della pratica non è supportata da insegnanti retribuiti e motivati nel migliore dei modi. “Esatto. Tra l’altro, lo dico con onestà intellettuale, <strong>i docenti che prestano servizio nei CFP non vedono l’ora di intravedere qualche spiraglio nei concorsi pubblici</strong>. Quest’anno, ad esempio, è stato un vero e proprio dramma perché si sono aperte tante strade nella scuola pubblica, e questo ha pesato nelle dinamiche della formazione professionale, soprattutto per i docenti di laboratorio”.</p>



<p>Nel frattempo le organizzazioni si spendono invano nella ricerca di giovani manutentori, con la segreta speranza che i ragazzi tornino a seguire in numero cospicuo le scuole professionali, porto di approdo sicuro per l’accesso diretto al mondo del lavoro. Ma anche se fosse così, poi chi li forma?</p>



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Tecnici specializzati: tutti li vogliono, nessuno li forma, pochi li pagano

<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500"><em>Il fenomeno dei lavoratori poveri è determinato da salari bassi e instabilità dei contratti e localizzato su generi, età e geografie. L&#8217;Italia e l&#8217;Europa interpretano in maniera parziale i dati che li riguardano; risolvere la loro situazione richiede interventi strutturali sulle politiche del lavoro.</em></p>
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<p>Il <strong>salario minimo</strong> viene spesso considerato una misura di contrasto alla povertà. In realtà non si tratta di un vero e proprio strumento con questo fine, in quanto possono beneficiarne <strong>solo i lavoratori</strong>, tagliando fuori i disoccupati. Avere un lavoro, tuttavia, non assicura il superamento della soglia di povertà: un’analisi dell’utilità del salario minimo richiede, quindi, di focalizzarsi sulla dimensione della <strong>povertà da lavoro</strong>.</p>
<p>Anzitutto è necessario <strong>definire il concetto di povertà da lavoro</strong>. Secondo la definizione dell’indicatore Eurostat i <strong>working poor</strong> sono gli individui che hanno lavorato per almeno metà anno e il cui reddito annuale famigliare equivalente è inferiore al reddito mediano nazionale. Si tratta quindi di un concetto complesso, con due dimensioni: una individuale (essere lavoratore) e una famigliare (il reddito considerato è quello del nucleo familiare e non del singolo).</p>
<p>A differenza dell’indice Eurostat, per la nostra analisi consideriamo il salario mensile netto individuale per dei vincoli imposti dai dati, anziché il reddito familiare annuo. Come mostrato nel grafico, la <strong>percentuale di lavoratori poveri sul totale degli occupati</strong> è rimasta stabile e alta nel tempo, e l’aumento nel 2020 a seguito della pandemia si somma a una problematica già presente e strutturale del nostro Paese.</p>
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<p>Per comprendere meglio <strong>chi siano i working poor</strong>, in quale zona d’Italia risiedano e se siano giovani o anziani, abbiamo analizzato i micro-dati della <em>Rilevazione Forza Lavoro</em> dell’Istat (la principale indagine campionaria sul mercato del lavoro da cui vengono ricavate le stime ufficiali su occupati e disoccupati). Tramite l’analisi del salario netto mensile, questi dati permettono diversi livelli di approfondimento del fenomeno della povertà da lavoro.</p>
<p>Avere una <strong>retribuzione bassa</strong> è sicuramente associato con l’essere un lavoratore povero, ma altri fattori qui non considerati sono altrettanto importanti nel determinare la povertà lavorativa, come la <strong>composizione famigliare</strong> in termini di percettori di reddito e di componenti a carico, considerati invece nell’indice Eurostat.</p>
<p>Al di là dei dettagli tecnici sulla misurazione, come vedremo, alcune conclusioni chiave non cambiano: la povertà da lavoro merita una specifica attenzione anche negli interventi al suo contrasto. Il salario minimo è solo un tassello per affrontare la povertà da lavoro, ma è importante focalizzarsi sul fenomeno dei working poor nel suo complesso, perché la sfida non riguarda solo il mercato del lavoro. Infatti, secondo alcune <a href="https://www.eurofound.europa.eu/sites/default/files/ef_publication/field_ef_document/ef1725en.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">analisi</a>, in Europa e in Italia la povertà lavorativa è associata a una <strong>minor soddisfazione verso la propria vita</strong>, a più bassi indicatori di benessere mentale e a un maggiore senso di esclusione sociale.</p>
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<h2 id="h-dove-sono-i-working-poor-la-maggior-parte-vive-al-sud">Dove sono i working poor: la maggior parte vive al Sud</h2>
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<p>Per cominciare, analizziamo la povertà da lavoro a partire dalla <strong>dimensione geografica</strong>. Il focus regionale ci consente, tra l’altro, di contribuire al dibattito sull’eventuale differenziazione territoriale del livello del salario minimo.</p>
<p>Dalla nostra analisi emerge un dato: <strong>la maggior parte dei lavoratori poveri risiede al Sud</strong>. Tuttavia questo fatto non è ascrivibile alla differente distribuzione dei salari tra Regioni. Il salario mediano infatti è più alto al Nord che al Sud e nelle Isole, ma la percentuale di working poor è maggiore al Sud e nelle Isole sia considerando come riferimento il salario mediano nazionale che quello regionale. Il principale messaggio che emerge dall’analisi è che al Sud la maggiore presenza di working poor è dovuta a una consistente fascia della popolazione che rientra nelle fasce di reddito più basse, e non a scelte di misurazione.</p>
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<p>I salari minori al Sud sono in parte associati a un minor costo della vita; tuttavia, ciò non spiega completamente il fenomeno della maggiore povertà da lavoro al Sud, che rimane più vasta che altrove anche quando consideriamo analisi intra-regionali. Questo suggerisce una <strong>declinazione almeno regionale del salario minimo</strong>.</p>
<p>Un altro elemento che salta all’occhio nei nostri dati sull’incidenza della povertà da lavoro è una evidente <strong>sottostima</strong> rispetto ad altri studi analoghi. La differenza dipende dai dati utilizzati e riflette in buona parte un punto chiave nella discussione sul salario minimo. Le stime superiori alle nostre utilizzano i salari percepiti nel corso dell’intero anno solare, mentre le nostre elaborazioni utilizzano i salari nel mese in cui è avvenuta l’intervista del lavoratore. Pertanto la differenza include anche l’<strong>instabilità dei contratti</strong>, un altro determinante cruciale della povertà da lavoro, di recente evidenziato anche dal gruppo ad hoc istituito presso il ministero del Lavoro.</p>
<p>Quest’ultima problematica non può essere risolta con l’introduzione di un minimo salariale, e dunque richiede strumenti di policy a sé stanti.</p>
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<h2 id="h-meno-soldi-ma-anche-meno-ore-le-cause-della-poverta-da-lavoro">Meno soldi, ma anche meno ore. Le cause della povertà da lavoro</h2>
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<p>La precarietà dei contratti non è l’unica variabile che può distorcere confronti con altri studi; differenze sostanziali, infatti, possono emergere anche dall’<strong>analisi delle ore lavorate</strong>.</p>
<p>Non tutti i contratti di lavoro prevedono 40 ore settimanali, né tutti i contratti durano per tutto l’anno, e dunque la povertà da lavoro può emergere anche dal <strong>minor tempo lavorato</strong>. I dati che abbiamo utilizzato finora sono riferiti al salario netto mensile, che viene modificato solo indirettamente dall’introduzione di un minimo salariale orario.</p>
<p>Come spiegato, un basso numero di ore lavorate è una delle ragioni dell’elevata incidenza della povertà da lavoro, e questo può essere osservato ripetendo la nostra analisi e considerando un’approssimazione del salario orario. Tuttavia, la differenza nelle ore lavorate in media nelle venti Regioni italiane non spiega le diversità geografiche osservate.</p>
<p>Riassumendo, abbiamo visto come il salario minimo debba essere declinato almeno a livello regionale, in modo da tenere conto e affrontare l’eterogeneità della povertà da lavoro. Affinché si possa contrastare questo fenomeno, il <strong>minimo salariale</strong> dovrà essere necessariamente accompagnato da <strong>politiche che affrontino l’instabilità contrattuale</strong> e che intervengano sul <strong>tempo di lavoro</strong>.</p>
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<h2 id="h-chi-sono-i-working-poor-il-dato-dei-ventenni-e-quello-nascosto-delle-donne">Chi sono i working poor: il dato dei ventenni e quello nascosto delle donne</h2>
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<p>Un’altra possibile dimensione di analisi utilizzando i dati a livello individuale è quella per <strong>età</strong> e <strong>genere</strong>.</p>
<p>Anche per il fenomeno della povertà da lavoro, come più in generale accade nel mercato del lavoro, le <strong>fasce più penalizzate</strong> sono quelle dei <strong>giovani</strong> e delle <strong>donne</strong>. Come si evince dal grafico, il dato più preoccupante è quello relativo alla fascia d’età più giovane fra i 15 e i 19 anni, che va tuttavia interpretato con cautela per via del basso numero di lavoratori in quella fascia d’età (ad esempio, l’Istat non riporta quindicenni lavoratori per via dell’obbligo scolastico).</p>
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<p>Allarma dunque di più il dato relativo ai <strong>ventenni</strong>, che è significativamente maggiore rispetto alla media nella popolazione. Evidente nel grafico è la <strong>maggiore incidenza della povertà da lavoro nelle donne</strong> rispetto che negli uomini. Nonostante tale differenza di genere non sia accettabile, e abbia conseguenze economiche e sociali non trascurabili, bisogna tenere in considerazione che una parte delle lavoratrici integra il reddito famigliare. Per questo, tenendo conto della definizione di povertà a livello di nucleo famigliare di Eurostat, queste lavoratrici non farebbero parte dei working poor. Non sorprende che secondo i dati europei, infatti, nel 2019 in Italia nella popolazione fra i 18 e i 64 anni l’incidenza della povertà da lavoro è di 3 punti percentuali maggiore per gli uomini (dato al 13,0%) che per le donne (dato al 10,1%). Una parte delle lavoratrici a basso reddito, infatti, è seconda percettrice di reddito, e pertanto non viene considerata come working poor.</p>
<p>Una grossa differenza tra donne e uomini potrebbe essere responsabile del divario presentato in precedenza: <strong>è possibile che le donne lavorino meno ore degli uomini</strong>, e che quindi abbiano uno stipendio mensile più basso per questo motivo. Possiamo quindi cercare di capire se questa differenza di genere sia dovuta alla differenza di ore lavorate oppure a diversi salari orari.</p>
<p>Calcolando una <strong>approssimazione del salario orario</strong> con i dati a nostra disposizione, notiamo che la penalizzazione di genere permane, anche se si riduce considerevolmente. Possiamo osservare questo fatto nel grafico sotto riportato, che considera solo i lavoratori e le lavoratrici a tempo pieno. La disuguaglianza di genere nei salari percepiti, dunque, non sembra essere una questione relativa alle ore lavorate, ma alla <strong>paga oraria inferiore</strong> <strong>che le donne ricevono rispetto agli uomini</strong>.</p>
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<p>Il sostegno al lavoro e ai salari femminili risulta quindi chiave per due ragioni: in primis per ridurre le disuguaglianze di genere, anche all’interno dello stesso nucleo famigliare, e in secondo luogo perché la presenza di un secondo percettore di reddito riduce il rischio di povertà da lavoro per tutte le persone lavoratrici di un dato nucleo familiare.</p>
<p>In conclusione, riteniamo che l’introduzione del<strong> salario minimo </strong>sia un <strong>passo necessario</strong>, ma <strong>non sufficiente per affrontare il fenomeno della povertà da lavoro</strong> e le relative disuguaglianze territoriali e demografiche. È nostra opinione che questo strumento debba inserirsi in un più ampio insieme di politiche di sostegno al lavoro (ad esempio volte a incentivare la stabilità dei contratti) necessarie per il nostro Paese.</p>
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<p><strong><em>Ha collaborato all’articolo:</em></strong></p>
<p><strong><em>Sergio Inferrera – </em></strong><em>Laureato presso l&#8217;università Bocconi, ha lavorato in BCE come assistente di ricerca. È consulente di ricerca per CompNet e presso l&#8217;Università Bocconi. È inoltre senior fellow del think-tank </em><a href="https://www.tortuga-econ.it/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow"><em>Tortuga</em></a>,<em> tramite il quale pubblica questo contributo.</em></p>
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<p><em>Photo credits: srf.ch</em></p>


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Working poor, l&#8217;Italia non sa contarli. Il salario minimo li aiuterebbe?

Il fenomeno dei lavoratori poveri è determinato da salari bassi e instabilità dei contratti e localizzato su generi, età e geografie. L&#8217;Italia e l&#8217;Europa interpretano in maniera parziale i dati che li riguardano; risolvere la loro situazione richiede interventi strutturali sulle politiche del lavoro.

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<h2 id="h-elena-goitini"><br>Elena Goitini</h2>



<ul><li>CARICA: Ad di Bnl</li><li>ANNI: 51</li><li>PAESE: Italia</li></ul>



<p><br>«Sono cresciuta sviluppando l&#8217;antifragilità. Essere antifragili significa amare la casualità e l’incertezza, il che vuole dire anche amare gli errori che mi consentono d&#8217;imparare.»<br></p>



<blockquote class="wp-block-quote has-text-align-right"><p>È la prima donna alla guida di una grande banca nel nostro Paese. Un traguardo che non si era posta ma che ora la carica di responsabilità anche nei confronti delle altre donne. «È una responsabilità che sento forte &#8211; ha detto &#8211; e non tengo sotto traccia. Sono convinta che noi donne dobbiamo imparare a sostenerci di più reciprocamente, cosa che riesce molto bene agli uomini ma meno a noi. Io lo farò all’interno della mia azienda, per promuovere concretamente questo cambiamento». Goitini si è impegnata nell’advisory board del Women’s Forum G20 Italy nel predisporre iniziative concrete per aumentare il numero di donne executive nei board. È convinta che, se la legge sulle quote di genere ha aperto la strada, ora si debba procedere spediti nel mettere a terra iniziative che cambino veramente la realtà.</p><cite>Dall&#8217;articolo a firma di Antonella Baccaro, sul <em>Corriere della Sera</em> </cite></blockquote>



<p><br>Caro direttore,</p>



<p><br><strong>siamo un gruppo di donne, dipendenti della grande banca</strong> (<strong>BNL</strong>) di cui parla Antonella Baccaro (nel suo articolo del 28 dicembre pubblicato su <em>Corriere della Sera</em> online) nel quale si esalta la figura di <strong>Elena Goitini</strong> come paladina delle fragilità. Ci permetta di esprimerle il nostro rispettoso ma totale <strong>dissenso</strong>. </p>



<p>“Essere antifragili significa <strong>amare la casualità e l’incertezza</strong>”, afferma la nostra AD nell’articolo citato. In realtà la vera incertezza è quella che stanno sperimentando <strong>244 donne</strong> insieme ad altri colleghi (in totale circa 900 persone). L’incertezza di un futuro in aziende appena nate grazie a un piano industriale varato per l’appunto dal nostro AD Elena Goitini, che ha trovato ampie critiche tra i lavoratori di questa grande banca. <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/bnl-inventa-il-personale-usa-e-getta-noi-interinali-formati-per-sostituire-gli-scioperanti/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Un piano di cui nessuno parla</a>, che ha poche giustificazioni, come <strong>tante cessioni di rami d’azienda</strong>: operazioni che passano sotto silenzio e che penalizzano la dignità di lavoratrici e lavoratori. A breve, se nessuno interverrà, si aprirà per noi una fase di incertezza non casuale ma voluta da una classe dirigente che certo non si pone problemi di tutela delle donne nel mondo del lavoro. </p>



<p>Eppure le maggiori testate giornalistiche, tra cui la vostra, continuano a veicolare messaggi sul valore delle donne in carriera e mettono “sugli altari” una figura di amministratore, senza sentire la necessità di <strong>verificare cosa realmente avviene all’interno dell’azienda che la dott.ssa Goitini conduce</strong>. Dobbiamo davvero rassegnarci a una comunicazione che assume in maniera acritica slogan sull’uguaglianza di genere senza alcun ancoraggio alla realtà del mondo del lavoro? Noi continuiamo a sperare che il giornalismo italiano possa fare più e meglio di questo. </p>



<p>Se la dott.ssa Goitini ritiene di lavorare anche per le altre donne, si confronti apertamente sulla radio di questa <strong>operazione</strong>, che molti anche all’interno del sindacato giudicano <strong>incomprensibile</strong>, tenuto conto del bilancio in salute della nostra grande banca.<strong> La nostra età media è di 54 anni</strong>, la maggioranza di noi è <strong>caregiver</strong>. </p>



<p>“Sono convinta che noi donne dobbiamo imparare a sostenerci di più reciprocamente”, continua Goitini. Sono parole che vanno bene per ogni occasione, soprattutto per mettersi in vetrina. In realtà le testate giornalistiche dovrebbero registrare le vere forme di solidarietà, come per esempio le <strong>relazioni di solidarietà e supporto insperate che sono nate tra noi donne di BNL</strong>, in questo contesto di incertezza. Sarà forse vero che la dott.ssa Goitini è impegnata nell’advisory board del Women’s Forum G20 Italy e nel &#8220;predisporre iniziative concrete per aumentare il numero di donne executive nei board”. Quello che noi sappiamo è che la dott.ssa Goitini in questo momento è impegnata per portare “a terra” un’altra operazione: <strong>promuovere <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/bnl-mette-laccenture-sui-lavoratori-rischiano-in-900/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">l’espulsione di circa 900 lavoratori</a> </strong>mediante cessione di interi comparti da una grande banca come BNL, in direzione di altre società S.R.L. di nuova creazione, operazione supportata da ragioni inconsistenti o perlomeno non argomentate alle lavoratrici e ai lavoratori. </p>



<p>È facile dichiarare in un’intervista che è ora di “procedere spediti nel mettere a terra iniziative che cambino veramente la realtà”. Di sicuro la celerità nella trasformazione della realtà contraddistingue la nostra AD, ma proprio <strong>in direzione diversa da quella descritta nell’articolo</strong>. Perché i giornalisti oggi non pongono più domande scomode, perché non approfondiscono le vicende delle condizioni di lavoro in BNL, tenuto conto che è in corso una<strong> mobilitazione interna delle lavoratrici e dei lavoratori contro le decisioni della banca</strong>? </p>



<p><strong>Noi donne firmatarie non ci sentiamo tutelate da Elena Goitini</strong>, perché la nomina come AD di una grande banca si deve legare concretamente con le azioni di salvaguardia delle pari opportunità all’interno di BNL, prima ancora che in contesti come il Women’s Forum G20 Italy. Altrimenti ci dica lei, caro direttore: <strong>dov&#8217;è la coerenza? </strong></p>



<p>Le saremmo grate se volesse darci un gentile riscontro.</p>



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<p><em><br>Lettera firmata da un gruppo di donne dipendenti BNL</em></p>



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La lettera delle impiegate BNL: &#8220;La nostra AD dice al Corriere di amare l&#8217;incertezza? Ecco cosa significa&#8221;


<p>Anche il mondo del calcio rivendica sostegni dalla politica e poche ore fa, davanti alle telecamere di 90°Minuto, la <strong>Sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali</strong> rassicurava così: <strong>&#8220;Presto un decreto ristori anche per le società sportive&#8221;</strong>.</p>



<p>Un passo indietro, però.</p>



<p>La <strong>lettera ai Ministeri del Trasporto e del Turismo firmata da Fipe-Confcommercio a inizio 2022 parla chiarissimo</strong> e i numeri a supporto della richiesta sono impietosi: nel 2020 i consumi nella ristorazione sono calati del 37,4%, che vuol dire meno 32 miliardi di euro rispetto al 2019. Vanno aggiunti il 28% dei consumi andati in fumo nel 2021 rispetto all’anno pre pandemia: tradotto, vuol dire 24 miliardi per un totale di <strong>56 miliardi di euro non spesi da famiglie e turisti dentro i pubblici esercizi. </strong>Un totale che comprende sia italiani che turisti stranieri. E <strong>i numeri delle imprese fanno ancora più effetto: 45mila sono scomparse in meno di due anni e superano i 300mila coloro che hanno perso il lavoro.</strong></p>



<p></p>



<p></p>



<h2 id="h-fipe-confcommercio-una-richiesta-surreale-cristiano-carriero-apparantemente-assurda-ma-serve-per-competere-con-lo-sport-europeo">FIPE-Confcommercio: &#8220;Una richiesta surreale&#8221;. Cristiano Carriero: &#8220;Apparantemente assurda ma serve per competere con lo sport europeo&#8221;</h2>



<p></p>



<p><strong>Luciano Sbraga, Direttore del Centro Studi FIPE-Confcommercio</strong>, commenta a caldo per <em>SenzaFiltro </em>il battere cassa delle società sportive: “La richiesta di ristori a seguito della riduzione della capienza degli stadi appare surreale: mentre migliaia di aziende hanno chiuso e rischiano di chiudere e centinaia di migliaia di posti di lavoro sono stati cancellati e hanno dovuto fare i conti con la cassa integrazione, le società di calcio trovino al loro interno le modalità per rendere sostenibile il proprio business che, tra l’altro, ha potuto godere in questi anni dei lauti introiti dovuti ai diritti televisivi”.</p>



<p>Per capire meglio da dentro come girano le logiche sportive, abbiamo raggiunto <strong>Cristiano Carriero, giornalista che si occupa di calcio e di cultura del lavoro</strong> in quel campo. Campo, parola non a caso.</p>



<p>“La richiesta dei ristori è una richiesta che chiaramente va nella direzione di quello che le aziende&nbsp; stanno facendo in generale in Italia a causa della pandemia: è ovvio che le società di serie A e di serie B sono aziende a tutti gli effetti e sono aziende con dei monti stipendi molto, molto alti, soprattutto in serie A. Anzi, meglio: in serie A ci sono dei monti stipendi altissimi per le squadre di prima fascia &#8211; Juventus, Inter e Milan ma soprattutto Juventus e Inter sono due squadre che negli anni hanno investito male e quindi hanno creato in ogni caso dei monti ingaggi molto pesanti (su tutti, il caso di Cristiano Ronaldo ma anche quello di Dybala che arriva a chiedere dieci milioni l’anno, una cifra assolutamente non adeguata a quello che è il momento del calcio italiano). Dall&#8217;altra parte c&#8217;è un un movimento di squadre europee che possono continuare a permettersi di offrire quelle cifre: la prima è senz’altro il Bayern Monaco ma anche le squadre della Premier League inglesi. Ovvio che <strong>se vuoi rimanere competitivo e vuoi tenere i migliori giocatori ci sono solo due strade: la prima è continuare a dare quegli stipendi, la seconda è investire sulle idee, sul calcio giocato in una certa maniera e questa è la strada che per esempio sta prendendo l&#8217;Inter che ha rinunciato a giocatori importantissimi l&#8217;estate scorsa però ha provato a dare una nuova identità”,</strong> commenta Carriero.</p>



<p>“Detto questo, chiaramente <strong>le società stanno perdendo pubblico</strong> perché le restrizioni e le norme che conosciamo bene &#8211; non ultima, la recentissima regola che ci ha riportati ai cinquemila spettatori massimi di capienza per ogni stadio &#8211; di fatto hanno svuotato gli stadi, San Siro ospita più di ottantamila persone e l&#8217;Inter ogni anno fa ottantamila abbonati, la Juventus ne fa meno perché lo stadio è più piccolo e perché ha una diversa politica e strategia pur puntando tantissimo sul proprio piano di abbonamenti: senza stare ad analizzare la morale del giusto o sbagliato, le società sono state penalizzate come ogni altra industria e questo vale per le grandi come per le piccole, ma vale soprattutto per le squadre di serie B che non hanno gli incassi televisivi delle altre e che da sempre puntavano sul fattore pubblico quindi abbonamenti e biglietti. <strong>Da questo punto di vista, e ripeto strettamente da questo punto di vista, è innegabile che la richiesta dei ristori sia legittima: certo ci sono stati settori della cultura, dello spettacolo e dell’intrattenimento che sono stati meno agevolati; il calcio è ripartito l&#8217;anno scorso senza pubblico ma comunque è ripartito. I concerti non sono ripartiti così come il cinema, già penalizzato dalla presenza di Netflix e Prime, ha risentito fortemente della crisi.</strong> <strong>Il calcio è una delle prime industrie italiane ed è per questo che è stato molto sostenuto</strong>, oltre che essere una delle passioni più importanti di tutti gli italiani. Credo che le società si trovino non tanto a esprimere un capriccio, perché la richiesta di ristoro può in effetti sembrare assurda, quanto la volontà di voler comunque continuare a competere con quelle che sono le società europee, soprattutto le inglesi e la tedesca per esser chiari. Altro discorso per la Spagna che ha problemi molto simili ai nostri e gioca sul nostro stesso piano di difficoltà”.</p>



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Decreto sostegni: crisi del commercio e del calcio, non è una guerra tra poveri

<p>Che la <strong>produttività</strong> in Italia cresca a un ritmo decisamente lento non è una novità. Secondo il rapporto <a href="https://www.istat.it/it/files/2020/11/Report_MISURE_PRODUTTIVITA_1995_2019.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Istat (2020)</a>, la produttività totale dei fattori, che rappresenta la tecnologia e l’efficienza dei processi produttivi, è rimasta invariata negli ultimi 25 anni, segnalando le difficoltà di crescita e la scarsa competitività dell’economia italiana rispetto agli altri Paesi europei.</p>
<p>L’introduzione di un <strong>salario minimo</strong> potrebbe essere non solo una misura a tutela dei lavoratori, ma anche l’occasione per <strong>sollecitare la produttività</strong> delle imprese tramite una riduzione delle imperfezioni di mercato. Perché?</p>
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<h2 id="h-dal-2008-le-aziende-italiane-pagano-i-dipendenti-meno-di-quanto-dovrebbero">Dal 2008 le aziende italiane pagano i dipendenti meno di quanto dovrebbero</h2>
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<p>Per capire l’impatto di un salario minimo sul mercato del lavoro è innanzitutto necessario confrontarne il livello con la <strong>distribuzione della retribuzione salariale</strong>.</p>
<p>Nel grafico che segue mettiamo a confronto il salario medio pagato dalle imprese (fonte: CompNet) con un salario minimo di 9 euro l&#8217;ora, lordi ma al netto dei contributi previdenziali. Questa stima del minimo salariale è simile al valore discusso in Parlamento e in alcuni contributi accademici come Caselli et al. (2021). Per ragioni di comparabilità, è necessario definire un <strong>salario minimo lordo annuale ipotetico</strong>, che gli autori stimano pari a <strong>25.332 euro</strong> considerando una media di 168 ore lavorate al mese e pesando per i contributi previdenziali.</p>
<p>Il grafico mostra l’andamento del salario medio pagato dalle imprese con una linea nera. L’area verde denota una paga superiore alla soglia di salario minimo individuata nell’articolo, mentre l’area rossa una paga inferiore. Si può notare la <strong>decrescita del salario medio a partire dal 2007/8</strong>, e come questo rimanga sempre al di sotto della soglia del salario minimo nel corso degli anni successivi.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine1-2.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="414" height="307" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine1-2.png" alt="" class="wp-image-48322" /></a></figure>
</div>
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<p>Questo dato è interessante, poiché mostra il progressivo impoverimento dei salari e rivela l’ampiezza del bacino che potrebbe beneficiare di un&#8217;introduzione del salario minimo. Il messaggio cardine di questa analisi, dunque, è che <strong>in media le imprese italiane pagano salari inferiori</strong> <strong>al minimo ipotizzato</strong>. Quel che resta da capire è se il livello del salario minimo sia troppo elevato o se siano le imprese a pagare, in media, salari troppo bassi. &nbsp;</p>
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<h2 id="h-soprattutto-al-sud-le-imprese-che-dovrebbero-rivedere-i-salari">Soprattutto al Sud le imprese che dovrebbero rivedere i salari</h2>
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<p>Per rispondere è opportuno analizzare l’<strong>eterogeneità dei salari </strong>a livello territoriale e settoriale.</p>
<p>Come abbiamo analizzato in un nostro <a href="https://www.lavoce.info/archives/58183/tante-italie-tanti-salari-minimi/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">precedente articolo</a>, il salario mediano in Italia varia molto da provincia a provincia, anche se la differenza principale rimane quella fra Nord e Sud. Data questa eterogeneità territoriale, le aziende per cui l’introduzione di un minimo nazionale implicherebbe un considerevole aumento retributivo si trovano soprattutto al <strong>Meridione</strong>.</p>
<p>Passiamo ora alle <strong>eterogeneità a livello settoriale</strong>. Il salario medio annuale è chiaramente differente nei vari settori economici. Come mostra la prossima figura, i settori con un salario medio particolarmente basso rispetto al salario minimo sono il commercio al dettaglio e all’ingrosso, le attività immobiliari, i servizi di alloggio e ristorazione, le costruzioni e le attività amministrative e di supporto ai servizi. Sarebbero soprattutto le imprese operanti in questi settori a trovarsi obbligate a fare i conti con un importante aumento del costo del lavoro se venisse introdotto un salario minimo di 9 euro per ogni ora lavorata.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine2.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="607" height="441" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine2.jpg" alt="" class="wp-image-48323" /></a></figure>
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<h2 id="h-quali-aziende-sarebbero-piu-colpite-dall-introduzione-del-salario-minimo">Quali aziende sarebbero più colpite dall’introduzione del salario minimo?</h2>
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<p>Un’ulteriore considerazione riguarda le aziende con potere di mercato nel mondo del lavoro. A livello tecnico, questo concetto è misurabile tramite un parametro chiamato <strong><em>mark-up</em></strong>, che semplicizzando misura la differenza tra quanto un’impresa paga un lavoratore o una lavoratrice e quanto output quest’ultimo/a produce.</p>
<p>Le imprese con maggiore potere sul mercato del lavoro, e quindi che applicano un mark-up più alto, possono permettersi di pagare ai propri dipendenti uno stipendio inferiore al loro livello di produzione. La relazione tra il potere di mercato di queste aziende e la differenza tra il salario medio e minimo è rappresentata nel grafico successivo, in cui si può notare come non vi sia una relazione univoca tra queste due variabili. La cosa che emerge con più chiarezza, invece, è ancora una <strong>forte eterogeneità tra settori</strong>.</p>
<p>In questo grafico, mostriamo il salario medio e il markup delle imprese. La linea verticale divide le imprese in due gruppi: a destra abbiamo le imprese con potere di monopsonio, mentre a sinistra abbiamo quelle senza. La linea orizzontale, invece, divide le imprese in altrettanti gruppi: sopra troviamo le imprese che pagano un salario superiore al minimo, mentre sotto vi sono quelle che pagano salari inferiori.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine3.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="602" height="438" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine3.jpg" alt="" class="wp-image-48324" /></a></figure>
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<p>Secondo queste categorie, l’introduzione del salario minimo colpirebbe solo le imprese nei due quadranti in basso in ogni settore, poiché sarebbero costrette ad aumentare le retribuzioni dei propri lavoratori. Le imprese nei due quadranti superiori, invece, pagano già salari superiori al livello minimo, e per questo non dovrebbero adeguare le retribuzioni. Inoltre, l’effetto sarebbe diverso a seconda del <strong>potere di mercato</strong>: le imprese nel quadrante a destra potrebbero “sopportare” il peso di un aumento salariale, riducendo semplicemente il<em> mark-up</em> corrente; le imprese nel quadrante di sinistra, invece, sarebbero costrette a ridimensionarsi o a uscire dal mercato. I settori maggiormente colpiti, secondo questa analisi, sarebbero dunque quello <strong>immobiliare</strong>, quello delle <strong>attività amministrative</strong>, dei <strong>servizi di ristoro</strong> o dei <strong>trasporti</strong>, cioè dei settori notoriamente a basso valore aggiunto popolati da imprese con bassa produttività, ma con molti lavoratori.</p>
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<h2 id="h-salario-minimo-il-caso-della-germania-e-le-differenze-con-l-italia">Salario minimo, il caso della Germania e le differenze con l’Italia</h2>
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<p>Dunque, che cosa può comportare l’uscita dal mercato o il ridimensionamento delle imprese in questi settori? Nell’articolo precedente abbiamo spiegato come la letteratura economica, in realtà, mostri che <strong>all’introduzione di un pavimento salariale non corrisponda necessariamente una diminuzione dell’occupazione</strong>: in un mercato del lavoro ben funzionante, le risorse liberate dalle imprese che non riescono a sostenere l’aumento di salari possono infatti ricollocarsi in altre aziende più produttive e con stipendi migliori.</p>
<p>Un esempio di questo processo virtuoso è avvenuto in <strong>Germania</strong>. Un recentissimo studio firmato da Dustmann e coautori evidenzia come, a seguito all’introduzione del salario minimo nel 2015, siano <strong>aumentati i salari dei lavoratori pagati meno, l’occupazione sia rimasta uguale </strong>e vi sia stata una <strong>riallocazione</strong> dei lavoratori verso imprese più produttive. Questo genere di riallocazione incide favorevolmente sulla produttività aggregata: se più risorse vanno a imprese che riescono a impiegarle meglio, la produttività aggregata può esserne influenzata solo in positivo, poiché le stesse risorse possono essere utilizzate più efficientemente.</p>
<p>Queste considerazioni sulla riallocazione dei fattori produttivi sono particolarmente rilevanti in <strong>Italia</strong>, che come tanti altri Paesi europei è soggetta a una diminuzione strutturale della riallocazione dei lavoratori. Nel prossimo grafico mostriamo questo evidente calo nel tasso di riallocazione, misurato come <strong>somma del tasso di creazione e distruzione di posti di lavoro</strong>.</p>
<p>Un basso tasso di riallocazione tra Regioni e tra settori può creare della resistenza al circolo virtuoso per cui il salario minimo contribuisce alla crescita della produttività senza intaccare l’occupazione. Affinché la riallocazione funzioni correttamente è necessaria <strong>un’ottima mobilità proprio tra Regioni e settori</strong>, condizione che è possibile verificare solo dopo aver implementato e valutato accuratamente l’effetto del salario minimo.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine4.jpg"><img loading="lazy" decoding="async" width="520" height="378" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/01/Immagine4.jpg" alt="" class="wp-image-48325" /></a></figure>
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<p>Per concludere, il salario minimo può essere uno strumento dalle forti implicazioni sociali, tramite <strong>l’aumento del benessere dei lavoratori a basso reddito</strong>; allo stesso tempo, può favorire un <strong>ambiente più competitivo</strong>, facendo uscire dal mercato le imprese meno produttive. Il messaggio della nostra analisi è che il livello del salario minimo non è l’unico elemento da analizzare prima dell’implementazione di questa politica: è cruciale studiare le inefficienze nel mercato del lavoro (monopsoni) e la propensione alla riallocazione tra settori e Regioni per beneficiare di tutti gli effetti positivi di questo strumento.</p>
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<p><strong><em>Ha collaborato all’articolo:<br />Sergio Inferrera&nbsp;&#8211;&nbsp;</em></strong><em>Laureato presso l&#8217;università Bocconi, ha lavorato in BCE come assistente di ricerca. È consulente di ricerca per CompNet e presso l&#8217;università Bocconi. È inoltre senior fellow di&nbsp;Tortuga&nbsp;tramite il quale pubblica questo contributo.</em></p>
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<p><em>Photo credits: hr-link.it</em></p>


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Non tutte le imprese possono permettersi il salario minimo

In un&#8217;Italia dagli stipendi in calo costante dal 2008, l&#8217;introduzione del salario minimo potrebbe comportare un aumento della produttività, con importanti differenze tra Regioni e settori produttivi. Analizziamo chi ne beneficerebbe e chi no.

Non tutte le imprese possono permettersi il salario minimo - Informazione senza filtro

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<p><strong>Fine lavoro mai</strong>. Più che un presagio una condanna certa per le generazioni più giovani, a leggere l’attualità di queste settimane.</p>



<p>Il Governo Draghi ha di fatto superato la tanto discussa quota 100 attraverso una tappa intermedia, definita <strong>quota 102</strong>, che nel 2022 permetterà a chi ha compiuto 64 anni e maturato almeno 38 anni di contributi di andare in pensione prima rispetto a quanto previsto dalle regole ordinarie, ovvero 67 anni di età e 20 anni di contributi. Dal 2023 si torna invece alla tanto temuta <strong>Fornero</strong>, salvo imprevedibili colpi di scena in grado di sparigliare le carte sui tavoli istituzionali.</p>



<p>Scavalcando la consueta retorica sui vecchi al lavoro e i giovani al palo, siamo davvero sicuri che questa cornice nefasta rispecchi in toto la realtà dei fatti? Se infatti guardiamo alle statistiche sappiamo che <strong>l’Italia</strong>, <strong>partita da un’età effettiva di pensionamento molto bassa </strong>e di certo al di sotto dei colleghi europei, sta recuperando terreno solo negli ultimi anni. Inoltre, a fronte di tutti gli annunci sugli aumenti dell’età pensionabile, ci sono stati nel tempo diversi <strong>interventi di tipo categoriale</strong> a frenare l’ascesa.</p>



<p>Ragion per cui, se del futuro non v’è certezza, possiamo con cognizione di causa affermare che <strong>oggi l’età di uscita dal lavoro si avvicina più ai 62 anni che ai 67</strong>, a maggior ragione (e giustamente) per chi ha speso una vita in fabbrica o in attività di tipo usurante.</p>



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<h2 id="h-operai-in-via-d-estinzione-diminuisce-anche-chi-si-occupa-dei-robot">Operai in via d’estinzione? Diminuisce anche chi si occupa dei robot</h2>



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<p>L’impressione è che, se per molte categorie lo spettro della mancata pensione rappresenta un problema serio per il futuro, per altre la <strong>differenza negativa tra nuovi assunti e usciti</strong> disegna un panorama concreto e già piuttosto attuale. E sono proprio queste, in prospettiva, a destare le maggiori preoccupazioni tra gli addetti ai lavori.</p>



<p>Leggendo i dati ISTAT dell’ultimo triennio sulle professioni, per esempio, emerge un’evidente <strong>spaccatura</strong> tra i giovani che si approcciano al lavoro in ruoli di <strong>manutenzione</strong> o di <strong>operai specializzati</strong> e <strong>i lavoratori esperti</strong> in procinto di lasciare l’azienda per sopraggiunti limiti di età.</p>



<p>A livello generale, per fornire un’immagine chiara del ragionamento, è sufficiente focalizzarsi sulla <strong>qualifica degli operai</strong>. Nel totale delle nuove assunzioni degli ultimi tre anni, appena l’11,4% rappresenta il popolo degli operatori specializzati, con un misero 5% che ha iniziato la propria avventura in azienda insignito del ruolo di conduttore d’impianto. Peccato che nello stesso periodo, sui pensionati registrati, ne sia uscito complessivamente il 25,3%, con un livello di esperienza giocoforza più importante e con un’età variabile dai 55 anni in su. Quindi non tutti ultrasessantenni, a quanto pare.</p>



<p>L’analisi è corroborata dall’elemento sulle <strong>professioni tecniche</strong>, dove rientrano i tanto richiesti <strong>manutentori meccatronici</strong>. In questo caso la percentuale in uscita è del 16,4%, contro il 15,6% in ingresso. Dati non drammatici ma comunque preoccupanti, che di certo non possono essere ricondotti solo alla trasformazione digitale, all’intelligenza artificiale e all’automazione. Perché se il crollo di assunzioni tra gli operai è in questo senso giustificabile, è viceversa innegabile il fatto che senza operatori meccanici, elettrici ed elettronici non è possibile programmare i robot e manutenerli.</p>



<p>Manutentori e conduttori d’impianti sono quindi una categoria a rischio estinzione? Chi può dirlo. Sicuro è che il plotone di meccanici ed elettrici al crepuscolo non troverà ad attenderlo un adeguato ricambio generazionale.</p>



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<h2 id="h-luisa-cazzaro-aidda-ricambio-generazionale-il-sistema-scoppiato-da-anni-serve-un-piano-di-sviluppo">Luisa Cazzaro, AIDDA: “Ricambio generazionale? Il sistema è scoppiato da anni. Serve un piano di sviluppo”</h2>



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<p>“<strong>Il futuro di tutte le figure tecniche è in discussione</strong>, tema fondamentale, ma ancora nessuno ne parla. I nuovi professionisti meccanici ed elettrici, per esempio, sono di fatto mosche bianche. Non è possibile che un Paese come il nostro non riesca a sostenere un cambio della guardia capace quanto meno di garantire continuità.”</p>



<p><strong>Luisa Cazzaro</strong> è presidente dell’Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda (AIDDA) per la delegazione Lombardia, oltre che titolare di Cusa, officine meccaniche di precisione. Anche lei, come tutti i datori di lavoro, è impegnata in prima linea sul tema pensione e sul conseguente ricambio.</p>



<p>“In questi anni <strong>tanti manutentori esperti stanno per andare in pensione</strong>, nella mia come in molte altre realtà di piccola e media impresa. La nostra, per esempio, è una piccola azienda di lavorazioni meccaniche abbastanza sartoriali, con tante richieste particolari e su misura. L’obiettivo è portare a bordo persone esperte oppure formare giovani ragazzi”.</p>



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<p><strong>Q</strong><strong>ual è la difficoltà rispetto alla formazione di figure junior</strong>?</p>



<p>Le scuole, dal mio punto di vista, non sono in sinergia con la realtà di impresa. Quello che manca è un piano di sviluppo di ogni singolo territorio. Purtroppo il sistema è scoppiato da anni. Com’è possibile che la Regione nella quale lavoro, seconda solo alla Germania per le lavorazioni meccaniche, abbia istituti scolastici che prevedono solo quaranta ore di AutoCAD in tre anni? Perché non si riesce a formare gli studenti all’utilizzo delle macchine utensili? Non dico saper effettuare rettifiche, ma una propedeutica sul tornio, la conoscenza del disegno tecnico e degli strumenti di misura mi sembra il minimo.</p>



<p><strong>Però la formazione on the job, dopo un processo di selezione accurato sulle competenze trasversali, può sopperire alla mancanza di preparazione tecnica. Con un attento lavoro preventivo, si possono organizzare affiancamenti strutturati insieme a chi sta per andare in pensione; non è così?</strong></p>



<p>Noi, come tanti altri, abbiamo sempre formato internamente le persone. Capisco che non tutti seguano questa strada, ma bisogna considerare che per le piccole realtà è più difficile rispetto alle grandi aziende. Soprattutto se c’è nebbia totale dal punto di vista delle competenze. Il rischio al quale siamo esposti, spesso, è di un turn over molto alto, che non ci permette di creare professionalità.</p>



<p><strong>Riassumendo, i potenziali nuovi manutentori sono in misura minore rispetto ai colleghi esperti in uscita, e per giunta sono pure meno preparati. Ma mancano le scuole o i ragazzi preferiscono in gran percentuale un percorso universitario?</strong></p>



<p>Ripeto, manca un progetto. Il territorio nazionale è costellato di tante piccole realtà di valore e con una professionalità eufemisticamente diffusa. La geografia delle competenze è parecchio diversificata. Quel che serve è un’ottimizzazione tra quello che propone la scuola e le esigenze delle aziende.</p>



<p><strong>Con gli esperti che preparano i bagagli, destinazione pensione.</strong></p>



<p>Il futuro è l’automazione. Ed è necessaria una forza lavoro con determinate caratteristiche, non necessariamente maschile. Sono dell’idea che le lavoratrici abbiano grandi potenzialità sul fronte meccanico, bisogna dar loro fiducia. Ma se nessuna si approccia a questo mondo è difficile.</p>



<p><strong>Un retaggio culturale difficile da estirpare.</strong></p>



<p>E non è l’unico. La transizione ecologica è all’orizzonte, con il suo carico di cambiamenti sulle professioni. Se i meccanici studiano come sostituire un carburatore, cosa sapranno fare se il carburatore scompare in ottica green?</p>



<p><strong>Un contesto mutevole, anche da un punto di vista geopolitico.</strong></p>



<p>Quello che è successo negli ultimi due anni con la pandemia è significativo. Mi sento di poter affermare che le aziende tenderanno a riportare in Italia alcune lavorazioni, per non incappare più nei disagi legati alla mancanza di materia prima. Come pensiamo di sostenere un’opportunità simile? La meccanica è la base di tutto, ma nessuno sembra essersene reso conto.</p>



<p><a></a><strong>Il dibattito sul mondo del lavoro non è quindi legato solo allo smart working. Un’analisi sulla popolazione in uscita per pensionamento rappresenta una buona occasione per allargare gli orizzonti?</strong></p>



<p>Dobbiamo iniziare a parlare anche di chi presta servizio al tornio. Servono motivazioni e un piano di sviluppo preciso per governare questa situazione, individuando le tempistiche per formare i giovani e le modalità di gestione per sostenere la fase intermedia. Consapevoli che a sessant’anni è più che lecito non vedere l’ora di andare in pensione.</p>



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<p>Impossibile non convenire su quest’ultimo punto. Il lavoro usurante merita un’età di pensionamento dignitosa e in linea con gli sforzi sostenuti. E l’antidoto per un costruttivo ricambio generazionale ha la solita ma non scontata formula: <strong>pianificazione e formazione</strong>.</p>



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<p><em>Photo credits: dazebaonews.it</em></p>


Abbiamo usurato gli operai. Chi fabbrica i nuovi?


<p>Non vedo l&#8217;ora di leggere o sentire i commenti di chi pensa sia inaudito per un poeta parlare di politica. Consiglio subito in premessa, allora, di aprire la pagina Facebook di <strong>Franco Arminio</strong> e di recuperare dai post quanto attivismo dei sentimenti ci sia dentro quello che pensa prima ancora di scriverlo, e quante suggestioni e progetti concreti elargisca a politici e sindaci per rimettere un po&#8217; di ossigeno nelle flebo dei <strong>paesi italiani</strong>. Mentre l’Italia muore da decenni per incuria politica, i tavoli istituzionali si preoccupano di far pressione sui cittadini a colpi inauditi di paura e di emergenza. È poeta, scrittore e regista ma soprattutto si è autodefinito <em>paesologo</em> sdoganando una necessità italiana a cui nessuno aveva pensato.</p>



<p>“Penso a una <strong>guardia medica della poesia</strong> che apre una volta alla settimana in paese. Ogni settimana un poeta diverso. Il poeta sta nella sua stanza e legge i suoi versi o racconta qualcosa a chi va a trovarlo. Ovviamente il poeta fa anche visite domiciliari, va a trovare un malato, passa un poco di tempo con lui. Oppure va a trovare uno scapolo che vive da solo, o un anziano che ha voglia di compagnia. Nei momenti liberi il poeta sta per i fatti suoi, scrive o guarda il paese, lo usa come una cura per i suoi nervi. Un’altra proposta per i sindaci è una piccola <strong>casa della gioia</strong> al centro del paese: la funzione è diffondere buone notizie in luoghi in cui in genere ne circolano solo di cattive. Si prende un giovane attore pieno di entusiasmo e gli si affida questa funzione di accendere un focolaio di buon umore. Nella casa della gioia si porta una crostata, si festeggiano compleanni fuori dal cerchio ristretto dei propri famigliari, si ospitano persone a cui sono accadute cose belle, uno che è guarito da un tumore, uno che ha aperto un negozio che sta andando assai bene. Si canta e si suona, si raccontano storie mirabili. È la casa per combattere la sfiducia, il vittimismo, è un modo per farla finita con gli scoraggiatori militanti.”</p>



<p>Quando ho chiamato Franco Arminio qualche giorno fa per intervistarlo, che fosse il <strong>23 novembre</strong> mi sono accorta solo dopo aver chiuso il telefono mentre scrivevo la data per salvare il file; coincidenze che fanno bene alla scrittura. Il 23 novembre del 1980 spaccò per sempre lui e l’Italia col <strong>terremoto dell&#8217;Irpinia</strong>, che ancora fa tremare per l’ignavia nelle ricostruzioni dei palazzi e delle speranze: sull&#8217;Italia che finora ha tremato, e su quelle che lui chiama &#8220;parole dalle terre mosse&#8221;, un piccolo capolavoro è il suo ultimo libro <em><strong>Lettera a chi non c&#8217;era</strong></em> (Bompiani 2021). </p>



<p>Quella sera Franco Arminio aveva vent’anni e viene da pensare che una parte di lui ne abbia ancora venti se conserva simili energie e dedizioni che destina da anni alla solitudine dello <strong>spopolamento</strong>. Spopolamento figlio di una incuria politica a cui continuiamo a delegare le nostre vite pur sapendo che non le interessa ricostruire i nostri luoghi, le infrastrutture, i collegamenti, gli spazi di aggregazione risucchiati dal digitale, i ponti virtuali grazie a coperture di rete Wi-Fi che possano dare un senso a vite più isolate per scelta o per bisogno. Un&#8217;<strong>incuria della cosa pubblica</strong> che ha compresso da ogni lato le cose private.</p>



<p>“Bisogna occuparsi della <strong>salute emotiva </strong>delle persone, <strong>non basta salvarci dal COVID-19</strong>. Ieri uno ha ucciso suo figlio, oggi un altro ha ammazzato tutta la famiglia. In questi anni ci siamo occupati pochissimo dell&#8217;abisso in cui finiscono tante persone. Una società che pensa solo al PIL è una società profondamente malata. Chi oggi ci racconta che sta facendo di tutto per salvarci dal COVID-19 dovrebbe riconoscere che negli ultimi trent&#8217;anni ha molto indebolito la sanità pubblica e non si è fatto nulla di significativo per la salute mentale. La comunità nei paesi e nelle città ormai è solo una parola, ma i nostri governanti parlano di soldi e nient&#8217;altro.”</p>



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<h2><strong>La Great Resignation all’italiana parla altre geografie</strong></h2>



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<p>Un dato può aiutare a comprendere che non stiamo parlando di un problema di pochi: <strong>il 70% dei paesi italiani ha meno di diecimila abitanti</strong>. Il 70%.&nbsp;</p>



<p>Per decenni ci siamo però dedicati a <strong>costruire la vita e il lavoro degli italiani solo dentro un 30% del Paese</strong>, saturandolo. Noi stessi siamo stati complici del disastro accettando di vivere ammassati e intasati su strade, nei bar e nei ristoranti, sui mezzi pubblici, negli appartamenti in affitto a prezzi folli. Spesso <em>solo</em> per un lavoro. </p>



<p>La pandemia sta rilasciando i primi effetti umani dello scollamento tra ciò che siamo e ciò che facciamo &#8211; col perché in mezzo, finalmente &#8211; e il fenomeno che ancora una volta stiamo importando con gergo americano è <em><strong>Great Resignation</strong></em>, ma noi italiani per una volta dovremmo fare lo sforzo di ritagliarci qualcosa su misura. Se davvero sta iniziando anche da noi a dilagare il bisogno di incentrare la propria vita non più soltanto sul lavoro, o comunque non più soltanto sul <strong>ricatto del lavoro</strong>, serve grande accortezza nel distinguere i contesti.&nbsp;</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/Arminio-tour-Bisaccia_Parlamenti-dellItalia-interna.jpeg"><img width="756" height="426" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/Arminio-tour-Bisaccia_Parlamenti-dellItalia-interna.jpeg" alt="" class="wp-image-47231" /></a><figcaption>Franco Arminio a Bisaccia il 7 novembre scorso durante la giornata dedicata ai &#8220;Parlamenti dell&#8217;Italia interna&#8221;</figcaption></figure></div>



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<p>Grazie alla <strong>Casa della Paesologia</strong> fondata a <strong>Bisaccia</strong>, in Irpinia, da Franco Arminio &#8211; alla presidenza Grazia Coppola &#8211; è possibile intercettare storie professionali e di vita che non guadagnano mai le pagine dei giornali: alcune sere fa ho partecipato alla prima riunione operativa per strutturare attività e progetti, eravamo collegati online, quasi un centinaio di persone che hanno aperto una telecamera dal proprio paese più o meno grande, più o meno spopolato lungo la penisola. </p>



<p>Mi ha colpito l’intervento di una ragazza che vive in periferia a Milano; ha spiegato che l’abbandono non è riconducibile solo alle poche case di una realtà di montagna o di qualche località appenninica. “Anche ai <strong>milioni di persone che vivono in periferia </strong>come me non pensa nessuno, e qui lo spopolamento è un concetto ancora più grave, quasi più serio&#8221;. </p>



<p>Oppure chi, durante il collegamento online, ha ribadito la totale assenza di reti sociali quando si decide di tornare a vivere nei luoghi di origine dopo dieci o vent’anni trascorsi fuori per lavoro: la pandemia sta rimettendo sul piatto della bilancia anche riconversioni come questa, soprattutto da Nord verso Sud, e che sarebbe impellente tramite la Casa della Paesologia occuparsi anche di <strong>chi torna a casa propria</strong>, facendosi carico di solitudini individuali per superare quella collettiva.</p>



<p><strong>Nicola De Lillo</strong> invece è originario di <strong>Senise</strong>, in provincia di Potenza, Basilicata. Lo scorso anno, all’alba del primo lockdown, è rientrato con convinzione dall’Università di Glasgow, dove lavorava come <strong>dottorando in Astrofisica e onde gravitazionali</strong> all’Institute for Gravitational Research; Nicola continua a fare il suo lavoro da Senise e fa sempre parte della rete di collaborazione scientifica di LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory, un osservatorio nato per il rilevamento di onde gravitazionali). Ha 29 anni sulla carta ma la stoffa di un uomo già centrato: sognava fin da bambino di occuparsi di stelle e di cieli e c’è riuscito grazie ai sacrifici suoi e dei genitori che, spiazzati, se lo sono visto tornare in quel Sud da cui tutti una volta volevano scappare per vivere meglio. Mi racconta in privato del <strong>burnout </strong>dilagante tra i suoi colleghi e del suo desiderio di impostare sé stesso e la sua vita su contesti più umani e più densi, sfruttare la digitalizzazione per lavorare da dove sceglie, riallacciare relazioni vive. </p>



<p>Chi volesse sostenere la Casa della Paesologia può farlo associandosi <a href="https://casadellapaesologia.org/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">qui</a> con una quota di 30 euro annuali.</p>



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<h2 id="h-la-lettera-di-franco-arminio-ai-ricchi-che-per-parla-a-tutti"><strong>La lettera di Franco Arminio ai ricchi che però parla a tutti</strong></h2>



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<p>&#8220;<strong>Cari ricchi</strong>, il mondo sta finendo o è già finito non per colpa dell&#8217;uomo in generale ma per colpa vostra. Ora avete abilmente nascosto le vostre colpe al punto che <strong>i poveri votano per voi</strong>. Avete portato i poveri a pensare che il loro nemico è quello più povero di loro. Una volta in Occidente, e specialmente in Italia, c&#8217;erano partiti, persone, sindacati, c&#8217;erano tanti occhi che guardavano i vostri imbrogli e lo denunciavano. Ma da un certo punto in poi, più o meno dai tempi di Tony Blair, avete vinto, non avete più trovato resistenze perché avete convinto quasi tutti che le ingiustizie sociali sono un problema trascurabile, <strong>il cuore di tutto è la crescita più che il dolore</strong>. Siete stati bravi, avete condotto la vostra lotta di classe e l&#8217;avete vinta con l&#8217;appoggio di chi vi dovrebbe combattere”. </p>



<p>La lettera che Franco Arminio ha pubblicato alcuni giorni fa prosegue e non fa sconti. Cerco un commento con lui che possa tracciare il perché del suo sfogo. “Ho provato un grande sollievo nello scriverla, si prova sempre conforto quando si dà forma a un pensiero con le parole giuste. Nessuno parla più del malessere, del dolore, della solitudine e tanto meno della morte; <strong>se non c’è di mezzo un valore economico sembra che non esista più nulla</strong>. Ci siamo assuefatti al quanto, il chi e il come non interessano. Abbiamo bisogno di più conforto ben consapevoli che non può arrivare dai soldi. Il benessere è un’altra cosa”.</p>



<p>“E poi ci siamo abituati all’idea che ogni giornata chissà cosa vorremmo che accadesse, perché gli stimoli sono continui, ma poi non riusciamo più nemmeno ad ascoltarci l’uno con l’altro perché soprattutto dai social mandiamo tutti costantemente un segnale. La ricezione è piena di interferenze in simultanea, ognuno pensa al proprio segnale, al messaggio che sta postando. Il risultato è un effetto di <strong>immobilità generale</strong>, è un galoppo continuo di un cavallo che non si muove.”</p>



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Franco Arminio: “L&#8217;Italia muore da tempo di abbandono e pochi desideri. Non c’è solo il COVID-19”

<p>In Italia si torna periodicamente a discutere dell’introduzione di un <strong>minimo salariale</strong>: di recente il dibattito è stato riacceso dal presidente dell’INPS <strong>Tridico</strong> e dai segretari di partito <strong>Conte</strong> e <strong>Letta</strong>.</p>
<p>Al dibattito politico si affianca un vivace dibattito accademico, che quest’anno ha richiamato l’attenzione del <strong>premio Nobel per l’economia</strong>. <strong>David</strong> <strong>Card</strong>, infatti, è stato premiato per i suoi contributi empirici all’economia del lavoro, fra cui uno studio sugli effetti dell’innalzamento del minimo salariale in New Jersey.</p>
<p>Queste ricerche tentano di identificare gli <strong>effetti del salario minimo</strong> e sono una vera e propria “rivoluzione della credibilità”: attraverso una migliore struttura delle ricerche e ipotesi più solide, questi studi hanno ottenuto una maggiore credibilità in ambito accademico e nel <em>policy making</em>.</p>
<p>I risultati sono sorprendentemente in contrasto con la teoria tradizionale che il minimo salariale comporti costi maggiori per le imprese, e quindi minori assunzioni. Al contrario, la sua introduzione potrebbe portare a un aumento dei salari <strong>senza un significativo costo in termini occupazionali</strong>.</p>
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<h2 id="h-salario-minimo-favorevoli-o-contrari">Salario minimo, favorevoli o contrari?</h2>
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<p>Quali sono le <strong>motivazioni</strong> dei sostenitori, e quali quelle dei detrattori del salario minimo?</p>
<p>Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da alcune <strong>categorie più svantaggiate</strong> – donne, giovani e immigrati – che storicamente si è cercato di tutelare attraverso l’elevata copertura della <strong>contrattazione collettiva</strong>. Da un punto di vista economico, il salario minimo legale e il minimo retributivo fissato da un contratto collettivo sono equivalenti.</p>
<p>Tuttavia negli ultimi anni sono proliferati i contratti “pirata” (contratti firmati da sindacati poco rappresentativi), le imprese hanno talvolta applicato accordi a loro più vantaggiosi, e alcuni rapporti di lavoro dipendente sono stati trasformati in falsi autonomi. Dunque, <strong>alcuni lavoratori e lavoratrici non trovano tutela nei contratti collettivi</strong>.</p>
<p>A loro volta le parti sindacali e datoriali hanno espresso alcune criticità rispetto alle diverse proposte di salario minimo legale, temendo un ulteriore indebolimento della contrattazione collettiva con la <strong>fuoriuscita di molte imprese</strong>, soprattutto piccole e micro, attratte da un minimo legale inferiore a quello dei contratti collettivi. Come se questi due strumenti fossero alternativi e non complementari. </p>
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<h2 id="h-altro-che-ridurre-i-posti-di-lavoro-il-salario-minimo-li-trasforma-in-meglio">Altro che ridurre i posti di lavoro: il salario minimo li trasforma in meglio</h2>
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<p>Il salario minimo si propone come una misura di<strong> contrasto alla povertà</strong> rivolta ai lavoratori e alle lavoratrici che non ricevono un’adeguata remunerazione. Tuttavia, potrebbe avere l’effetto collaterale di <strong>aumentare il costo del lavoro </strong>per le imprese, <strong>riducendo quindi l’occupazione</strong>.</p>
<p>La letteratura economica si è concentrata a studiarne le conseguenze in termini di occupazione sui lavoratori e le lavoratrici a basso reddito, per capire se e quanto ne possano beneficiare. Tuttavia, è bene evidenziare che le finalità redistributive non sono l’obiettivo primario del salario minimo, che esclude chi non lavora.</p>
<p>Mentre prima degli anni Novanta gli studi empirici sembravano confermare la tesi dei classici modelli economici, secondo cui un innalzamento del salario minimo determina una decrescita dell’occupazione, con l’introduzione di <strong>metodi causali</strong> da parte di Card e altri economisti <strong>l’opinione è radicalmente cambiata</strong>.&nbsp;</p>
<p>Anche gli studi più recenti non evidenziano un impatto significativo sull’occupazione. Focalizzandosi sempre sugli Stati Uniti, un gruppo di ricercatori mostra come la <strong>distribuzione dei salari</strong> è cambiata a seguito dell’introduzione del salario minimo. In particolare, i ricercatori hanno evidenziato come i posti di lavoro al di sotto della soglia minima sono diminuiti, mentre sono aumentati quelli al di sopra di questa soglia, compensando del tutto la prima perdita. Sembrerebbe dunque che non siano stati “distrutti”, ma <strong>trasformati in posti di lavoro migliori</strong>.</p>
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<h2 id="h-il-salario-minimo-salutare-che-cosa-dicono-gli-studi">Il salario minimo è salutare: che cosa dicono gli studi</h2>
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<p>È interessante comprendere le motivazioni di tale dinamica. In primo luogo, le imprese potrebbero coprire questo costo aggiuntivo con un <strong>parziale aumento dei prezzi</strong>, senza subire una risposta negativa da parte della domanda: di fatto è una redistribuzione dall’intera comunità – che vedrebbe i prezzi rialzati – ai lavoratori e alle lavoratrici a basso reddito, che godrebbero di maggiori salari.&nbsp;</p>
<p>Un’altra spiegazione teorica è quella relativa al <strong>monopsonio</strong>: le imprese godono di sufficiente potere nei confronti dei lavoratori da poter pagare loro salari inferiori. Le imprese, quindi, scelgono di massimizzare i loro profitti riducendo i salari, al costo di limitare l’occupazione e quindi la quantità di beni o servizi prodotti. In questo caso, un salario minimo avrebbe un effetto positivo sull’occupazione: le imprese non avrebbero più l’incentivo di limitare la domanda di lavoro, poiché così facendo incorrerebbero solo in costi (minore produzione) e non in benefici (il salario è fissato al minimo).</p>
<p>Infine, è anche da considerarsi l’impatto benefico della politica sulla <strong>produttività</strong>: la letteratura ha infatti dimostrato come ci sia un effetto positivo su questa variabile economica, anche in seguito a una riallocazione dei lavoratori e delle lavoratrici verso le imprese più produttive.</p>
<p>Infine, la letteratura ha mostrato effetti positivi anche sulla <strong>salute dei bambini</strong> o il <strong>tasso di suicidi</strong>. </p>
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<h2 id="h-il-salario-minimo-nel-resto-d-europa">Il salario minimo nel resto d’Europa </h2>
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<p>Il tema del minimo retributivo è al centro del dibattito anche nelle istituzioni europee. A fine 2020 la Commissione Europea ha promosso una <a href="https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0682&amp;from=EN" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">proposta di direttiva</a> per un salario minimo adeguato. L’obiettivo è quello di assicurare che i minimi retributivi – fissati attraverso la contrattazione collettiva e/o per legge – garantiscano un <strong>tenore di vita dignitoso</strong> a tutti i lavoratori e lavoratrici, nel rispetto dell’autonomia degli Stati membri in materia salariale. </p>
<p><strong>L’Italia</strong> è uno dei sei Paesi europei che non prevedono un salario minimo legale universale, insieme a <strong>Svezia</strong>, Danimarca, <strong>Finlandia</strong>, Austria e <strong>Cipro</strong>.</p>
<p>La <strong>Germania</strong> lo ha adottato per ultima nel <strong>2015</strong>: analizzarne gli effetti sul mercato del lavoro tedesco rappresenta un’utile occasione di riflessione per il dibattito italiano. Il salario minimo è stato introdotto in risposta alla diminuzione della copertura della contrattazione collettiva (pari al 56% del 2015) e all’aumento del numero di lavoratori e lavoratrici a basso salario, trovando anche il sostegno dei sindacati. Il <strong>valore</strong> del salario minimo viene <strong>rinegoziato ogni due anni</strong> da un’apposita commissione, sul modello della Low Pay Commission inglese introdotta nel 1999, ed è pari a <strong>9,50 € </strong>all’ora a gennaio 2021. La misura ha toccato circa 4 milioni di persone, pari al 10-15% dei lavoratori a seconda delle stime, che guadagnavano meno del livello previsto prima della riforma.&nbsp;</p>
<p>Le <a href="https://www.francoangeli.it/Riviste/Scheda_Rivista.aspx?idArticolo=66715" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">analisi empiriche</a> condotte finora mostrano un <strong>aumento significativo dei salari orari</strong> dei lavoratori a basso salario e un incremento più limitato di quelli mensili a causa della concomitante <strong>riduzione delle ore di lavoro</strong>, operata anche attraverso i contratti collettivi. La riforma ha avuto complessivamente un <strong>effetto quasi nullo sull’occupazione</strong>, e secondo alcuni economisti ha incentivato i lavoratori e le lavoratrici a muoversi verso imprese più produttive, con salari più elevati. Inoltre, il salario minimo legale non si è sostituito alla contrattazione collettiva, né la ha indebolita, poiché ne hanno beneficiato soprattutto i lavoratori e le lavoratrici non coperti dai contratti collettivi.</p>
<p>Nel complesso <strong>l’esperienza tedesca risulta positiva</strong>, e molte delle storiche obiezioni al salario minimo non trovano riscontro nelle evidenze. Il contesto italiano è molto simile a quello che ha portato la Germania a introdurre il minimo legale, con un numero sempre maggiore di lavoratori e lavoratrici non tutelati dalla contrattazione collettiva. Tener conto dei punti di forza e dei limiti della riforma tedesca, come la <strong>difficoltà a garantire l’effettivo rispetto</strong> del minimo legale, è utile per disegnare una misura efficace anche in Italia. &nbsp;</p>
<p>Come evidenziato da Boeri, i veri interrogativi non riguardano l’introduzione di un salario minimo, ma il <strong>livello a cui viene fissato</strong> e le <strong>misure di effettiva applicazione</strong>. Riteniamo che i benefici di un salario minimo in Italia superino i costi, purché la misura sia disegnata tenendo in considerazione le evidenze empiriche degli altri Paesi.</p>
<p>La discussione dovrebbe ora iniziare a incentrarsi su altri aspetti, a partire da eventuali differenze regionali nello strumento, o sull’eventualità di declinarlo diversamente in base alle caratteristiche demografiche del lavoratore.</p>
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<hr class="wp-block-separator has-text-color has-background has-black-background-color has-black-color is-style-wide" />
<p><em>Ha collaborato all’articolo: </em></p>
<p><em><strong>Sara Rabino</strong> &#8211; Nata a Torino nel 1996 e cresciuta ad Asti. Ha conseguito sia la laurea triennale che quella magistrale all’Università Bocconi, con uno scambio all’University College of London. Dopo un periodo di ricerca al centro di ricerca IGIER (Milano) e al CNRS (Parigi) in economia del lavoro e economia della salute, ha iniziato un PhD in Economics all&#8217;Università di Zurigo. Senior fellow del think-tank <a href="https://www.tortuga-econ.it/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Tortuga</a>, tramite il quale pubblica questo contributo.</em></p>
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<p><em>Photo by unternehmer.de</em></p>


Dignità del lavoro: salario minimo comune denominatore

Una certa letteratura economica collegava l&#8217;adozione del salario minimo a un calo dei posti di lavoro, ma studi più recenti, compresi quelli del premio Nobel per l&#8217;economia David Card, testimoniano che non è così. Ecco i motivi.

Dignità del lavoro: salario minimo comune denominatore - Informazione senza filtro

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