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Bepi è partito la settimana scorsa. El xe pàrtio, si direbbe da queste parti, e impiegherà sette anni per raggiungere Mercurio sorvolandolo in orbita per svelarci dettagli ancora ignoti sul bollente pianeta più vicino al sole. Perché ESA (l’Ente Spaziale Europeo) e JAXA (l’Agenzia Spaziale Giapponese) hanno scelto di dare un nome padovano come Bepi, […]
Bepi è partito la settimana scorsa.
El xe pàrtio, si direbbe da queste parti, e impiegherà sette anni per raggiungere Mercurio sorvolandolo in orbita per svelarci dettagli ancora ignoti sul bollente pianeta più vicino al sole.
Perché ESA (l’Ente Spaziale Europeo) e JAXA (l’Agenzia Spaziale Giapponese) hanno scelto di dare un nome padovano come Bepi, Bepi Colombo per completezza, a un’innovativa missione congiunta di esplorazione spaziale del valore economico di oltre un miliardo di euro, scientificamente inestimabile, che ha richiesto quasi vent’anni di preparazione per affrontare sfide tecnologiche straordinariamente complesse e inedite? Come mai la comunità scientifica internazionale tiene in così grande considerazione qualcuno che per molti di noi e per l’opinione pubblica locale e italiana è pressoché sconosciuto?
Giuseppe Colombo, per tutti Bepi, è scomparso poco più di trent’anni fa, lasciando la memoria di uno scienziato di vastissimi interessi e competenze: come definire altrimenti un docente universitario di fisica, matematica, astronomia e ingegneria? In ogni ambito di cui si è occupato ha segnato rivoluzioni in termini di idee, soluzioni geniali e approcci innovativi. Lo testimoniano i riconoscimenti (dalla medaglia d’oro della NASA per i suoi contributi all’esplorazione spaziale, all’intitolazione di scoperte astronomiche) e la sua immensa eredità scientifica.
Quello che fatichiamo a percepire realmente però, è quanto la sua umanità e il suo essere uno scienziato e un accademico dell’Università di Padova abbiano caratterizzato il suo percorso e la sua attività.
Un problema, quello della scarsa corrispondenza tra valore e risonanza globale della ricerca e degli insegnamenti che si svolgono nell’Ateneo di Padova e la percezione da parte dell’“uomo della strada”, che riguarda anche altri aspetti della città di Padova e del suo rapporto con l’università.
Nel 2022 l’Università di Padova compirà 800 anni, facendone una delle tre università più antiche al mondo continuativamente in attività insieme a Bologna e Oxford. Otto secoli di costante impulso alla ricerca costellati di momenti e scoperte scientifiche che hanno realmente cambiato il cammino dell’uomo.
Basti pensare a Galileo Galilei, che definì come i migliori della propria vita gli anni trascorsi insegnando e sperimentando a Padova, dove mise a punto il cannocchiale e il suo utilizzo per osservare i corpi celesti. Oppure alla creazione del primo giardino botanico al mondo tuttora esistente (recentemente ampliato e rinnovato), annoverato tra i patrimoni dell’umanità dall’UNESCO.
La sede storica dell’Università di Padova, “il Bò”, come viene tuttora chiamato il palazzo che ha sostituito una locanda la cui insegna raffigurava un bue e a cui si deve il pittoresco nome, conserva in perfette condizioni sia la cattedra utilizzata da Galileo che il primo teatro anatomico mai concepito e costruito, dove si sono gettate le basi della moderna medicina e patologia. Un percorso che ha portato a traguardi come, tra gli altri, il primo trapianto di cuore avvenuto in Italia e il nuovo museo della medicina.
Visitare questi cimeli non significa solo toccare letteralmente con mano la nascita del metodo scientifico e la capacità di osservare l’universo e i suoi fenomeni, ma immergersi anche negli aspetti umani e umanistici di una struttura che, fin dal suo motto Universa Universis Patavina Libertas, è sempre stata motore e garanzia di quella libertà universale di perseguimento della conoscenza che ha attirato studenti e docenti provenienti da tutto il mondo, creando per e tramite loro e un perimetro in cui il sapere e la ricerca sono sempre stati centrali; dove la diversità ha sempre rappresentato un valore, invece che un limite.
Ne sono testimonianza, ad esempio, gli innumerevoli simboli araldici lasciati come decorazione del cortile antico del Bo’ sin dal medioevo dagli studenti e dagli insegnanti che già allora lo studio universitario padovano attirava da tutto il mondo conosciuto. E poi la laurea in filosofia conferita a Elena Lucrezia Cornaro Piscopia nel 1678, che ne fece la prima donna laureata al mondo, secoli prima dei movimenti di emancipazione femminile.
Ai molti che prendono in considerazione Padova e il suo territorio solo quando vedono il nome dell’università, delle sue facoltà e dipartimenti nelle classifiche di eccellenza nazionali e mondiali, al vertice delle quali peraltro l’ateneo appare con regolarità, probabilmente sfuggono questi e molti altri aspetti del patrimonio culturale di Padova. È quindi comprensibile interrogarsi sui motivi di questo profilo non particolarmente visibile della città e delle sue ricchezze culturali, architettoniche e artistiche.
Non è questa la sede per analizzare i motivi sociali, storici, economici e politici che rendono Padova e i padovani scarsamente inclini a farsi conoscere e riconoscere. Quello che però colpisce chi, come me, vede il mondo attraverso le proprie esperienze aziendali e professionali e i processi strutturati di vendita e marketing, è l’incredibile ampiezza e varietà delle belle storie che un’università, i suoi circa 60.000 studenti e un territorio tutto sommato limitato danno l’opportunità di raccontare e promuovere.
Forse anche a questa esigenza di far conoscere il suo contesto d’origine deve aver pensato Bepi Colombo, quando suggerì di chiamare “Giotto” la prima sonda umana mandata a intercettare una cometa, oltre ovviamente a partecipare in maniera sostanziale al progetto. La cometa in questione era quella di Halley, che tutti conosciamo come “stella cometa”, non a caso raffigurata proprio nella scena dell’Adorazione dei Magi da Giotto in un altro fragile e sbalorditivo tesoro nascosto di Padova: la Cappella degli Scrovegni, che ospita uno dei più rilevanti tra i cicli di affreschi dipinti da Giotto e dalla sua scuola.
Dovremmo insomma ricordarci di contare sulla solidità della nostra storia e dei traguardi raggiunti, rendendoli il combustibile per far conoscere la nostra capacità e volontà di continuare a inseguire le stelle.
Intanto buon viaggio, Bepi.
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