Oggi Sono convinto che i Grandi Eventi, tipo Olimpiadi o Expo, finiscano comunque per tradursi in una chiavica per i territori prescelti e i loro cittadini, con l’eccezione dei costruttori e degli sponsor. Sono stato influenzato da una consolidata diffidenza professionale per le esagerazioni retoriche dello storytelling (per chi fa il mio lavoro, quello del […]
Milano ieri, oggi e l’altro ieri
Oggi Sono convinto che i Grandi Eventi, tipo Olimpiadi o Expo, finiscano comunque per tradursi in una chiavica per i territori prescelti e i loro cittadini, con l’eccezione dei costruttori e degli sponsor. Sono stato influenzato da una consolidata diffidenza professionale per le esagerazioni retoriche dello storytelling (per chi fa il mio lavoro, quello del […]
Oggi
Sono convinto che i Grandi Eventi, tipo Olimpiadi o Expo, finiscano comunque per tradursi in una chiavica per i territori prescelti e i loro cittadini, con l’eccezione dei costruttori e degli sponsor. Sono stato influenzato da una consolidata diffidenza professionale per le esagerazioni retoriche dello storytelling (per chi fa il mio lavoro, quello del relatore pubblico, consiglio caldamente la lettura del pamphlet On Bullshit del filosofo di Princeton Harry G. Frankfurt), ma anche persuaso dai risultati scientifici di diverse ricerche dei miei più bravi studenti adulti post graduate da tutto il mondo, che fra il 2006 e il 2010 hanno frequentato il corso di Global Multicultural Communication della NYU.
Questa la ragione che mi tenne critico, freddo e lontano dall’inarrestabile ondata di elogi, sostegni e supporti prima, durante e dopo l’Expo milanese del 2015. Al contrario: mi riconoscevo invece caldo e consenziente per la decisione della Raggi di rinunciare alle Olimpiadi romane.
Almeno il primo fu un errore. L’Expo milanese è stata una straordinaria eccezione, e ancora oggi ne vediamo i benefici. Col senno di poi riconosco non solo che Expo è stato un vigoroso soffio di vitalità per tutto il Paese e ha consentito a decine di migliaia di persone e organizzazioni private, pubbliche e sociali, di essere esposte a culture e narrazioni “diverse”, ma soprattutto ha permesso di proporsi a queste culture con argomentazioni ed espressioni a loro volta differenziate: un’orgia di comunicazione allegra, vivace, propositiva. Oggi piuttosto c’è da chiedersi se Milano ha solo saputo invertire una tendenza esistente alla depressione sociale, in un Paese poi travolto dall’onda Casalino–Morisi di risentimento, odio e maldicenza.
In effetti riconosco che le aspirazioni e le ambizioni persistenti dell’internazionalità di Milano e di molti suoi cittadini costituiscono oggi il solo raggio di luce di un’Italia piegata in due, con una capitale moritura e quattro corpi diplomatici assediati da rifiuti, buche e malgoverno. Ed è il momento di reagire: come scriveva quel geniale simil-Banksy – copywriter milanese ignoto degli anni Settanta sui muri di viale Argonne – fascisti porci, domani prosciutti. O, parafrasando Primo Levi: se non ora, quando?
L’altro ieri
La mia prima auto: lo storico modello Fiat 500, colore blu scuro. Giravo soprattutto fra Piazzale Susa (ufficio – via Gozzi1) e casa in via Aselli, fra Città Studi e Chiesa Nuova. Tornavo ogni giorno a casa a mezzogiorno per cambiarmi la camicia, che in poche ore si sporcava di smog. Ogni tanto, con la scarsa visibilità, mi schiantavo anche contro il muro. Questa era la Milano dei primi anni Sessanta del secolo scorso. Erano gli anni del miracolo, dei migranti dal Centro-Sud, del primo centrosinistra.
Avevo visitato per qualche giorno Ivrea, a pochi mesi dalla morte di Adriano Olivetti, per valutare l’ipotesi di viverci come redattore di Notizie Olivetti su invito del direttore di allora, lo scrittore Libero Bigiaretti. Avevo constatato che erano più le librerie dei caffè. Poi, su consiglio di Silvana Ottieri, moglie di Ottiero e factotum della Bompiani, avevo preferito spostarmi su Milano come addetto stampa della 3M Italia, guidata dal suo amico Piero Stucchi Prinetti.
Arrivò presto a pulire l’aria Aldo Aniasi, il sindaco socialista, e questo addetto stampa della 3M circolava tranquillo e felice per le redazioni di Milano. Il telefono c’era già, ma preferivo la relazione diretta e personale e i miei interlocutori giornalisti mi ricevevano volentieri in redazione: da Lamberto Sechi a Giorgio Bocca, da Indro Montanelli a Livio Zanetti, da Eugenio Scalfari a Piero Ottone. Esibivo la mia merce (informazioni, argomenti, applicazioni di prodotti, storie di innovazione, logiche di multinazionali), consapevole di essere apprezzato, anche grazie alla mia padronanza dell’inglese, francese e un p’’ di tedesco (nessun merito mio: madre angloirlandese, tata francese, collegio a Zug e padre italiano).
Avevo 21 anni, venivo da Roma, masterizzato in relazioni pubbliche alla Luiss (quando era Opus Dei con Padre Morlion, prima di Confindustria), un po’ di pratica giornalistica con didascalie cinematografiche al settimanale Rotosei di Ettore della Giovanna e Manlio Maradei, e un vero lavoro di ufficio da redattore in house a Roma del giornale aziendale Stanic (50%Esso e 50%Eni) con raffinerie a Bari e Livorno.
La fortuna volle che nel 1964 la 3M decidesse di fare in Italia il maggiore investimento della sua già lunga storia, acquistando dalla famiglia Agnelli la Ferrania con 5000 dipendenti (pellicole per fotoamatori, cinema professionale e radiografie per gli ospedali), e diventasse di colpo la maggiore multinazionale non petrolifera in Italia. Grazie al mio inglese (oggi per fortuna una commodity) fui accolto con favore dagli americani e, sostenuto da Piero Stucchi, per ben sette anni accompagnai le diversificate attività del gruppo in Italia e anche la sua crescita. Partecipai attivamente – malgrado l’anatema pubblico reazionario di quel Costa, presidente di Confindustria – al negoziato con la coppia Giolitti Ruffolo al bilancio del primo centrosinistra sulla contrattazione programmata, che portò la 3M a investire per la costruzione e l’avviamento dello stabilimento di poliestere a Caserta.
Insomma, come dire, davvero una botta di culo impressionante. Che ovviamente mi portò ad adorare la mia città e crescervi tre figli.
Pochi giorni fa
Mentre Piero Bassetti presenziava la presentazione di un libro dedicato ai suoi straordinari 90 anni, pur visibilmente imbarazzato dalle parole di Carlo Sangalli (vecchio arnese appena reduce della storiaccia me-too, ma sempre in sella), pensavo alla Milano di Piero, alla crescita della città accompagnata dal contributo di passione e di impegno di Gepi Torrani, fondatore dell’Associazione Interessi Metropolitani, oggi ancora attivo e presidente dell’AIRC. Pensavo allo straordinario e imprevedibile elogio che solo poche ore prima in Fondazione Feltrinelli (dove si tocca ancora con mano l’entusiasmo di Inge), il filosofo/sociologo Manuel Castells aveva fatto di Guido Martinotti, il più importante sociologo urbano degli ultimi 50 anni, morto nel 2012, da noi pressoché sconosciuto.
Ecco: questa di Bassetti, di Stucchi Prinetti, di Martinotti, della sempre attiva e bellissima Eva Cantarella, e di Inge, è la Milano che riconosco come casa. La città dove crescono i miei cinque nipoti.
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Bepi è partito la settimana scorsa. El xe pàrtio, si direbbe da queste parti, e impiegherà sette anni per raggiungere Mercurio sorvolandolo in orbita per svelarci dettagli ancora ignoti sul bollente pianeta più vicino al sole. Perché ESA (l’Ente Spaziale Europeo) e JAXA (l’Agenzia Spaziale Giapponese) hanno scelto di dare un nome padovano come Bepi, […]