Il 70% dei paesi italiani ha meno di diecimila abitanti, ma l’Italia è tarata sui bisogni del restante 30%. Le nuove geografie del lavoro e delle relazioni tratteggiate dal poeta Franco Arminio, fondatore della Casa della Paesologia.
Mondiale mancato. Italia anno uno
Ripensando a quell’ormai nota notte di metà novembre, a un anno di distanza, viene da chiedersi se in fondo non sia stato meglio così. Uscire dal Mondiale; mettere un punto su un ciclo del nostro calcio che ha portato due Mondiali disastrosi, quello del 2010 e quello del 2014, con l’illusione di un Europeo, quello […]
Ripensando a quell’ormai nota notte di metà novembre, a un anno di distanza, viene da chiedersi se in fondo non sia stato meglio così. Uscire dal Mondiale; mettere un punto su un ciclo del nostro calcio che ha portato due Mondiali disastrosi, quello del 2010 e quello del 2014, con l’illusione di un Europeo, quello del 2016, i cui buoni risultati sono stati più frutto della grinta di Antonio Conte e dello spirito di squadra che non di una visione in prospettiva.
Tutta colpa (o merito) della Svezia
Già, la prospettiva: per noi italiani del calcio non è mai stata una priorità, quella di pianificare. Ha sempre comandato il risultato.
Eppure è grazie a quella visione che sono stati vinti i titoli del ’34 e del ’38, figli inevitabilmente anche di altre circostanze che chiameremo eufemisticamente “politiche”, e soprattutto quello del 1982. Il gruppo di Bearzot in Spagna era lo stesso che quattro anni prima aveva ben figurato in Argentina, nel terribile Mondiale dei desaparecidos, quello che si giocava negli stadi dove venivano imprigionati i dissidenti. Fa eccezione il solo Mondiale del 2006. Non perché campioni come Cannavaro, Totti, Nesta, Del Piero e Gattuso non siano cresciuti assieme, ma perché quella vittoria fu il frutto di una grande reazione a uno dei più importanti terremoti della storia del calcio italiano: lo scandalo di Calciopoli.
È stato in quel momento, forse, che abbiamo pensato di essere più forti di qualsiasi circostanza, anche della mancanza di programmazione e progettazione. Abbiamo pensato che bastava essere italiani per reagire alle difficoltà e mettere in difficoltà chiunque. Così non è stato, e a poco sono servite le figuracce dei campionati mondiali del Sudafrica e del Brasile. Eliminati al primo turno, in entrambi i casi. Avevamo bisogno di una scossa ancora più grande, e così il 13 novembre del 2017 a Milano è arrivata la Svezia – una squadra tutt’altro che scarsa, sia messo agli atti – e la prima eliminazione dal Mondiale dal 1958.
La caduta e la ripartenza dopo il Mondiale mancato
A quella partita ci siamo arrivati con una situazione ambientale già ampiamente compromessa; con un allenatore destituito dal gruppo e non appoggiato dai vertici federali, se non attraverso parole di circostanza. Un leader mai veramente tale (neanche lontanamente), che solo un anno dopo è stato scaricato, con parole molto più pesanti e ancora meno di circostanza, dal capitano del Chievo, nel frattempo sua nuova squadra, che sul suo profilo Instagram ha parlato così di Ventura: “È come se avessimo perso un mese di lavoro. Se vieni qua sai che sei ultimo in classifica e sai che c’è da lottare fino alla fine. Dal primo momento che è arrivato se ne voleva già andare”. Rimarrà indelebile la scena ripresa in mondovisione di un campione del mondo, De Rossi, che si rifiuta di entrare in campo perché “mica dobbiamo pareggiare, dobbiamo vincere, cosa entro a fare?”.
Ci sono voluti un po’ di mesi per ripartire. Scaricare tutte le colpe sulle spalle dell’allenatore non è giusto e neanche serio, proprio perché in un progetto serio e a lungo termine Ventura sarebbe stato anche l’uomo giusto, ma per l’Under 21. Lui che ha sempre lavorato bene con i giovani. Lui che non ha il pedigree per parlare da pari a pari con giocatori che hanno giocato a livelli internazionali – nel calcio questa cosa conta eccome, o hai un’esperienza di rilievo o te la giochi con una leadership e una preparazione manageriale – ma con ragazzi di prospettiva sì.
Azzerati i vertici federali, l’Italia è ripartita da Roberto Mancini, forse il miglior allenatore possibile per l’anno zero del nostro calcio. Ex campione che parla la lingua dei campioni, ottimo gestore di giovani talenti (anche problematici, come Balotelli), perché lui lo è stato (sì, anche problematico), profilo internazionale. In Nazionale, da giocatore, non ha mai inciso davvero; motivo per cui è motivatissimo a farlo da allenatore. Gli esempi che Mancini ha voluto seguire sono quelli della Germania e della Francia, ovvero due nazionali che hanno lavorato benissimo sull’integrazione. Integrazione di giovani talenti, appunto, da far giocare subito assieme, e integrazione di giocatori provenienti da culture diverse, ma con il passaporto tedesco o francese.
Paolo Condò è un giornalista professionista che ha seguito sette Mondiali e collabora con Sky Sport, e dal 2010 è il membro italiano della giuria internazionale che assegna il Pallone d’oro. La sua opinione sul lavoro di Mancini in Nazionale è chiarissima: “A distanza di un anno la nostra Nazionale sta molto meglio. Mancini sta insistendo su un gruppo di 7-8 giocatori, e questa è sempre un’ottima cartina tornasole. Cambiare spesso, cambiare troppo, è tipico di chi non ha le idee chiare. I giocatori del prossimo ciclo sono questi, devono solo trovare il modo di esprimersi al meglio, e per farlo devono giocare. Per questo sono molto fiducioso, sopratutto vedendo le nostre nazionali giovanili. Io dò molta importanza alle giovanili, e anche Roberto (Mancini, N.d.R: sono amici di vecchia data). Non per niente Zaniolo, un giocatore che di solito nasce all’estero e che unisce estro e forza fisica, ha esordito prima in Nazionale e poi in Serie A. Io credo che Roberto Mancini sia l’uomo giusto per il rilancio, perché è uno che ha il suo stile. E io apprezzo molto chi ha uno stile. Lo aveva da calciatore, lo ha adesso che è allenatore. Ha un suo punto di vista, preciso. Su come giocare a calcio, su come gestire i talenti. Essendo stato un ladro, può far bene la guardia. Non per niente, nell’impossibilità generale di gestire uno come Balotelli, è quello che ci è andato più vicino”.
L’Italia del calcio ricomincia dalla pianificazione
Abbiamo assistito da spettatori a un Mondiale che ci ha raccontato che il calcio di oggi è molto meno legato all’estemporaneità, alla reazione nervosa, e molto di più agli schemi, alla ricerca del talento, al concetto di squadra. Nei campioni del mondo della Francia non spicca un campione, un nome in particolare; Messi e Ronaldo (che in Italia non abbiamo e non avremo per i prossimi vent’anni almeno) sono usciti dal torneo prima del previsto; i brasiliani sono stati fatti fuori dal Belgio; l’incredibile Croazia è figlia di un gruppo di ragazzi cresciuti assieme con un ideale comune che fu l’impresa degli eroi del 1998. Tutte cose che ci sono mancate tremendamente in questi anni. Oltre alla visione del futuro, sostituita dalla necessità di essere subito pronti, del risultato a tutti i costi, che non è mai arrivato. I giovani hanno fatto fatica a inserirsi nei loro club, e quindi anche in Nazionale. I pochi che giocavano lo facevano in club di seconda fascia, quindi senza confrontarsi con partite davvero importanti o avversari di rango internazionale.
Ma qualcosa è cambiato, nel frattempo. Non che in un anno possano succedere miracoli. Lo smacco del Mondiale mancato è stato troppo grande: ci abbiamo perso tutti, come ho già spiegato in un altro articolo, sempre su Senza Filtro. Ci hanno perso il movimento sportivo, gli sponsor (cioè le aziende), i locali, i supermercati, i negozi che vendono elettrodomestici. Un effetto a cascata, quello che ci ha costretto a restare a guardare una manifestazione alla quale mancavamo praticamente solo noi e l’Olanda. Ma gli olandesi non fanno troppi drammi. Sono abituati a costruire sull’acqua. Quando vedi l’Olanda da un aereo è così precisa e matematica da fare spavento; un quadro di Mondrian. Ripartono da quello che hanno: sono coscienti del fatto che esistono cicli vincenti e periodi di ricostruzione. È come se li mettessero già in preventivo, come se li pianificassero, certi periodi.
Noi italiani invece iniziamo a ricostruire solo quando siamo costretti a farlo; poi però ci mettiamo di buona lena, e quindi succede che ci troviamo ad avere tra le mani un discreto materiale umano su cui lavorare. Una generazione di ragazzi che, giocoforza, è unica e non può ricordare nessuna delle precedenti, perché forse per la prima volta ci troviamo di fronte a dei giovani calciatori che non vengono dalla strada. Non è detto che sia un male. Essere nostalgici a tutti i costi non fa bene in nessun lavoro, e lo sport, il calcio di oggi, non fa eccezione. Prendete l’esempio dell’Islanda, una delle Nazionali che è cresciuta di più negli ultimi anni. Nessun miracolo, parliamo di un Paese di circa trecentomila abitanti che ha investito principalmente sulle strutture: campi da calcio coperti, centri sportivi.
La cultura del calcio da giocare in strada, molto romantica, non si sposa più con le esigenze di uno sport che ha bisogno ancora di estro – per fortuna – ma anche di applicazione e intelligenza tattica. Di allenamento e perfezionamento sul campo. Un giovane calciatore, oggi, per essere competitivo, a vent’anni deve averne già dieci di conoscenza alle spalle. Lo stiamo capendo, ci stiamo attrezzando, e Mancini ha la fortuna di poter affrontare le qualificazioni agli Europei con Donnarumma, Barella, Cutrone, Bernardeschi, Verratti, Romagnoli, il giovanissimo e talentuosissimo Zaniolo. Particolare molto importante: gran parte di questi ragazzi – fatta eccezione per Barella, ma ancora per poco – gioca in club di prima fascia.
Dove siamo rimasti quindi? Siamo rimasti a un calcio da ricostruire, ripartendo da quanto di prezioso abbiamo, il materiale umano, e dal ridare linfa ai centri federali, alle strutture dove imparare a giocare a calcio. E dove rivedere anche la cultura, particolarmente radicata, del risultato a tutti i costi. Per tornare ad alti livelli non servono le ricette di un tempo, perché il mondo, non solo il calcio, è cambiato. Serve pianificare e prevedere. Siamo stati la prima nazione a inventarci un centro federale, quello di Coverciano; adesso è il momento di dargli un nuovo impulso. E certamente ci ricorderemo dell’eliminazione con la Svezia come del nuovo inizio del nostro calcio. Italia, anno uno.
In copertina Patrik Cutrone, una delle nuove leve della nostra nazionale.
Photo by https://www.milannews24.com
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