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Cassa integrazione: l’inefficienza che non paga
Voler gestire una situazione straordinaria con strumenti ordinari. Questo l’errore di fondo che ha innescato e ingigantito i problemi di accesso e ritardi nei pagamenti del trattamento di cassa integrazione, per i lavoratori delle aziende costrette alla chiusura o alla riduzione dell’attività, a causa dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. Un caos che non si sarebbe verificato […]
Voler gestire una situazione straordinaria con strumenti ordinari. Questo l’errore di fondo che ha innescato e ingigantito i problemi di accesso e ritardi nei pagamenti del trattamento di cassa integrazione, per i lavoratori delle aziende costrette alla chiusura o alla riduzione dell’attività, a causa dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. Un caos che non si sarebbe verificato se fosse stata accolta fin da subito la proposta dei Consulenti del Lavoro, cioè istituire un ammortizzatore sociale unico, a fronte dell’unica “causale” di integrazione salariale.
Ammortizzatori sociali in tempi di crisi: quant’è difficile averli
Di fatto, per avere accesso al sostegno economico è stato necessario attivare istituti e procedure diverse, in base al settore di appartenenza delle aziende coinvolte: CIGO per le industrie, Assegno Ordinario o FIS per le aziende con più di 5 dipendenti, FSBA per le aziende artigiane, Cassa integrazione in deroga per tutte le realtà che non rientrano nei casi precedenti, gestita per le prime nove settimane attraverso le regioni. Solo per quest’ultimo ammortizzatore sono state attivate 20 procedure diverse, anzi 21, considerato lo “sdoppiamento” amministrativo della Regione Friuli-Venezia Giulia nelle Provincie Autonome di Trento e di Bolzano.
Procedure burocratiche e farraginose, apparse subito in netto contrasto con gli annunci di pagamenti rapidi. Una semplificazione smentita clamorosamente da scelte come quella di rendere obbligatoria la consultazione sindacale per avere accesso all’ammortizzatore, esclusa solo per le imprese fino a 5 dipendenti. Difficile comprendere i motivi di un obbligo necessario solo per prendere atto di chiusure e riduzioni imposte dalla legge e dalla stessa emergenza sanitaria.
Una perdita di tempo inutile, come inutile è stata l’introduzione della norma che dà facoltà ai lavoratori di chiedere alle banche l’anticipazione della cassa integrazione. Chi ci ha provato si è trovato di fronte alla richiesta di produrre informazioni, l’ormai famoso modello SR41, che però è l’ultima comunicazione che l’azienda trasmette e che consente di ricevere il pagamento entro pochi giorni, vanificando la richiesta di anticipazione. Anche le banche, quindi, non sono state estranee al processo di esaltazione della burocrazia e della scarsa conoscenza delle cose.
La complessità generata dal susseguirsi di decreti, emendamenti e circolari amministrative ha causato un pesante ritardo nei pagamenti delle integrazioni salariali, che ha lasciato molte persone prive di sostegno per quasi due mesi. E non è stata certo colpa dei professionisti del settore – come qualcuno ha più volte insinuato – che si sono subito messi al lavoro svolgendo in pochi giorni adempimenti complessi, per i quali lo stesso D.L. 18, emanato il 17 marzo, assegnava un termine di quattro mesi.
Ritardi e disastri nei pagamenti della cassa integrazione
Al 4 giugno 2020 i lavoratori destinatari delle richieste di CIG a partire da marzo sono stati 8.410.149; di questi 420.000 non hanno ancora ricevuto il bonifico. Questi numeri però non fotografano la reale situazione che si sta vivendo nel Paese a tre mesi dalla pubblicazione del primo decreto.
Per avere un quadro più completo bisogna considerare che il trattamento di cassa integrazione del mese di marzo è stato pagato, di fatto, intorno al 10 maggio; quello del mese di aprile, intorno al 10 di giugno. Quindi anche coloro che hanno ricevuto i loro soldi hanno dovuto affrontare fino a un mese e mezzo di attesa. Inoltre decine di migliaia di dipendenti delle aziende plurilocalizzate, cioè con sedi in diverse province o regioni, non hanno ancora ricevuto niente.
C’è poi un caso veramente clamoroso, di cui nessuno o quasi parla, ed è quello che riguarda i dipendenti delle ditte artigiane, per i quali il trattamento di cassa integrazione deve essere corrisposto dal FSBA (il Fondo di Solidarietà Bilaterale per l’Artigianato) e che ad oggi non ha ancora completato i pagamenti delle spettanze per il mese di marzo. Per avere un’idea della situazione è sufficiente valutare alcuni dati: a Prato, per esempio, al 14 giugno c’era un “buco” da 20 milioni di euro di mancati pagamenti di ammortizzatori sociali. I lavoratori che devono ricevere il bonifico dal FSBA sono 10.600, e 2.400 quelli che ancora aspettano la cassa integrazione erogata dall’INPS.
Per cercare di sopperire a una situazione così difficile, il governo è stato costretto a mettere in campo procedure “semplificate”, che sono arrivate però solo con il D.L. n. 34 del 19 maggio. Semplificate per modo di dire perché, a parte la gestione diretta della CIG in deroga da parte dell’INPS, eliminando la fase regionale, è rimasta l’obbligatorietà della consultazione sindacale per l’invio delle domande per le ulteriori 9 settimane di ammortizzatore sociale concesse.
Ed è da sottolineare che, contrariamente ai buoni propositi da conferenza stampa, anche questa volta i pagamenti non saranno così veloci come annunciato. Le nuove domande di cassa integrazione relative al mese di maggio, potendo essere inviate dal 18 giugno (come previsto dall’art. 71 del c.d. “Decreto Rilancio”), potranno essere saldate soltanto a metà luglio. La procedura prevede il pagamento del 40% del dovuto a titolo di anticipazione entro 15 giorni dalla presentazione delle domande, mentre sarà necessario attendere l’autorizzazione e completare l’iter burocratico con l’invio del mod. SR41 per ottenere il saldo.
Come funziona la cassa integrazione, e per quanto tempo andrà erogata?
C’è poi la questione, per nulla secondaria, dell’importo spettante ai lavoratori. Il meccanismo della cassa integrazione prevede un’indennità pari all’80% della retribuzione lorda mensile, incluse le quote di mensilità aggiuntive maturate (in pratica: 13 dodicesimi dello stipendio per chi percepisce solo la tredicesima, 14 dodicesimi per chi applica un CCNL che prevede anche la quattordicesima mensilità).
La copertura però non è totale, perché per il calcolo dell’effettiva cassa integrazione spettante la legge prevede due massimali. Se la retribuzione lorda mensile di riferimento, calcolata tenendo conto anche delle mensilità aggiuntive, è inferiore a 2.159,48 euro, il massimale è 998,18; per retribuzioni superiori a 2.159,48 euro, il massimale è 1.199,72. Questi sono gli importi massimi mensili che possono essere liquidati, e si tratta di importi lordi: per arrivare al netto, cioè a quanto riscuote effettivamente il lavoratore, si deve sottrarre il 5,84% di contributi e, sulla differenza, applicare la tassazione IRPEF secondo le regole ordinarie.
Tradotto in soldoni, chi ha uno stipendio di 1.400 euro netti mensili può contare su 900 euro netti circa di cassa integrazione; per chi ha uno stipendio più elevato, la differenza è ancora maggiore (1.800 euro netti di stipendio diventano circa 960 di cassa integrazione). Sono solo esempi, dato che gli importi netti effettivi risentono delle situazioni personali (detrazioni per carichi di famiglia, spettanza o meno del bonus degli 80 euro, assegni familiari); mediamente le perdite sul “netto” si attestano intorno al 40%, con punte fino al 50% per gli stipendi più elevati. Va considerato inoltre il fatto che i lavoratori in cassa integrazione a zero ore si vedranno decurtare la tredicesima (e la quattordicesima, per chi la percepisce) di tanti dodicesimi quanti sono i mesi di durata dell’ammortizzatore: nella stessa proporzione saranno persi anche giorni di ferie e ore di permesso.
Dopo gli ultimi decreti resta comunque aperto il problema di chi ha posto i lavoratori in cassa integrazione sin da marzo – cioè tutte le attività sospese per decreto – e di tutte le altre aziende che hanno comunque subito, nello stesso periodo, riduzioni produttive. I conti sono presto fatti: le prime 9 settimane si sono esaurite tra marzo e aprile, le seconde lo saranno con maggio e giugno. Anche dopo l’autorizzazione alla riapertura per tutte le attività, restano scoperti tutti i mesi da luglio in poi per affrontare una ripartenza segnata sicuramente dalla riduzione della domanda e dalla gestione degli spazi produttivi secondo le disposizioni dei protocolli sanitari. Una situazione in cui, inevitabilmente, aziende grandi e piccole avranno bisogno di minore impiego di personale, ma non avranno la possibilità di collocare nessuno in cassa integrazione: è difficile pensare che ce la faranno a sostenere il pagamento di stipendi e contributi per ulteriori periodi di ferie forzate, che Costituzione e buon senso vogliono, com’è giusto, retribuite allo stesso modo dei periodi lavorati.
Da rischio salute a rischio povertà: gli ammortizzatori sociali necessari ancora a lungo
La crisi sanitaria, quasi debellata, ha aggravato la crisi economica già in atto trasformandola in recessione, come risulta dai dati rilevati dall’ISTAT e pubblicati i primi di giugno. Previsioni con “ampi livelli di incertezza”, sottolinea l’istituto, che prospetta un crollo del 9,3% delle “unità di lavoro” (due milioni di posti in meno rispetto ai circa 24 milioni di occupati a fine 2019) con impatto sui consumi delle famiglie (-8,7%); di pari passo andrà la riduzione degli investimenti (-12,5%). Tante persone, quindi, passeranno da rischio salute a rischio povertà.
In questa situazione c’è un altro paradosso: il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – vale a dire, per motivi economici – sia a livello individuale che collettivo, introdotto dal D.L. 18/2020 per 60 giorni e prorogato a 5 mesi, fino al 17 agosto 2020, dal Decreto “Rilancio”. E già si paventa il fatto che potrebbe essere oggetto di ulteriori proroghe fino addirittura al 31 dicembre.
Un divieto che appare un disperato tentativo di salvare i posti di lavoro, come se fosse realmente possibile farlo “per legge”, senza tenere conto del calo della domanda e dei consumi e, soprattutto, del fatto che le aziende non potranno mantenere invariati ancora per molto i livelli occupazionali, senza i necessari sostegni economici per superare la crisi.
Sono pertanto necessari nuovi interventi di prolungamento della cassa integrazione, almeno per tutta la durata del divieto di licenziamento. Diversamente, il risultato potrebbe essere addirittura l’opposto di quello atteso, con il fallimento di tante realtà produttive e la conseguente perdita di posti di lavoro senza possibilità di ricollocare nessuno.
Photo credits: www.ilparagone.it
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