La Cassazione: non si licenzia chi lavora da casa se raggiunge gli obiettivi

Un’ordinanza della Cassazione chiarisce che non c’è motivo di ricorrere al licenziamento per giusta causa se le mansioni del o della dipendente non prevedono la presenza in sede. Con Gloria Daluiso, avvocata giuslavorista, cerchiamo di capire quale valore ha questa sentenza in merito al lavoro da casa

19.02.2024
La sede della Corte di Cassazione, che si è di recente pronunciata contro il licenziamento per giusta causa di una dipendente che lavorava da casa

Licenziare chi lavora da casa, ma svolge lo stesso i suoi compiti e raggiunge gli obiettivi prefissati? Non è una giusta causa, come dimostra l’ordinanza n. 2761 del 30 gennaio 2024 emessa dalla Corte di Cassazione Civile, sezione Lavoro. È quanto è successo alla dipendente di una società cooperativa, con mansioni di coordinamento e supervisione del controllo di cantieri in cui la società per cui lavorava espletava servizi di pulizia.

Secondo l’azienda, la lavoratrice avrebbe violato le disposizioni previste in merito all’orario di lavoro, svolto in modo incompleto e discontinuo la sua prestazione, e avrebbe abusato della fiducia del datore di lavoro. La Cassazione ha confermato quanto ribadito dagli altri gradi di giudizio ribadendo che, invece, non ci fossero i presupposti per la giusta causa.

Una sentenza che potrebbe sembrare “storica”, perché genericamente a favore del lavoro da casa o dello smart working tout court, ma non è proprio così, sebbene ribadisca alcuni principi alla base del lavoro smart: la fiducia da parte del datore di lavoro nei confronti del dipendente e la presenza fisica non sempre necessaria.

Per capire meglio la portata di questa ordinanza, ne parliamo con Gloria Daluiso, avvocata giuslavorista.

 

 

L’ordinanza della Cassazione potrebbe sembrare di primo acchito storica perché a favore del lavoro da remoto e del fatto che non possa costituire una giusta causa per il licenziamento. È davvero così?

A mio parere, come giuslavorista, l’ordinanza non è “storica”, ma si inserisce in una serie di pronunce che la Cassazione ha già emesso riguardo al licenziamento. Posso quindi dire che non si discosta da altre su questo tema, anche se vengono ribaditi degli aspetti interessanti che riguardano proprio il lavoro da casa e come deve essere considerato. Prima di parlare di questi, però, bisogna fare delle precisazioni a monte, e una di queste riguarda proprio il licenziamento per giusta causa, che deve essere sempre inquadrato alla luce di circostanze concrete; pertanto non si può generalizzare. In questi casi, infatti, si deve provare la sussistenza di fatti che abbiano portato a determinate conseguenze per il datore di lavoro, tali da farlo procedere con un licenziamento dall’effetto immediato. La sentenza, infatti, affronta la questione della corretta ripartizione degli oneri della prova. Vale a dire: chi vuol far valere in giudizio un diritto deve dimostrare i fatti costitutivi che ne hanno determinato l’origine (in questo caso doveva farlo l’azienda che si era vista rigettare in precedenza la legittimità del licenziamento intimato, N.d.R.). Leggendo l’ordinanza, inoltre, ho avuto modo di vedere come non venga mai nominato lo smart working, cosa che, a mio avviso, non era prevista nel rapporto di lavoro tra l’azienda e la dipendente. Non sono in possesso dei verbali delle testimonianze usate nei processi, ma se fosse stato previsto lo smart working si sarebbe attuata la disciplina nazionale prevista dalla Legge 81 del 2017 con un accordo individuale che avrebbe regolamentato le modalità di lavoro.

Se non si parla di smart working o lavoro da remoto (che in Italia spesso tendiamo a confondere), allora di che cosa parliamo?

In questo caso la discussione ruota attorno all’esistenza o meno di un registro orario e alla presenza in sede per l’attività lavorativa, aspetti entrambi confutati dai testimoni. Per quanto riguarda chi svolge attività di coordinamento, come la dipendente in questione, non era infatti previsto nessun vincolo orario né la presenza in sede. Parliamo infatti di una situazione in cui la dipendente svolge un’attività, che sebbene non regolata dall’accordo sullo smart working, per com’è descritta e in base alle testimonianze, non richiedeva la presenza fisica. Uno dei testimoni, anch’egli coordinatore, ha ammesso che tutti loro avevano una SIM e potevano lavorare senza vincoli di luogo e orario. Sulla base, quindi, delle prove assunte, la dipendente poteva svolgere l’attività da remoto senza venir meno al suo impegno, inoltre poteva tenere i contatti anche per via telefonica senza per forza essere presente. Questo aspetto è importante perché significa che l’ordinanza della Cassazione non può valere per tutte le mansioni, ma bisogna sempre fare riferimento alle disposizioni aziendali e alla tipologia di lavoro svolto. Un amministrativo della stessa azienda, per esempio, non è detto abbia lo stesso trattamento. Non è detto quindi che chiunque possa svolgere un’attività da casa senza rischiare di essere un assente ingiustificato.

Lei ha citato l’accordo sullo smart working previsto dalla Legge 81 del 2017, ma che cosa succede quando, per esempio, nelle aziende più piccole, il lavoro in tale modalità non è regolamentato?

Se non c’è niente di scritto, si potrebbe creare la problematica nel momento in cui il datore di lavoro avvia una contestazione disciplinare. Può capitare, per esempio, che chieda al dipendente di andare in sede in quel determinato giorno e questi non possa perché si era fissato altri impegni. In quel caso, il datore di lavoro può contestare un’assenza ingiustificata. Ma se tutto è verbale, l’onere della prova di cui parlavamo prima diventa più complesso: il datore di lavoro deve dimostrare la giusta causa, ossia che i fatti che sono stati posti alla base del licenziamento sono così gravi da portarlo al licenziamento immediato. Dal canto suo, il dipendente può dimostrare di avere svolto la sua attività lavorativa. Non avere una regolamentazione complica le cose, ma il lavoratore, se la sua attività richiede l’utilizzo del pc, può usare come prove lo scambio di e-mail, le chat di Teams, la partecipazione a riunioni online e gli scambi di chat su WhatsApp. Tutto questo può essere una documentazione utile.

Colpisce che tra i motivi del licenziamento per giusta causa ci sia anche l’abuso della fiducia del datore di lavoro. Secondo l’azienda, la dipendente approfittava della mancanza di un sistema di rilevazione automatica delle presenze. La fiducia, al giorno d’oggi, con tutti i cambiamenti che sta vivendo il mondo del lavoro, ha un ruolo sempre più importante. Mi dà un suo parere in tal senso, anche alla luce dell’ordinanza?

Spesso nelle aziende mancano sistemi di rilevazione automatica delle presenze perché rappresentano un costo in più e non convengono. Di sicuro lo smart working, ma anche la presenza nei cantieri o in generale il fatto di stare all’esterno, comportano l’esercizio di attività fuori dal luogo di lavoro, pertanto richiedono di dare una certa fiducia al dipendente. Lo smart working e il lavoro da remoto, nello specifico, che non si basano sulla presenza costante e fissa per un certo numero di ore, dimostrano che non conta tanto l’avere osservato un orario, ma l’avere svolto delle attività e raggiunto gli obiettivi. Anche se questa ordinanza della Cassazione non fa riferimento allo smart working, in pratica lo conferma. Pertanto si sposta un po’ il concetto dall’esecuzione di una prestazione lavorativa che richiede la presenza sul luogo di lavoro per svolgere l’attività al raggiungimento del risultato, che è la cosa più importante, e che la dipendente in questione non ha fatto mancare.

 

 

 

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Photo credits: consulentidellavoro.it

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