Cavolo, lavori del: una definizione scientifica

Esistono professioni su cui si regge il mondo. E poi ci sono lavori dall’inutilità senza appello, che minano la salute mentale di chi li svolge. Scopriamo come individuarli con la recensione di “Bullshit Jobs”, di David Groeber.

Per chi, da quando ha cominciato a lavorare, almeno una mattina si è alzato col dubbio che fosse tutto un po’ inutile, la lettura di Bullshit Jobs – un saggio di David Graeber edito da Garzanti nel 2018 – può risultare confortante in un modo sconsolato.

La tesi dell’autore, infatti, è che nella maggior parte  dei casi a sbagliare qualcosa non è tanto chi si chiede se il proprio lavoro abbia almeno un senso, se non addirittura qualche utilità per gli altri. No: piuttosto sarebbero molti lavori a essere per definizione privi di utilità. Oppure, come indora la pillola la traduzione italiana, “lavori del cavolo”.

Bullshit Jobs: da quanto esistono e dove si trovano i “lavori del cavolo”

Il terziario, e ancora di più la tanto osannata sharing economy, sono fucine di esempi di lavoro senza senso secondo la definizione che ne dà David Graeber: in qualche ufficio pubblico c’è sempre qualcuno pagato per assicurarsi che vecchi PC malfunzionanti siano adeguatamente inscatolati e presi in carico dal reparto IT per la manutenzione; oppure c’è qualcuno pagato per suggerire a chi acquista o prenota un alloggio online prodotti o esperienze complementari che si conoscono benissimo ma non si ha nessuna intenzione di acquistare, o che al contrario sono già inserite in wishlist, o persino già acquistate.

A metterla così, certo, Bullshit Jobs potrebbe sembrare la trita obiezione di fannullonismo mossa a certi lavoratori pubblici, o l’altrettanto nota parabola della bolla della Silicon Valley destinata presto a scoppiare. Quello che non ci si aspetta è che l’autore arrivi a sostenere che di lavori del cavolo ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno: i signorotti di tutti i tempi hanno sempre avuto stuoli di “tirapiedi” la cui sola missione era farli sentire importanti e rispettati; per chi ama tassonomie e classi di concorso, nel saggio Graeber si prova in un’accurata distinzione tra diverse tipologie di Bullshit Jobs. Oggi quei tirapiedi qualche volta sono persino tirocinanti o dottorandi al servo dei vecchi baroni universitari che non di rado passano ore e ore in ateneo non tanto ad apprendere, quanto a compiacere chi li ha assunti.

Il risultato sono stagisti annoiati che, quando va male, passano ore e ore a scrollare svogliati le bacheche social o a fare acquisti su Shein, e quando invece va bene inventano i più diabolici sotterfugi per studiare una lingua morta pur di scappare al tedio di un lavoro senza senso. Dalla cronaca, e non solo dalla ricostruzione del saggio di Graeber, vengono del resto notizie di dipendenti in malattia da mesi che intanto si laureavano con voti eccellenti nelle più strampalate discipline umanistiche.

Una questione di salute mentale: e tu, fai un lavoro del cavolo?

Il fulcro della faccenda non è tanto sollevare grandi temi irrisolti di etica del lavoro, come chi ci guadagni davvero nel pagare per fare poco o nulla un dipendente che non ne è certo felice, o se non sia una forma di spietato capitalismo anche reputarsi padroni del tempo di una persona perché la si sta retribuendo con una paga mensile.

Il danno più grande dei lavori del cavolo si misura su quanto chi li svolge è felice e soddisfatto di sé: le questioni che si profilano all’orizzonte, così, assumono contorni molto più vicini a veri e propri interrogativi sulla salute pubblica.

La salute mentale dei lavoratori (e in una società che definisce ogni individuo più per ciò che fa che per ciò che è tutti rischiano di essere lavoratori e niente più) sembra essere così la più ingombrante presenza assente in Bullshit Jobs di Graeber. Non bisogna saper recitare a memoria le tabelle del Manuale diagnostico, del resto, per capire quanto può essere straniante essere pagati per impiegare il proprio tempo in mansioni senza senso, pur di affermare di star contribuendo allo sforzo economico del Paese o di star impiegando proficuamente un titolo di studio comprato a suon di lavoretti, anch’essi per la maggior parte senza senso, alla mensa del campus universitario; o peggio ancora, per dire di essersi guadagnati il proprio tempo libero nel weekend, durante le ferie estive, nelle vacanze di Natale.

Ci sarà da tenerne conto per una “nuova normalità” che ora, a ridosso della crisi, professa di voler rimettere al centro le persone e i loro bisogni più intimi.

Perché leggere Bullshit Jobs

Armandosi della concentrazione che ci vuole davanti a qualche caso di studio, e a qualche precisazione teorica di troppo riguardo a concetti che pure sono di esperienza comune, la lettura di Bullshit Jobs consola con la consapevolezza di non essere i soli a svegliarsi convinti di aver costruito la propria carriera sulle basi di un lavoro senza senso.

Mal comune è, però, davvero poco gaudio se una carriera del cavolo è quello che tiene lontani dall’essere pienamente soddisfatti di sé: il saggio di Graeber potrebbe essere, in questo senso, un esercizio di vera consapevolezza. Anche per chi troppe volte ha professato a vanvera di voler mollare tutto e aprire un chiringuito su una spiaggia hawaiana, ma poi è tornato a guidare ogni mattina, diligente, verso il proprio lavoro senza senso.

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