Cercasi campioni europei tra le industrie italiane

L’umanità oggi si trova davanti a tre grandi sfide, di cui non si può più non tenere conto: tecnologica, demografica e ambientale. Nel ruolo sindacale più autentico c’è già la chiave per affrontare queste partite del futuro: il sindacato, infatti, strutturalmente deve sempre tenere insieme le emergenze con la prospettiva. La crisi economica ha continuato […]

L’umanità oggi si trova davanti a tre grandi sfide, di cui non si può più non tenere conto: tecnologica, demografica e ambientale. Nel ruolo sindacale più autentico c’è già la chiave per affrontare queste partite del futuro: il sindacato, infatti, strutturalmente deve sempre tenere insieme le emergenze con la prospettiva. La crisi economica ha continuato a procrastinare la tendenza a gestire le emergenze nell’immediato; la gestione della singola emergenza è necessaria, ma ci sono aspetti di carattere settoriale e strutturale che concernono la competitività del sistema Italia, e questo significa affrontare in modo determinato, da parte delle politiche industriali, il grande nodo della produttività.

Oggi la tecnologia consente di coniugare la sfida della produttività con quella della qualità del lavoro a partire dal fatto che un’iniezione intelligente di nuove tecnologie abilitanti può garantire il raggiungimento di entrambi i risultati, conciliandoli. Da questo punto di vista, tutte le partite delle vertenze si possono affrontare iniziando dal rendere il nostro Paese un habitat più favorevole alla creazione di impresa.

 

Progettare ecosistemi territoriali comunitari per lo sviluppo

Oggi, al contrario, persino le politiche anti-delocalizzazione sono inefficaci perché arrivano sempre in ritardo rispetto ai processi di scelta delle imprese di andar via. Bisogna, invece, trovare buoni motivi per attirare nuovi investimenti industriali e soprattutto per consolidare quelli già presenti: questo significa avere una visioneecosistemica” dello sviluppo territoriale. Bisogna sciogliere vecchi e nuovi nodi al rilancio della produttività e ricostruire i legami sociali, che sono cemento non solo per la speranza di una nuova dimensione umana, ma anche per un’economia più forte.

In Italia abbiamo un costo dell’energia più alto del 30% rispetto alla media europea; siamo uno dei Paesi con la burocrazia più asfissiante non solo per le imprese, ma anche per gli stessi cittadini e i lavoratori. La vicenda Ilva è la dimostrazione che in Italia non esiste nemmeno la certezza del diritto. I rimpalli di responsabilità tra politica, tribunali e procure (e addirittura tra le stesse procure) scoraggiano qualsiasi investimento estero e nazionale. Nessuno vuole essere prigioniero di un flipper giudiziario in cui non esistono certezze.

Per quanto riguarda la politica, l’ossessione e il ricatto del breve termine la portano a occuparsi di orizzonti troppo ristretti e che per motivi elettorali conducono a cambiare di continuo normative di tutti i tipi, da quelle industriali e ambientali agli incentivi, generando instabilità, un ulteriore pretesto per disinvestire.

Questa resistenza all’innovazione si ritrova, purtroppo, anche in molte delle politiche messe in campo negli ultimi vent’anni dai vari governi, che nulla o quasi hanno fatto per gestire il cambiamento; a eccezione del piano Industria 4.0 dell’allora Ministro dello Sviluppo Economico e i provvedimenti sull’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria con la riforma degli ultimi governi. Pur con tutte le lacune e le difficoltà di implementazione che il tempo ha evidenziato, restano tra i pochi interventi che hanno portato risultati concreti alla crescita e all’occupazione.

Un altro ostacolo alla produttività riguarda il problema molto serio dell’accesso al credito. Si sta ragionando su diverse modalità per favorire la ripresa mediante l’intervento pubblico. In realtà l’intervento pubblico è positivo come garanzia, ma non deve essere sostitutivo degli investimenti privati, che oggi sono scappati dall’Italia, rifugiati all’estero o nella rendita, perché il rischio è quello di far fare alla Cassa Depositi e Prestiti o a Invitalia quello che nei Paesi del Nord Europa fa il sistema bancario, cioè il sostegno all’economia reale. Le maggiori innovazioni dovrebbero pertanto riguardare l’accesso al credito, la burocrazia, la qualità e la quantità delle infrastrutture, e il sistema educativo e formativo, per ridurre il divario delle professionalità – il cosiddetto skill mismatch.

 

Diritto soggettivo a formazione di qualità e skill monitor aziendali e territoriali

Una soluzione in questo senso, proprio per attrarre investimenti industriali, è quella di fare in modo che ci sia uno skill monitor territoriale delle competenze. Le aziende infatti dovrebbero imparare a fare un bilancio delle competenze, la vera misura della dotazione della ricchezza di cui dispongono al loro interno, da affiancare a quello finanziario.

Lo skill mismatch oggi interessa gran parte dei lavoratori, con risultati negativi anche per la produttività dell’azienda. Sarebbe utile che i territori e le province avessero una mappa delle competenze, altrimenti progettare il sistema educativo, costruire l’offerta formativa, rischia di essere velleitario. Questo sarebbe utile per i territori anche al fine di occuparsi di ricostruire, in un’ottica “ecosistemica”, la capacità di far funzionare il sistema locale e territoriale, sulla base di una dotazione di competenza e di investimenti sulle persone più robusta.

In azienda infatti troviamo ancora una formazione di stampo fordista; non certo la scelta rivoluzionaria che avevamo fatto durante la nostra battaglia per il diritto soggettivo alla formazione. Industria 4.0 passa anche da qui, da un nuovo modello per creare e stimare le competenze del lavoratore, ed è questo il futuro che vedo per una nuova ed efficiente gestione delle risorse umane.

Battere il masochismo anti-industriale

E poi ci mettiamo il nostro masochismo anti-industriale. Se pensiamo alla vicenda dell’ex Ilva di Taranto, si potevano evitare gli incalcolabili danni alla salute, il collasso ambientale e quello dell’azienda? Senza dubbio anche come sindacato industriale in passato abbiamo sottovalutato la questione ambientale. Ma vere responsabilità riguardano i vari Ministri dell’Ambiente, della Salute, i Governatori della Regione Puglia, Istituzioni locali, magistrati, che in troppi casi pensano che il loro ruolo oscilli tra il credere che basti apporre cartelli di divieto e bloccare tutto o dare mano libera alle imprese.

Proprio in questo periodo in cui mentre il partito di Di Maio è in caduta libera, la sua cultura anti-industriale sembra aver contagiato tutte le forze politiche. Ora, come per la Tav e molte altre partite, la soluzione vera di questo disastro è un vero e proprio test di ultima istanza sui gruppi dirigenti italiani: non si può stare nel mezzo, il benaltrismo inconcludente va battuto una volta per tutte. Possiamo ancora realizzare il piano di sostenibilità più importante della storia europea.

L’intervento pubblico auspicabile è quello di uno Stato capace di avere visione delle traiettorie dello sviluppo. Politici come Sinigaglia negli anni Sessanta hanno costruito l’ossatura industriale del nostro Paese grazie proprio alla capacità di anticipare il cambiamento. Oggi la politica sembra o anti-industriale o a-industriale, e questo preoccupa, poiché le tre grandi trasformazioni in atto necessitano di un gruppo dirigente che mostri capacità progettuale per non restare fermi al passato; rileggiamo ad esempio il piano regionale recentemente realizzato da Patrizio Bianchi e le riflessioni di Aldo Bonomi in tal senso.

Il rischio, altrimenti, è di prendere da queste trasformazioni solo il peggio. Non serve lo “Stato proprietario”, serve lo “Stato abilitante”, capace di attivare investimenti privati. Serve un intervento europeo, un fondo europeo per la gestione della grande transizione industriale. L’alternativa passa per accordi bilaterali in cui siamo sempre più marginali. Temi per cui serve un forte e vero sindacato europeo e internazionale, capace di dare sostenibilità piena allo sviluppo e forza al lavoro.

 

Un ETF, un fondo per la gestione delle transizioni. E la costruzione di campioni europei

Nonostante la buona volontà del nuovo Ministro dello Sviluppo Economico, al MISE restano aperti 160 tavoli di crisi, per non parlare delle piccole imprese che chiudono in un silenzio assordante. Molte di queste crisi potrebbero essere evitate sciogliendo i nodi suddetti ai guadagni di produttività, accompagnando il nostro tessuto di piccole e microimprese alla trasformazione. Con la fine dei distretti industriali, il ruolo che gestivano i centri servizi è rimasto abbandonato e oggi soggetti capaci di accompagnare le trasformazioni e le transizioni non esistono.

Trasferire tecnologie, diffondere competenze, accompagnare la crescita, è di vitale importanza. In campo ci sono accordi bilaterali, come quello franco-tedesco. Il nostro Paese è orfano dei rapporti post-Brexit con Uk. Serve un forte intervento europeo che scoraggi accordi bilaterali e riporti al centro della Ue la partita industriale. Perché non costruire un fondo europeo misto pubblico-privato? Chiamiamolo ETF: un fondo per gestire la transizione del manifatturiero, accompagnare le trasformazioni, tenere dentro le catene di creazione del valore i processi evolutivi delle piccole imprese, e che sostenga i processi di aggregazione per costruire campioni europei in tutti i settori.

Bisogna inseguire delle traiettorie a livello nazionale e internazionale. La nostra sola possibilità di rilanciare la politica industriale è quella di immaginare il sostegno alla crescita delle micro, piccole e medie imprese, e avere al contempo la prospettiva di unire, nei diversi settori, dei campioni europei.

Il nazionalismo industriale praticato da troppi governi europei ostacola la nascita di campioni europei, ma questa è la strada più virtuosa possibile, la sola che ci garantisca un’Europa forte grazie a una vocazione industriale innovativa e a un settore manifatturiero avanzato, che è quello che genera più lavoro, contrattualmente più solido e meglio remunerato. I trattati europei sulla concorrenza non tengono conto che la posizione dominante oggi è rappresentata dalle importazioni asiatiche, e il bilancino solo continentale delle quote di mercato rischia di essere autolesionista.
Queste sono le sfide che devono servire a superare la dicotomia tra occuparsi delle emergenze e dimenticare la prospettiva, cercando di tenere lo sguardo sempre rivolto alle politiche pubbliche e agli investimenti privati, improntati però al lungo periodo.

 

 

Foto di copertina: Emir Krasnic

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