Chi dice Italia, dice cultura?

Immaginiamo un dibattito politico, uno dei soliti, in cui la preoccupazione primaria degli intervenuti sembri focalizzarsi più sulla condivisione immediata di luoghi comuni, che sull’elaborazione di ragionamenti complessi. Il dibattito, come ogni dibattito degno di tale nome, offre il palcoscenico per una contrapposizione tra idee semplici, stereotipate, riservando le sfumature della dialettica ad altre sedi […]

Immaginiamo un dibattito politico, uno dei soliti, in cui la preoccupazione primaria degli intervenuti sembri focalizzarsi più sulla condivisione immediata di luoghi comuni, che sull’elaborazione di ragionamenti complessi. Il dibattito, come ogni dibattito degno di tale nome, offre il palcoscenico per una contrapposizione tra idee semplici, stereotipate, riservando le sfumature della dialettica ad altre sedi e ad altre occasioni. Quando si parla di politiche culturali, ormai è evidente, il copione è fin troppo scontato. Da una parte qualcuno afferma che “la cultura è il petrolio dell’Italia”, dall’altra immediatamente qualcuno ribatte che “con la cultura non si mangia”. Affermazioni che sentiamo ripetere da anni, che in maniera approssimativa riassumono due posizioni agli antipodi sul ruolo della cultura nell’economia del Paese.

A onor del vero, l’accezione con cui il termine “cultura” viene abitualmente connotato sembra richiamare quasi esclusivamente l’ambito umanistico, contribuendo a mantenere vivo un malinteso storico che separa una conoscenza pragmatica e utile da una conoscenza autoreferenziale. Da una parte il saper fare, dall’altra, semplicemente, il sapere.

Cercare di raccontare come siamo giunti a una dimensione culturale in cui il saper fare primeggi sul sapere sarebbe storia prolissa e fuorviante. In queste righe vorrei invece evidenziare la necessità di elaborare una nuova lettura sul ruolo della cultura, un semplice atto di disvelamento di ciò che è ovvio. Non può esistere nessun saper fare, senza un sapere che ne sia ispirazione e metodo.

 

L’umanista in azienda

Si parla spesso di inclusione di umanisti nell’ecosistema delicato delle risorse umane, se ne riconosce il valore e se ne afferma l’utilità. Tuttavia credo sia necessario, oggi, cercare di ampliare la riflessione a una nuova funzione dell’umanista, che sempre più è chiamato a riacquisire una competenza tecnica che permetta di tradurre il “semplice” pensiero in azione concreta.

Sulla carta, la mia formazione come storico delle religioni dovrebbe automaticamente delegittimare ogni analisi relativa all’ambito imprenditoriale, economico o geopolitico. Tuttavia in nessun momento del mio percorso professionale, che mi ha progressivamente portato a occuparmi di diplomazia culturale, ho provato disagio a confrontarmi con imprenditori, politologi o economisti. Al contrario, mi sono sempre più reso conto del ruolo della humanitas nel determinare la forza e il carisma degli imprenditori capaci di indurre trasformazioni concrete e di attivare vere e proprie rivoluzioni.

Nel corso degli anni ho sempre più riconosciuto come condizione necessaria, tra gli strumenti del perfetto imprenditore, la capacità di avere visione. Ora, immediatamente veniamo rimandati all’idea di vision che ci viene abitualmente propinata, che dovrebbe descrivere il proposito e il sistema valoriale che sta alla base di un orizzonte imprenditoriale. Al contrario, quando parlo di visione (con la -e finale) intendo la capacità di immaginare ciò che ancora non esiste, di chiudere gli occhi e di riuscire a prefigurare ciò che si vuole costruire e le difficoltà che ci potrebbero ostacolare nel farlo. Visione è coraggio di fare il primo passo fuori dalla porta di casa (che oggi si chiamerebbe comfort zone) per intraprendere un viaggio verso l’ignoto.

Non voglio banalizzare il ruolo delle scienze umane, ma vorrei evidenziare l’importanza di una dimensione formativa che istintivamente siamo portati a sminuire. Le scienze umane non creano strumenti ausiliari, non formano persone capaci di integrare contesti lavorativi o sistemi produttivi, non raffinano gli strumenti primari prodotti dalle scienze esatte. Le scienze umane sono un contesto di educazione alla complessità del pensiero.

Non perdiamoci per strada e proseguiamo la nostra rassegna, costellata di luoghi comuni.

 

Il binomio tra Italia e cultura

L’Italia è il Paese della cultura”. Nel corso dei decenni, dopo la Seconda Guerra mondiale, mezzo mondo ha compreso il ruolo strategico del soft power, negli equilibri geopolitici internazionali: la stabilità della competitività nazionale sulla scena globale deve fondarsi più sull’attrattività che sulla coercizione. Eppure l’Italia è probabilmente uno dei Paesi europei a considerare la strategia di diplomazia culturale come un accessorio, uno spazio concesso ai piccoli mentre i grandi si occupano della diplomazia seria. Forse peccando un po’ di narcisismo, cediamo alla tentazione di considerarci superiori al bisogno di affermare il nostro carisma culturale, riconoscendoci eredi della classicità, dell’Umanesimo, o del Rinascimento. L’Italia è il Paese della cultura, e non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno.

Se infatti il Ministero degli Affari Esteri delinea con chiarezza i confini concettuali delle iniziative di diplomazia culturale, la complessità dello scenario istituzionale che ne viene coinvolto – più o meno direttamente, più o meno consapevolmente – non lascia addito a dubbi circa l’efficacia e l’organicità di una proposta complessiva. A questo si aggiunge una frammentazione delle istituzioni e delle fondazioni culturali, che agiscono senza concertazione strategica, semplicemente mossi dalla discrezionalità di chi le guida, o condizionati dalle occasionali opportunità di finanziamento.

 

Vivere e morire di turismo

Ma andiamo avanti e passiamo al luogo comune successivo: “l’Italia potrebbe vivere solo di turismo. È indiscutibile che l’industria turistica rappresenti un pilastro dell’economia nazionale, pari a una quota che per il 2016 oscillava, nelle numerose indagini disponibili, tra l’11 e il 13% del PIL. È altresì vero che si potrebbe aspirare a un netto miglioramento nella pianificazione, nella gestione e nel monitoraggio del sistema turistico, che potrebbe determinare, secondo le stime disponibili, un incremento del peso di settore fino al 20% del PIL nazionale.

Contestualmente, le problematiche che le destinazioni si trovano a dover gestire, in termini di sovraffollamento, di sovraccarico delle infrastrutture e dei servizi, di insostenibilità dell’incidenza del turismo sui territori e di invivibilità per gli abitanti, rimangono un elemento critico che spesso si cerca di nascondere sotto al tappeto. Il Piano Strategico per il Turismo che il MiBACT ha delineato per il periodo 2017-2022 risponde in maniera parziale, a tratti timida, alle tante criticità da affrontare. Se è vero che l’Italia può vivere di turismo, è altrettanto vero che, di turismo, potrebbe anche morire.

A fronte delle molte proposte formative che, a vari livelli, profilano il percorso dei futuri professionisti di settore, permane infatti la mancanza di una regìa comune, che deve far fronte alla mai risolta tensione tra competenze statali e competenze regionali, resa ancora più complessa dalla mutabilità del Ministero di riferimento per la materia turistica. Occorrerebbe poi affrontare il problema dell’interpretazione stessa del paesaggio, che rischia costantemente di essere semplicemente trasformato in “destinazione”, privando di ogni altro valore evidente la natura stessa di un territorio.

Il Paese più bello del mondo

Ma proseguiamo e passiamo al terzo – per ora ultimo – luogo comune.

L’Italia è il Paese della bellezza”. È innegabile, non possiamo che provare un certo orgoglio nel riconoscerci parte di un sistema che ha fatto della propria bellezza il vanto nel mondo. Ancora una volta, però, siamo fortunati eredi di un passato glorioso, costretti a fare i conti con un impegno non irrilevante.

Il report di analisi Io sono cultura – L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi, elaborato nel 2018 da Fondazione Symbola e Unioncamere in collaborazione con la Regione Marche, ha calcolato che il sistema dell’economia creativa italiana ha generato nel 2017 oltre 92 miliardi di euro, con una capacità di moltiplicazione pari a 1.8 (in pratica, i 92 miliardi prodotti in maniera diretta hanno attivato processi e sistemi produttivi che ne hanno generati altri 163). Se è vero che le risorse intellettuali e le competenze contribuiscono ad alimentare un trend positivo, è altrettanto vero che tendiamo ad accontentarci di risultati ampiamente migliorabili.

I dati danno ragione al luogo comune, ma impediscono di guardare con maggiore attenzione alle potenzialità inespresse di un sistema produttivo in buona parte rallentato – se non addirittura ostacolato – dall’inadeguatezza delle politiche di settore. Frammentazione degli ecosistemi, contraddittorietà degli orientamenti ai diversi livelli territoriali, iperburocratizzazione delle procedure, mancanza di concertazione e competizione interna sono solo alcune delle caratteristiche che rendono il terreno dell’industria culturale e creativa un ambito per temerari e visionari.

A tutto ciò occorre aggiungere una condizione aggravante, che sembra essere stata ridimensionata e relegata a quella lunga lista di variabili accessorie di cui non è necessario tener conto. Non può esistere economia creativa senza una cultura a ispirarla, a sostenerla e ad alimentarla. L’Italia sarà anche il Paese della bellezza, ma la bellezza va compresa, custodita e valorizzata.

 

Dal passato al futuro, dal buon senso alla strategia

Cultura, turismo, bellezza. Se volessimo cedere alla tentazione dell’ennesima banalizzazione, potremmo semplicemente confermare la grandezza dell’Italia, vittima del contesto geopolitico ed economico internazionale, ma saldamente retta e protetta dalla volontà e dal coraggio di “un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. Tuttavia, la grandezza di un sistema si deve fondare su una salda autocoscienza e sulla capacità di adattarsi al mutare delle condizioni, che si traduce, in entrambi i casi, in un costante processo ciclico di analisi, (ri)elaborazione strategica e monitoraggio della situazione interna in relazione alla condizione esterna. Se è vero che la cultura, l’economia creativa e il turismo possono svolgere un ruolo trainante nell’economia complessiva del Paese, è altrettanto vero che occorre la lungimiranza necessaria a favorire un processo di adeguamento delle competenze.

Una delle peculiarità del sistema dell’economia creativa italiana, in tutte le sue declinazioni, è la sostanziale assenza di sistemi di accompagnamento nella transizione dall’acquisizione delle competenze alla traduzione in esperienza imprenditoriale. Da una parte vantiamo il ruolo centrale della cultura, dall’altra affidiamo l’esito delle esperienze dell’economia creativa alla buona volontà, al buon senso o alla buona sorte. Tra i tanti incubatori esistenti in Italia, la realtà dell’economia creativa rimane, nella migliore delle ipotesi, marginale. I bandi e i contributi a fondo perduto non rappresentano la soluzione alla necessità di potenziamento di un ecosistema produttivo di carattere settoriale. Al contrario, spesso rappresentano elementi di distrazione, che costringono le imprese e le istituzioni del settore a dover deviare dalla propria missione (se ne è stata identificata una) per far fronte alle esigenze imposte dalla contingenza. È normale: se la priorità è pagare le bollette dell’ufficio, non si può pretendere che le energie vengano disperse in altre attività. E proprio qua si inceppa il sistema.

La cultura non è un accessorio di lusso, ma un motore di sviluppo. In quanto tale, non può affidarsi al carattere occasionale o straordinario di finanziamenti o contributi, ma deve costruire una propria strategia finalizzata a garantire una condizione di sostenibilità. L’impresa culturale necessita un sistema di professionisti capaci di tradurre la cultura in visione imprenditoriale, capaci di interfacciarsi con il tessuto produttivo, capaci di costruire strutture in grado di affacciarsi sul mercato e di dominarne le variabili. E contemporaneamente necessita di un sistema che garantisca processi di sviluppo e percorsi di accompagnamento e posizionamento su un mercato che ha proprie regole e proprie dinamiche.

 

Ritornare giganti

Non voglio prendere in considerazione il caso britannico, che presenta caratteristiche storiche, economiche e culturali molto diverse, relativamente al tema della filantropia come strumento di supporto allo sviluppo integrale della società. Credo, però, che valga la pena lanciare qualche riferimento, a mo’ di provocazione, per evidenziare la possibilità, anche in contesti meno consolidati, di tradurre il potenziale – inespresso e necessario – della cultura in motore economico.

La Riga International School of Economics and Business Administration offre ai propri candidati imprenditori un Creative Business Incubator; il Center for Creative Economy di Winston-Salem (in North Carolina) ha creato un Creative Startups Accelerator; l’associazione Culture & Creativity, che riunisce i contesti creativi di Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina, propone uno startup accelerator for the creative economy. Esistono modelli virtuosi che meriterebbero di essere analizzati, per poter ricavare esempi e identificare criticità in una prospettiva di adeguamento allo scenario nazionale. In Italia abbiamo incubatori in ogni angolo, talvolta caratterizzati da approcci anti-economici per le startup ospitate, spesso privi degli strumenti necessari a veicolare le neonate imprese dalla fase dell’incubazione alla fase dell’accelerazione.

Essere nani sulle spalle di giganti è un vantaggio, ma non basta. Forse è giunta l’ora di scendere e di accettare che dobbiamo cominciare a crescere.

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