Confronto e controllo: giudicarsi al tempo dei social

Solo sino a 10 anni fa era tutto molto più facile, bastava inventare una scusa. Un “mi spiace sono fuori” vago, molto vago. Oppure una splendida bugia di quelle che si usano quando ti dicono “E allora cosa fai?” (che significa come va la tua vita?). Inventarsi soddisfazioni ed impegni di sana pianta e darsi […]

Solo sino a 10 anni fa era tutto molto più facile, bastava inventare una scusa. Un “mi spiace sono fuori” vago, molto vago. Oppure una splendida bugia di quelle che si usano quando ti dicono “E allora cosa fai?” (che significa come va la tua vita?). Inventarsi soddisfazioni ed impegni di sana pianta e darsi per impegnato, terribilmente, felicemente impegnato.
Potevi farlo anche se rientri tra quelli che le bugie non le sanno dire, tra quelli che arrossiscono dicendo ai bambini che Babbo Natale esiste davvero. Potevi farlo: chi se ne può accorgere per telefono?

E così bastava una scusa per evitare di andare a quelle rimpatriate della V B o del terzo liceo. Perché tanto si sa come va a finire. Si sa che non sono fatte mica perché fa piacere.
Sono fatte, più o meno consapevolmente (ma questo è il risultato) per confrontarsi, per confrontare le vite e sentirsi sfigato. O magari, ma capita di rado, uscirne rafforzato, vedere tutti grassi, calvi e mammoni e dirsi “non sono messo così male”.

Sino a 10 o 15 anni bastava una scusa, oggi no.
Ogni santo giorno è una rimpatriata di classe, è un confronto. Anzi, viviamo nell’era del confronto perpetuo. Sono i social bellezza!

Controllo sociale e controllo sui social

Émile Durkheim riteneva che la società potesse influenzare il singolo individuo, andando a generare di conseguenza, comportamenti di rifiuto dello status quo, anticonvenzionali. Fosse vissuto in questa epoca, in quella dello smart phone a tavola, avrebbe avuto di che dirne, soprattutto in riferimento alle aspettative.

È stato il digitale, ma soprattutto i social, a creare questo confronto perpetuo, interiore. A dettare una lista quotidiana di successi, traguardi, canoni, ideali ed anti ideali, con i quali confrontarci.

E consapevolmente o meno, contenti o meno, ci troviamo ogni giorno a farne i conti, anche quando sembra vorremmo non prenderli in considerazione.
Anche dire “non sono uno di quelli che fotografano il cibo” non è così originale come si può pensare. Anche qui stiamo “controllando e definendo” ciò che siamo non su basi oggettive o specifiche, ma ancora una volta in riferimento agli altri.
E va bene non è niente di nuovo, è nella natura umana, ma non è mai stato così veloce ed esasperato come adesso.

Viviamo una situazione nuova, complessa e paradossale. Viviamo nell’era del “come ci vediamo visti”, che è una forma di introspezione, reputazione, quasi in forma patologica.

specchio-social

Ne aveva parlato per la prima volta Charles Horton Cooley, all’inizio del Novecento:”l’io che si riflette allo specchio”, ed oggi gli specchi social hanno fatto il resto del gioco.
Ne ha parlato l’anno scorso Gloria Origgi in “La Reputazione”, lo viviamo oggi, già da tempo, e senza sosta.

Il più grande cambiamento è che prima il fenomeno riguardava in forma più controllata re e regine, imperatori e papi, poi potenti e politici, quindi divi e dive del cinema, e infine tutte le pop star del sistema mediatico. Infine l’io sociale si è dilatato a dismisura e la reputazione è ora parte sostanziale dell’identità di milioni d’individui. “ (…)
“Reputazione significa “essere riconosciuti tali dagli altri”.

Il che produce un effetto paradossale: non c’è proporzione tra il valore psicologico e sociale che attribuiamo alla reputazione e la sua esistenza puramente simbolica. Diamo grande valore all’immagine di noi stessi custodita dagli altri, così da essere ossessionati dalla nostra stessa reputazione, con l’eccezione per le celebrità dello star system, la cui considerazione interessa probabilmente tutti.”

Vicinanza ed opportunità: perché oggi è ancora più complicato

La complicazione viene ancora dai social, dalla velocità con la quale certe storie ci vengono raccontate, o dal fatto che un algoritmo scelga quale, cosa e quanto dobbiamo saperne.

Il primo aspetto è che più un post, una persona, ha “successo” (o così appare) e più ce la ritroviamo sotto il naso.

L’altro aspetto, ancora collegato ai social ma anche alla rivoluzione digitale, è che tutto appare possibile. Viviamo nel miglior momento della storia per emergere, per diventare famosi, finire in tv o diventare milionari. Così sembrerebbe. I famosi garage tanto enfatizzati sono la nuova favola: tutti possono fare tutto; ed in parte è una cattiva notizia.

Come ha raccontato Alain De Botton in un famoso Ted, il cambiamento delle opportunità e della percezione di ciò che è possibile fare, è la causa di altrettanta carenza di stima, depressione, insoddisfazione.

Nel Medioevo in Inghilterra (ma in generale nel mondo) quando si vedeva una persona molto povera all’angolo della strada, la si definiva sfortunata. Oggi si parlerebbe di “perdente”.

Il fatto che tutto sia così fattibile porta a pensare in questo modo. E l’eterno confronto porta a pensarla in questo modo.
Colpa della Vicinanza: sui social ed in questo tempo siamo tutti pari > e fa più male.

“Chi invidia o si preoccupa di quanto più ha la Regina Elisabetta?!

Appunto. Vicinanza, perpetuo confronto ed amarezza.
Sono i social, sono i tempi bellezza!

Sopra il Ted completo sottotitolato in italiano

 Come uscirne? (se si può ancora…)

Lo star system, il discorso di Alain, la reputazione che viaggia veloce, le opportunità ovunque…tutto fantastico sin quando funziona. Un disastro in tutti gli altri casi.
Ci sarà una via d’uscita?

Probabilmente si. Fermarsi, ricordarsi che c’è vita sulla terra, che si può ancora perdere qualche minuto per parlare con le persone, conoscere la “vera” storia. Conoscere insomma il nostro interlocutore non ciò che vuole apparire.

E controllare il nostro successo più sui fatti che sulle apparenze o sul confronto. Ricordare anche che il “confronto è spesso falsato”, un’immagine distorta, un gioco al quale tutti giochiamo. Ah ecco, ricordare che è un gioco. La vita invece non lo è affatto.

Perché in fondo a pensarci bene sin quando c’è la salute, sin quando ci si alza dal letto con entusiasmo, si è contenti di fare il proprio lavoro, va tutto bene.
O ricordarsi che se un giorno vai ad una rimpatriata e li vedi davvero, beh…potresti davvero rimanere stupito, fare come il tipo che tornò a casa tutto contento.
Il tipo che rimboccando le lenzuola disse: Wow, non sono così male!
No, non siamo così male.
Se torniamo ad avere i giusti riferimenti, preoccuparci delle cose davvero importanti, non è così male.
Siamo in forma e tutti vincenti.

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