Consulenze variabili e parzialmente nuvolose

L’esistenza della consulenza è un grande mistero. Ma forse l’esistenza dei consulenti lo è ancora di più. Sono entrato nel mondo del lavoro da relativamente poco tempo, ma se c’è una frase che ho sentito pronunciare davvero spesso è: “Giuro che mai e poi mai mi sarei sognato di fare il consulente. Eppure.”. E insisto: […]

L’esistenza della consulenza è un grande mistero. Ma forse l’esistenza dei consulenti lo è ancora di più.

Sono entrato nel mondo del lavoro da relativamente poco tempo, ma se c’è una frase che ho sentito pronunciare davvero spesso è: “Giuro che mai e poi mai mi sarei sognato di fare il consulente. Eppure.”. E insisto: qualora entrassi in una quinta superiore qualsiasi e chiedessi agli studenti che cosa vogliono fare una volta entrati nel mondo del lavoro, non ne troverei uno che mi risponda “il consulente!”.

E tuttavia eccoci qua, sempre più numerosi ad aver scelto un lavoro che non sognavamo, in un ambito del mondo del lavoro che conosce ritmi di crescita e di volumi non facilmente riscontrabili altrove in Italia. Il nostro Paese, le nostre aziende, i nostri professionisti, sembrano avere sempre più bisogno di queste figure. Quello del consulente può essere un lavoro tremendamente stimolante, arricchente e pieno di significato, perché votato ad aiutare l’altro e a trovare continuamente soluzioni a problemi. Eppure, solo di rado dall’esterno si riesce a percepire quanto complicato e delicato sia questo lavoro, soprattutto per chi lo vuole fare bene per davvero. Insomma, fare il consulente è difficile. Molto difficile. Perché?

Ecco alcuni spunti per capire quali sono gli scogli contro cui cozza spesso l’operato dei consulenti nel loro lavoro, insieme a una provocazione per poterli superare. Non è un caso che tre di questi siano i tre pilastri del project management: tempo, denaro e qualità. A cui sono aggiunte due variabili: il cliente e la vocazione.

 

Pilastri di consulenza e project management

Tempo. Elemento fondamentale. Il consulente non di rado lavora per consegne, invece che per orari. Per questo, se gli viene chiesto di consegnare un prodotto, un’analisi, un output entro quattro ore, lo deve semplicemente fare. Quando si avvicina la fatidica ora di consegna una domanda emerge spesso: “Lo faccio male pur di consegnarlo? Oppure devo trovare un modo per consegnarlo bene in meno tempo, evolvendo non in fretta, ma subito?”.

È una questione non da poco. Correre a velocità folli pur di farcela fa spesso perdere prospettiva, come quando si guida un’auto a velocità troppo alte. Serve uno sforzo immane per riuscire ad alzare la testa e ritornare a vedere la big picture, che spesso è la ragione intrinseca per cui si è stati assunti. Ed è questa una delle ragioni essenziali per cui i consulenti seri, veri gestori della complessità, riescono a portare una marcia in più nelle realtà con cui si trovano a collaborare.

Denaro. Spesso il consulente vorrebbe aiutare il cliente con la migliore soluzione possibile, ma il budget è insufficiente. Quindi passa il tempo a strizzarsi il cervello per tirare fuori il risultato migliore possibile, con nella testa la coscienza martellante che per fare bene quella cosa a volte ci sarebbe voluto magari il doppio del budget.

Ma raramente si fa partire un progetto partendo dalla domanda: “Come faccio a fare (bene) questa cosa?”. Si parte piuttosto dalla domanda: “Come faccio a fare questa cosa col massimo risultato e spendendo il meno possibile?”. Tutto parte, quindi, da due domande apparentemente simili, che però portano a destinazioni completamente differenti. Il consulente è proprio colui che deve riuscire a far virare il timone del progetto verso il bene dell’azienda che aiuta.

Qualità. Quante volte il consulente rischia di sacrificare le consegne sull’altare della qualità? Come la verità in guerra, la qualità è spesso la prima vittima di molti progetti. La coperta è troppo corta? Taglia qui. La coperta è ancora troppo corta? Sacrifica là. E il consulente è spesso lì a tagliare con i bilancini affinché le cose abbiano ancora un senso, correndo continuamente il rischio di ridursi a fare tutto solo per riuscire a consegnare, piuttosto che chiedersi se sta rispondendo al bisogno reale del suo cliente. Eppure è proprio il consulente che, non di rado, riesce a portare nelle aziende quella qualità di cui hanno bisogno, e che non riuscirebbero a produrre se fossero da sole.

In altre parole, la consulenza vera non crea meccanismi di dipendenza e non si sostituisce al cliente. La consulenza vera è quella che supporta il cliente a trovare delle soluzioni che da solo non riesce a vedere.

 

Le variabili della consulenza

Clienti. Chi ha detto che il consulente ha un solo cliente? Fra le molte categorie professionali, il consulente è forse il perfetto rappresentante del detto per cui non si ha un cliente solo, ma se ne hanno molti. E ognuno ha da dire la propria e, in gradi e misure diverse, deve essere ascoltato:

  • il cliente vero e proprio, che in realtà spesso esprime volontà diverse contemporaneamente, essendo non di rado una realtà anche politica;
  • il proprio responsabile, che magari spinge da una parte;
  • il PM, che spinge dall’altra;
  • l’expert, che ritiene che la soluzione giusta sia proprio quella;
  • il referente, che punta a mediare invece che a trovare una soluzione.

Il consulente spesso è tentato di trovare una mediazione fra tutti questi “clienti”. In fondo riuscire ad accontentarli tutti sarebbe già un risultato notevole, no? Eppure il vero consulente è quello che riesce a gestire la complessità di molteplici esigenze, inserendo a sua volta un’ulteriore, impossibile, variabile: quella del riuscire a rimanere focalizzato non solo alle esigenze dei “clienti”, ma anche alle reali esigenze per cui è nato il progetto. Il consulente ha uno sguardo diverso da quello del cliente, uno sguardo esterno che riesce a fare letture coerenti e oggettive: questa è la ragione per cui non può pensare di sostituirsi al suo operato.

Vocazione. Sembra banale ma non lo è. Perché fai il consulente? Perché ti sei buttato in questa avventura piena degli ostacoli appena raccontati? Soprattutto se, in fondo, non hai passato l’infanzia a pensare che avresti voluto fare proprio quel lavoro lì. Perché spendersi così tanto per qualcosa che alla fine non è nemmeno tuo, di cui altri godranno i frutti, e non di rado anche i meriti?

Probabilmente il punto non è trovare una risposta, ma capire che nel vero consulente questa domanda non è morta, uccisa da una quotidiana mancanza di:

  • tempo;
  • denaro;
  • qualità;
  • chiarezza dei ruoli;
  • significato (per alcuni).

Nel consulente persiste, nonostante tutto e tutti, l’attenta ricerca del bene comune, pur facendo di continuo compromessi spesso inevitabili, senza cercare primariamente risultati facili, privi di prospettiva e ritorni reali. Egli cerca di fare consulenza “bella”, quella che fa emozionare e ti toglie il sonno; quella che aggiunge valore, non quella che toglie lavoro. Una continua ricerca che non muore, sia per convinzioni personali, sia grazie al sostegno di una corretta cultura aziendale, sia grazie al prezioso supporto del proprio team (quando c’è).

Forse è per questo che i consulenti, quelli veri, sono così dannatamente utili. Perché il loro difficile lavoro è riuscire a trovare una mediazione continua, talvolta disperata, fra sconfinati fattori che tirano verso il basso tutti i buoni propositi, per riuscire a raggiungere la meta di quel bene comune (un prodotto fatto bene, un’analisi fatta bene, un’operazione fatta bene, un passo in avanti per l’azienda fatto bene) che la complessità della vita aziendale a volte impedisce di raggiungere autonomamente. Un lavoro di ricerca del bene fatto sporcandosi le mani, dove tutto spesso si fa opaco, la luce manca e si è lontani mille miglia da esperienze lavorative sicuramente più “pulite”; ma al contempo immensamente utile, per tutti, quando fatto bene sul serio.

 

 

L’articolo è stato scritto in collaborazione con Lisa Manzati di Openknowledge

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