Dal lockdown a LinkedIn, l’identità è digitale

Secondo un’inchiesta, pubblicata da Il Sole 24 Ore lo scorso 28 aprile, la gestione del lockdown legato all’emergenza sanitaria ha cambiato in modo radicale il nostro modo di essere presenti sui social network. L’inchiesta sottolinea che circa il 70% delle persone intervistate dichiara di avere avuto un notevole incremento nell’utilizzo delle piattaforme, con un picco […]

Secondo un’inchiesta, pubblicata da Il Sole 24 Ore lo scorso 28 aprile, la gestione del lockdown legato all’emergenza sanitaria ha cambiato in modo radicale il nostro modo di essere presenti sui social network. L’inchiesta sottolinea che circa il 70% delle persone intervistate dichiara di avere avuto un notevole incremento nell’utilizzo delle piattaforme, con un picco del +40% tra gli over 55, che dichiarano di aver trascorso almeno due ore al giorno a spasso tra un social e l’altro.

Facebook resta ancora saldamente in cima alle preferenze degli adulti, mentre TikTok cresce, registrando un +11% di sottoscrizioni. In questo contesto, il 50% dei millennial ha partecipato e promosso campagne legate alla raccolta fondi, mentre il 40% dei boomers ne ha sostenuta almeno una pubblicamente, benché dati #ILDONONONSIFERMA mostrino che con la riapertura le donazioni siano drasticamente in calo.

Inoltre, dati Adnkronos dell’8 maggio mettono in evidenza che il 94% della popolazione on line ha usato in modo costante servizi di instant messaging, trascorrendo in media 40 minuti al giorno in più (+53%) sui social network e 28 minuti in più (+77%) sulle app di messaggistica rispetto all’anno precedente. La ragione? Principalmente per informarsi sul coronavirus (54%). Ma non solo. L’esigenza di mantenere contatti e relazioni, limitata dal distanziamento sociale, ha fatto sì che i social occupassero il posto che prima era riservato alle piazze, ai luoghi di ritrovo e, perché no, ai luoghi di lavoro, che costituiscono da sempre uno spazio privilegiato per l’interazione sociale. E durante il lockdown LinkedIn ha preso il posto di questi ultimi.

Nato nel 2003 negli Stati Uniti e disponibile in lingua italiana dal 2010, LinkedIn è il social network professionale per antonomasia e rappresenta la prima rete web destinata al mondo del business. La sua funzione principale? Favorire il networking, lo scambio di contatti fra professionisti: per creare occasioni di lavoro, intercettare risorse umane, stimolare convergenze, sinergie e collaborazioni.

Un fenomeno di massa? A quanto pare, sì. Secondo dati divulgati dalla piattaforma nel 2020, LinkedIn è il social network professionale preferito al mondo, con 645 milioni di utenti in più di duecento Paesi e con una crescita dell’audience totale di oltre il 3% nell’ultimo trimestre del 2018. Secondo un’indagine di Studio Samo pubblicata nel 2019, l’incremento percentuale maggiore si registra in Myanmar, dove LinkedIn ha aggiunto circa 80.000 nuovi utenti da dicembre 2018 a febbraio 2019; seguono il Giappone (+14%), la Corea del Sud e Singapore (entrambi +13%), mentre l’Italia vanta la terza community in Europa, con oltre 13 milioni di iscritti. Inoltre, in base a uno studio reso noto da Federmanager lo scorso anno, il 79% dei manager nostrani è presente sulla piattaforma, considerata nel 70% dei casi tra le fonti di informazione più autorevoli. Ex aequo con il Wall Street Journal e Forbes online.

Ma quando parliamo di LinkedIn, oltre alle cifre c’è di più. Codici, ergonomia, legittimità linguistica, ma anche proletariato digitale e la negoziazione di nuove frontiere tra pubblico e privato: tutti ne parlano, molti lo usano, in pochi conoscono davvero il lato nascosto del social network professionale per eccellenza. Ne abbiamo parlato con Mariem Guellouz, semiologa, sociolinguista, docente all’Université Paris Descartes – Université de Paris e ricercatrice al CERLIS (Centre de Recherche sur les Liens Socials) di Parigi. E vi raccontiamo cos’abbiamo scoperto, in quindici punti.

La semiologa Mariem Guellouz, intervistata da Senza Filtro sul funzionamento nascosto di LinkedIn.
La semiologa Mariem Guellouz.

 

1. Una piattaforma per ogni scopo

«Ciascun social network ha una propria specificità, e oggi è possibile parlare di vere e proprie forme di specializzazione delle piattaforme», commenta Mariem Guellouz. Sì, perché LinkedIn è evidentemente utilizzato in modo diverso — e con scopi diversi — rispetto a Facebook, Twitter e Instagram.

«Tempo fa ho ricevuto un meme molto divertente, con l’immagine di una stessa persona, ma su social network diversi: seria e durante il giorno della laurea su LinkedIn, con gli amici su Facebook, in viaggio su Instagram e in una dimensione più intima e basata sulla seduzione su Tinder. È evidente, quindi, che piattaforme diverse implichino spazi di comunicazione diversi. Che utilizzano codici, marche linguistiche e procedure discorsive differenti.»

In definitiva, è il contesto dell’interazione che determina il modo di costruire e di comunicare e noi stessi.

 

2. Identità (digitali) nascoste

L’ethos è la nostra identità digitale che, secondo il linguista Julien Longhi, si configura nella rappresentazione di sé e dell’altro nell’interlocuzione: in che modo i contenuti che condividiamo e commentiamo contribuiscono a creare la nostra identità in rete? E in quale misura le azioni degli altri (le condivisioni e i commenti ai contenuti, i like) contribuiscono a raccontare qualcosa di noi?

Nello specifico, secondo Longhi costruiamo la nostra identità sul web attraverso un ethos prediscorsivo: il sapere dell’interlocutore, l’insieme delle conoscenze condivise. La competenza enciclopedica, per dirla con le parole di Umberto Eco; e un ethos discorsivo, che si basa sul grado di fiducia ispirata dal locutore (chi parla) per effetto dell’enunciato (ciò che dice, ma anche il modo in cui lo si fa).

«Su LinkedIn sono presenti forme di ethos discorsivo molto specifiche», chiarisce Guellouz. «LinkedIn mette in rilievo il lato professionale e onesto, ma al tempo stesso attrattivo dell’utente». E dà vita, quindi, a un’identità digitale ad hoc, diversa da quella che costruiamo sulle altre piattaforme on line. «L’identità digitale è sempre co-costruita, malleabile. Dinamica. E dipende sempre da due fattori: il contesto di comunicazione e il processo di interazione. Un politico, ad esempio, costruisce su Facebook un ethos diverso, e in genere più legato alla dimensione personale rispetto a quello che mette in campo su LinkedIn, che ne evidenzia il percorso e le attività».

 

3. Spazi multipli, identità diverse

In definitiva, ciascuno di noi costruisce identità distinte su piattaforme diverse. Un po’ come in Vertigo, il capolavoro di Alfred Hitchcock in cui la protagonista riveste il doppio ruolo di Madeleine Elster e Judy Barton. Ma allora, e da un punto di vista squisitamente filosofico, in che modo possiamo definire l’essenza della nostra identità se ciascuno di noi possiede identità diverse?

Secondo il filosofo Alfred Tarski, la nozione di verità è stabilita in base a una serie di relazioni comparative: da una parte troviamo il reale, dall’altra la sua rappresentazione; e solo attraverso una serie di confronti possiamo stabilire quanto (e se) la seconda è conforme al primo. In definitiva, secondo Tarski potremmo dire che l’essenza di qualcosa è la sua rappresentazione più esatta, quella che lo riproduce nel modo più fedele. Eppure, lo abbiamo visto, l’identità spensierata di Facebook e quella intellettuale di Twitter, così come l’immagine estetizzata che costruiamo su Instagram e quella professionale di LinkedIn, sono tutte, e in modo ugualmente autentico, diverse facce della stessa medaglia. E allora, qual è l’effetto che queste identità multiple determinano sul ricevente?

«Non credo che l’ethos sia qualcosa di omogeneo», commenta Guellouz. «E credo che i social network giochino parecchio sulla molteplicità che ci costituisce sul digitale. Tutti noi siamo eterogenei e l’essere umano è dotato di una plasticità sufficiente per costruire e perseguire questa molteplicità. Oggi, per esempio, non è più una sorpresa vedere su Facebook una persona rilassata, che ama viaggiare, e ritrovarla poi su LinkedIn, in versione seria, professionale, con la foto alla scrivania o il giorno della laurea. Certo, è evidente: ogni identità è sbilanciata; ma al tempo stesso, le persone sono consapevoli del fatto che esistono dei codici, che sono specifici per ogni singola piattaforma. E oggi questi codici sono condivisi e radicati nelle dinamiche relazionali».

 

4. La memoria digitale

Ma alcuni recruiter potrebbero pensarla diversamente. Perché ambire a essere assunti nell’era dei social network significa anche tenere a mente che chi si occupa di selezione del personale potrà consultare i nostri profili social, per conoscere più da vicino le nostre attitudini e le nostre qualità. «È per questa ragione che consigliamo a chi cerca lavoro di non condividere qualsiasi contenuto su Facebook o Twitter», chiarisce Guellouz. «Esiste, infatti, una memoria digitale, che si costruisce attraverso la nostra identità: attraverso tutte le tracce che lasciamo in rete. E quando parlo di tracce mi riferisco a tutto ciò che è stato scritto, condiviso, commentato. I nostri post, le reazioni, le foto; ma anche gli strumenti attraverso cui gli altri interagiscono con noi, come i tag e i commenti ai contenuti che pubblichiamo: sono tutte tracce, che lasciamo sulla rete, che diventano parte della nostra identità. E che, spesso, sono permanenti».

Secondo Marcel Proust, il ricordo delle cose passate non coincide necessariamente con il ricordo di come queste siano state veramente e, nell’epoca in cui il social recruiting affianca la valutazione del curriculum vitae alla visione dei profili social, la questione dell’identità digitale diventa sempre più importante. «Esistono tracce che per forza di cose sfuggono al nostro controllo», prosegue Guellouz. «Chi si occupa di selezione del personale ha la possibilità di fare un tour dei social network, per capire in che modo una persona si presenta. Penso anche, però, che chi si occupa di selezione sappia che un candidato ha una vita personale a fianco del lavoro. E allora il fatto di viaggiare, di andare a mangiare fuori con gli amici, potrebbe rappresentare un punto a favore; potrebbe far pensare a una persona curiosa, che ha una vita sociale a fianco di quella lavorativa: a una persona socievole, che potrebbe essere quindi predisposta, ad esempio, a lavorare nelle vendite».

Il diritto all’oblio, che il Garante per la protezione dei dati personali definisce come «il diritto alla cancellazione dei propri dati personali in forma rafforzata», è un tasto particolarmente dolente quando si parla di social network: quando ci si iscrive a Facebook, per esempio, il nome dell’utente viene indicizzato su motori di ricerca esterni, automaticamente e senza un consenso precedente. E, in ogni caso, gran parte delle piattaforme obbligano alla cessione dei dati e dei contenuti condivisi. «Per questa ragione è fondamentale fare attenzione alle tracce che lasciamo sul digitale», conclude Guellouz. «Ed è per questo che parliamo di cittadinanza digitale: perché siamo responsabili delle tracce che lasciamo e delle tracce che le altre persone che lasciano di noi». In particolare su LinkedIn, che per codici e caratteristiche è finalizzato alla costruzione di un’identità professionale, onesta, performante.

 

5. Vizi privati e pubbliche virtù

Secondo lo scrittore Aldous Huxley, la memoria di ogni uomo è la sua letteratura privata. E tuttavia, alla luce delle considerazioni legate al tema della memoria digitale, qualche dubbio sorge.

«Il web ha complicato le cose e reso il confine fra pubblico e privato sempre più labile», commenta Guellouz. «Si tratta di un confine costantemente ridefinito, poiché tutto è sempre in procinto di essere rinegoziabile. Oggi non è possibile separare la nostra vita privata da quella lavorativa, perché l’essere umano lascia costantemente delle tracce di sé, spesso permanenti e legate alle caratteristiche stesse del web. Credo che la gente che utilizza LinkedIn debba essere consapevole di questa condivisione del privato nel pubblico, ma anche del fatto che oggi la nozione di intimità è in fase di ridefinizione».

 

6. LinkedIn e il marketing dell’identità

«Per queste ragioni, oggi è possibile pensare a un vero e proprio marketing dell’ethos sui social network, legato alle specificità delle singole piattaforme e alle possibilità tecnologiche cui esse sono intrinsecamente legate», commenta Guellouz. «Ad esempio, su Instagram non è possibile essere brutti. Su Instagram tutti sono belli, perché la piattaforma ha tutto ciò che serve — come i filtri — per la costruzione di un’immagine estetica, per un’estetizzazione di sé e del mondo. Su Instagram la vita è bella, estetizzata e ricerca il perfezionismo formale. E allora, possiamo dedurre che Instagram sia un social network “superficiale”? A mio parere, no: esiste semplicemente un’estetica specifica della piattaforma. E su LinkedIn avviene la stessa cosa: la costruzione di un’estetica professionale».

Ma, soprattutto, di un’estetica performante. «Quando parlo di marketing, mi riferisco al fatto che, in termini linguistici, viene operato uno spostamento enunciativo, in base al quale non è più chiaro qual è l’istanza discorsiva degli attori in gioco», chiarisce Guellouz. «Ad esempio, mi propongo su LinkedIn come ingegnere, con una laurea, e cerco lavoro nel campo dell’ingegneria robotica; ho queste competenze, ho svolto queste attività e raggiunto questi traguardi; dichiaro anche di adorare il mio lavoro e di essere disponibile a lavorare quindici ore al giorno. Questa non è soltanto una prima presentazione del proprio profilo, ma una forma di marketing del sé, sulla base delle regole del mercato.

LinkedIn induce a mostrare che il proprio profilo è il migliore sul mercato, di cui vengono messe in evidenza le leggi: ipercompetitive, spesso violente e, attraverso la piattaforma, marketizzate. Su LinkedIn tutto va bene, tutto è possibile: il contesto di lavoro, qualsiasi esso sia; il mercato del lavoro, nonostante le sue norme violente. E le stesse regole del lavoro, anche quando queste sono estreme: come dichiarare di essere disposti a lavorare quindici ore al giorno. Di conseguenza, l’incontro tra l’offerta e le leggi del mercato fa sì che la piattaforma si configuri come uno spazio di esercizio capitalistico importante».

Inoltre, attraverso queste forme di marketizzazione, LinkedIn non permette di mostrare realmente le proprie opinioni. «Ad esempio quelle politiche», precisa Guellouz. «Su LinkedIn possiamo affermare che siamo contro la fame nel mondo o che sosteniamo di un’associazione che tutela gli animali: questi sono punti positivi, soprattutto se legati a traguardi personali raggiunti. Al contrario, le opinioni politiche e l’impegno civile del cittadino sono relegati al servizio del mercato del lavoro».

 

7. Obiettivo: performanza

Ma quali sono gli aspetti linguistici e discorsivi che mettono in evidenza questa marketizzazione?

«Per prima cosa, LinkedIn prevede che l’utente scriva una breve presentazione di sé. Si può affermare, per esempio, di essere un semiologo o un dottorando, e queste sono, tutto sommato, assiologie neutre. Ma cosa succede quando entrano in ballo questioni più ergonomiche?», commenta Guellouz. L’ergonomia riguarda non solo la scelta della foto da inserire e la propria biografia, ma anche, per esempio, il numero e il tipo di contatti che seguiamo e che ci seguono. E gli obiettivi raggiunti. «Su LinkedIn gli utenti mettono per prima cosa in evidenza i traguardi conseguiti, come il fatto di aver scritto un libro o di aver vinto un premio. Inoltre, l’uso della lingua sulla piattaforma risponde a regole molto precise ed esistono parole specifiche che sono legate all’ergonomia di LinkedIn, intesa come la forma di interazione fra utenti e piattaforma».

Di conseguenza, non è LinkedIn in sé a “obbligare” l’utente all’utilizzo di parole come “produttività”, “eccellente” e “premio”: non è vincolante, per esempio, compilare la sezione dei “Traguardi raggiunti”. È la comunità virtuale che, poco per volta, ha impostato (e continua a dettare) le regole del gioco. Un esempio? LinkedIn permette di consigliare un contenuto attraverso cinque azioni specifiche: il pollice sollevato (consiglia), l’applauso (festeggia), il cuore (lo adoro), la lampadina (geniale) e la faccina che pensa (interessante). Queste cinque azioni, e l’applauso in particolare, rientrano in quella che la semiotica definisce “sanzione”: il momento in cui il soggetto (chi scrive) e la sua azione (ciò che scrive) vengono riconosciuti in quanto conformi. In definitiva, quanto più ci adeguiamo a questi codici non scritti, tanto più ciò che facciamo sarà riconosciuto e valorizzato da parte della comunità virtuale. E tanto più i codici della piattaforma si stabilizzeranno.

 

8. Alla ricerca del codice segreto

I codici sono la maniera attraverso cui gli utenti si appropriano della piattaforma, assieme ai relativi rituali di utilizzo. E sono legati alle caratteristiche ergonomiche e tecnologiche, ma anche al modo in cui gli utenti utilizzano i singoli spazi sul web. Cosa rende, per esempio, Facebook più ludico, Twitter più intellettuale e LinkedIn più professionale?

«Ciascun social network fa riferimento a codici differenti», commenta Guellouz. «Nel caso di Twitter, esistono esigenze sintattiche legate al limite dei caratteri, che impongono a propria volta la sintesi. Inoltre, su Twitter è possibile condividere delle immagini o dei video, ma sempre accompagnati da un commento. Il testo verbale, quindi, è fondamentale rispetto alle funzionalità tecnologiche della piattaforma. Diversamente, su Facebook possiamo condividere un’immagine o un meme in modo molto più semplice, e senza l’obbligo di commentare».

Ma quali sono i codici su cui si basa LinkedIn? «La piattaforma è legata al contesto professionale, ed è per questo che si propone come spazio neutro, in cui l’utente è chiamato a prendere le distanze dalla propria soggettività. Per esempio, in ambito politico», chiarisce Guellouz. «I codici di LinkedIn, quindi, riconducono al mondo professionale e più precisamente al mondo dell’impresa. Ad esempio, sulla piattaforma è possibile fare dell’humor, ma sempre in modo codificato, quindi distante dalle forme goliardiche che potremmo utilizzare sul nostro profilo Facebook. O ancora, sarebbe strano pubblicare su LinkedIn una propria foto in vacanza o in bikini, a meno che non si desideri apertamente attirare l’attenzione. Di conseguenza, quando i contenuti condivisi si allontanano dalle regole specifiche della piattaforma si crea una sorta di stigma. In sostanza, LinkedIn “chiede” di mettere in evidenza il nostro lato professionale in termini di riuscita, eccellenza e performance, e il tipo di linguaggio che utilizziamo, la nostra produzione discorsiva, ci avvicina o ci allontana da questi codici».

 

9. La lingua del web

Di conseguenza, la variabile diafasica — il registro tecnico-professionale della lingua — assume su LinkedIn un ruolo importante. Secondo il poeta William Butler Yeats, la lingua rappresenta la memoria collettiva “naturale” di una popolazione; se questa, per impossessarsi di un nuovo strumento linguistico, perde il contatto con il suo mezzo d’espressione più antico, diviene del tutto incapace di riconoscersi nelle proprie tradizioni. E quindi, di affermare la propria identità. Ma in che modo un certo utilizzo della lingua permette di costruire e di valorizzare la propria identità digitale su LinkedIn?

«La piattaforma offre tutte le funzionalità tecnologiche per mettere in evidenza una serie di marche discorsive, come l’uso di assiologie di tipo positivo legate alla “riuscita” e all’“eccellenza”», precisa Guellouz. «Più utilizziamo queste forme e più il nostro ethos acquista valore sulla piattaforma, e quindi sul mercato. Quando parlo di codici legati alle pratiche linguistiche, mi riferisco al fatto che LinkedIn offre minori libertà rispetto ad altri social network, e la questione dipende soprattutto dal fatto che il mercato del lavoro pone quella che il sociologo Pierre Bourdieu definisce “la questione della legittimità”. Su LinkedIn la lingua legittima è quella standard. Quella ufficiale. E cioè, quella stessa lingua che ha carattere di legittimità sul mercato del lavoro. A differenza, per esempio, di quanto accade su Twitter e su Facebook, che al contrario lasciano spazio a forme di scrittura oralizzata».

 

10. La questione dell’inglese

E, se come afferma Ennio Flaiano, l’italiano è la lingua parlata dai doppiatori, allora entra in ballo l’inglese: la lingua veicolare per eccellenza, che secondo uno studio realizzato da Ethnologue nel 2018 raggruppa 1,121miliardi di parlanti. Madrelingua e non.

«In primo luogo, più si utilizza l’inglese e più si è presenti sul mercato linguistico. E, di conseguenza, sul mercato del lavoro», chiarisce Guellouz. Ma condividere e commentare contenuti in lingua inglese connota anche — in termini barthiani: di significati simbolici, e quindi ideologici — competenza e professionalità. Possiamo estendere queste stesse considerazioni al code switching, il passaggio da una lingua a un’altra all’interno dello stesso messaggio comunicativo. Perché scrivere su LinkedIn che «lo speech di questa mattina, destinato ai manager, si è focalizzato sul time management» ci fa apparire più professionali che se scrivessimo «l’intervento di questa mattina, destinato ai dirigenti, si è focalizzato sulla gestione del tempo».

In definitiva, attraverso l’uso dell’inglese costruiamo un ethos discorsivo che ci fa apparire competenti, e richiamiamo l’insieme delle conoscenze condivise — l’ethos prediscorsivo — secondo cui, nel mercato del lavoro, è più opportuno parlare di speech piuttosto che di intervento.

 

11. E se parlo tante lingue?

Conoscere e parlare le lingue estere è considerato da sempre un fatto importante. Perché il plurilinguismo non ci permette solo di comunicare in un mondo globalizzato, ma ci offre anche uno sguardo su culture nuove e diverse dalla nostra. Ma che cosa accade quando proviamo a estendere l’idea di plurilinguismo a LinkedIn? «Oggi il mercato del lavoro incoraggia il plurilinguismo e la conoscenza delle lingue rientra fra codici specifici della piattaforma», prosegue Guellouz. «Ma, anche in questo caso, il legame con il processo di marketizzazione è forte».

In sostanza, plurilinguismo sì, ma non nell’accezione di amore per le lingue. «Il plurilinguismo è inteso come produttività, nel senso che il capitale e le imprese valorizzano la conoscenza di certe lingue piuttosto che di altre», chiarisce Guellouz. «Se una persona afferma di conoscere il giapponese, l’inglese e il cinese valorizza il proprio profilo LinkedIn sul piano del mercato; il discorso è diverso se sosteniamo di conoscere i dialetti italiani, senegalesi o le lingue del Mali. Di conseguenza, la necessità del plurilinguismo è legata semplicemente all’idea di comunicare, in modo produttivo, con molte persone, e riguarda richieste esplicite da parte del mercato del lavoro».

Essere la seconda persona al mondo a parlare il taushiro, un dialetto del Perù, o conoscere il liki, parlato in Indonesia da appena undici persone, non rappresenta, in definitiva, un valore aggiunto agli occhi degli utenti di LinkedIn. «Anche in questo caso possiamo parlare di forme di legittimità, nel senso che la piattaforma ritiene sia legittimo soltanto il plurilinguismo connesso al mercato del lavoro», conclude Guellouz. «Di conseguenza, se desideriamo proporci come opinion leader o influencer dobbiamo fare attenzione alle lingue che usiamo per comunicare».

 

12. Al secondo posto

Sono tanti i casi di attualità che testimoniano l’utilizzo della rete come spazio virtuale di coesione. E di contestazione. «In Tunisia, per esempio, gli utenti si sono appropriati degli strumenti del digitale, come Tor e il darknet, per sfuggire alla censura del governo, e hanno dato vita a movimenti politici all’interno di spazi web paralleli. Il digitale, quindi, ha permesso l’esercizio di una cittadinanza che è diventata politica malgrado la censura, e a poco a poco lo Stato e il governo hanno cominciato a temere la forza del web: la cyberdissidenza. La rivoluzione 2.0. Non è un caso che, qualche tempo dopo la rivoluzione in Tunisia, la gente abbia cominciato a scrivere sui muri “Grazie popolo, grazie Facebook”», commenta Guellouz.

Secondo il sociologo Ramon Oldenburg, il Third Place indica in modo generico una grande varietà di spazi pubblici, in cui la gente trascorre il proprio tempo in attività ricreative, attraverso le quali incontrare volti familiari e fare nuove conoscenze. Ma anche, e perché no, fare politica. E si contrappone al il First Place, la casa, il luogo in cui si vive; e al Second Place, il luogo di lavoro. E allora, se nel periodo della rivoluzione tunisina abbiamo potuto pensare a Facebook come a un Third Place in cui coltivare la cittadinanza e l’esercizio della politica, allora oggi, nell’epoca del COVID-19, degli incentivi al telelavoro e della riflessione sullo smart working (lo ricordiamo: sono due cose diverse!) non è difficile immaginare che LinkedIn possa diventare un Second Place virtuale.

 

13. Proletari di tutto il web, unitevi

Oggi il proletariato del web non è più solo quello della flex-insecurity e degli operai 2.0: di tutti quei programmatori, dei content editor e degli addetti al buzz marketing, dei grafici, dei social media manager, e dei rappresentanti delle altre categorie che non possiedono i mezzi di produzione e creano plusvalore nelle aziende in cui lavorano. Le quali retribuiscono sempre meno. «Secondo una ricerca condotta negli Stati Uniti, siamo tutti proletari del digitale», commenta Guellouz. «Anche se io direi, piuttosto, “lavoratori del digitale”, nel senso che oggi tutti lavoriamo gratuitamente per le piattaforme in rete».

«Trascorriamo molto tempo sul web e, malgrado tutto, produciamo informazioni per le quali non siamo retribuiti. Ogni volta che scriviamo un contenuto e lo condividiamo attraverso una piattaforma produciamo un’informazione. In molti casi, importante. Ad esempio, quando scriviamo e condividiamo una notizia inedita facciamo il lavoro dei giornalisti, ma senza ricevere un corrispettivo.»

E dunque, oggi tutti (o quasi) lavoriamo per il web, nel senso stretto del termine. E sono tanti i social network che non riconoscono un compenso a fronte di queste attività, nonostante siano proprio i nostri contenuti ad alimentarne il giro d’affari. In definitiva, si tratta di quello che alcuni ricercatori, come Dominique Cardon e Antonio Casilli, definiscono il digital labor: anziché produrre beni comuni (commons), le collettività producono del capitale.

 

14. Alla conquista del Nord Africa

Negli ultimi anni, LinkedIn ha registrato una forte crescita in numerosi Paesi nordafricani, come il Marocco e la Tunisia, varcando i suoi confini geografici tipici in modo sempre più massiccio.

«LinkedIn è utilizzato soprattutto nel Maghreb, e quindi in Marocco, in Algeria e in Tunisia. Nei Paesi nordafricani la lingua veicolare è il francese, fra le lingue principali sul mercato del lavoro, e la piattaforma offre la possibilità di redigere il proprio curriculum vitae in versione bilingue. In ogni caso, le pratiche di utilizzo e i codici legati alla piattaforma rimangono gli stessi», chiarisce Guellouz. «In Africa è Facebook il social network più diffuso, la piattaforma più presente nella vita delle persone; ma al tempo stesso, LinkedIn sta acquistando un’importanza crescente».

 

15. Uno sguardo al futuro

Conformismo, convenzioni. Regole percepite talvolta come inflessibili. Abbandono della soggettività. Codici via via sempre più rigidi e forme di interazione collettiva che li rinforzano. Raccontato in questi termini, LinkedIn sembra richiamare lo scenario distopico del Mondo nuovo di Aldous Huxley. Ma le cose stanno davvero in questi termini? E soprattutto, sarà possibile in futuro cambiare i codici della piattaforma, renderli più “umani”, cessando di mettere in luce solo il lato “efficiente” e “performante”, per dare finalmente spazio alla nostra soggettività?

«Certamente, tutto è possibile!», commenta Guellouz. «Gli utenti hanno sempre gli strumenti per impossessarsi dei social network, per ridefinirli e modificarli, per ri-appropriarsi dei codici, sovvertirli o inventarne di nuovi. Così com’è accaduto con Facebook, che prima della rivoluzione in Tunisia rappresentava uno spazio in cui condividere foto e contenuti privati: successivamente, ci si è resi conto che la piattaforma avrebbe potuto essere convertita in uno spazio in cui fare politica, dove “poter parlare”. I social network, quindi, presentano sempre forme di emancipazione, di presa di coscienza del proprio ruolo nella società e di esercizio della propria cittadinanza».

E dunque, la palla passa a noi. E non possiamo che raccogliere la sfida, per interrogarci sulle potenzialità, ma anche sui limiti di una piattaforma che ci vede tout court come professionisti. Benché la nostra natura, la nostra essenza, si confermi squisitamente umana.

 

 

Photo by Greg Bulla on Unsplash

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