Gli strumenti di flessibilità, come lo smart working e la settimana corta, sono segnali che ci portano in questa direzione?
Sì, ma la resistenza delle aziende è patologica. L’azienda vuole avere il dipendente il più possibile in ufficio, e quando dico l’azienda dico il capo. E anche il capo del personale. Tutti malati di potere e controllo. È servito il COVID-19 per sbloccare il processo del lavoro agile. Io la chiamo sindrome di Clinton: Clinton non avrebbe mai accettato lo smart working per la sua stagista. Le pare?
Nel calderone fluido di questo mercato del lavoro rientrano anche figure che il cambiamento lo subiscono, come i navigator e i percettori del Reddito di Cittadinanza.
Tutta una follia. Abbiamo detto che un tempo un lavoratore entrava alla FIAT a 18 anni e andava in pensione a 60. Ora entra a 18, lo licenziano a 21, si becca due anni di disoccupazione, poi trova un lavoretto con la gig economy, poi la disoccupazione, poi trova un lavoro che gli piace ma la ditta fallisce. Uno slalom attraverso queste peripezie. Che cosa significa? Che per essere aiutata, questa persona ha bisogno di un punto di riferimento nel centro per l’impiego, che lo segue e lo aiuta a superare le difficoltà. Queste condizioni ci sono in tutto il mondo, con reazioni diverse da Paese a Paese. In Germania, dove pure la disoccupazione è al 3.8%, hanno assunto 111.000 persone nei CPI, li hanno dotati di tecnologia possente, spendono 12 miliardi all’anno per mantenere la macchina. Noi abbiamo una massa che non supera i 13.000 addetti e spendiamo 680 milioni all’anno. Una macchina del tutto anemica. Quindi si è pensato di assumere qualcuno in più e si è deciso per 6.000, ma le Regioni non li volevano, pertanto si è scesi a 3.000. In conclusione, entrarono 2.800 professionisti, tutti con 110 lode e inseriti in un percorso di sei mesi di formazione. Dopodiché, anziché assumerli a tempo indeterminato hanno proposto un tempo determinato triennale. Ecco la storia dei navigator. Hanno assunto triennali per trovare tempi determinati ad altri. Questi poveracci, pure, sono stati respinti da alcune Regioni come la mia, la Campania. Si sono dati da fare pur essendo considerati degli intrusi; ciononostante hanno trovato lavoro a 350.000 persone, per poi essere stati sbattuti fuori come stracci. Una vicenda che grida vendetta. Figure create da Di Maio ma abbandonate dagli stessi 5 Stelle: poi in seguito la Catalfo (ex ministra del Lavoro, N.d.R.) manco li ha ricevuti. Una vergogna totale per la sinistra. Io sono stato l’unico intellettuale a difenderli. Ma non sono il ministro del Lavoro.
E se lo fosse non avrebbe scritto il decreto del lavoro appena uscito, immagino.
Appunto.
Torno al suo pensiero con una provocazione. I NEET sono persone libere?
Dipende da come vivono. Perché se vivono del tutto asserviti ai genitori, che li assistono e mantengono perché disoccupati, allora no di certo. Nelle famiglie si consumano drammi terribili, con genitori anziani che arrivano da un’altra realtà e non riescono a capire come mai i loro figli, che magari ha 110 e lode, è senza lavoro.
Con la disoccupazione ai minimi e tutte le aziende che cercano personale.
Non c’è incontro tra domanda e offerta. Una piattaforma di incrocio c’era, ai tempi di Mimmo Parisi. Tutto sommato funzionava. L’ho detto al sottosegretario Durigon, sarebbe da recuperare.
Però con quella piattaforma le Regioni non potevano comunicare tra loro.
La si stava implementando; comunque già averla a livello regionale è un buon punto di partenza. La Catalfo peraltro non ha mai reso pubblica quella piattaforma, mai varata.
Non credo che una piattaforma sia la panacea di tutti i mali.
Non esistono panacee, esistono solo soluzioni graduali che si usano fin quando ci sono. Un’aspirina non è in grado di offrire una cura definitiva, ma può alleviare la malattia.
Va bene, rimane il fatto che alcune figure sono introvabili. I tecnici specializzati, ad esempio. Come mai?
Quando mi chiamava Adriano Olivetti, sapevo bene di non poter fornire degli ingegneri specializzati in macchina da scrivere. Ingegneri con un’ottima istruzione di base invece sì. Poi si utilizzava un anno intero per adattare il generico alle esigenze specifiche. Le aziende hanno l’obbligo di assumersi il compito dell’ultimo miglio. La scuola può fornire la base, una formazione alta ma generica. La verità è che le imprese non vogliono spendere un euro. Sono state distrutte tutte le scuole di formazione, anche per i manager. A Marentino per la FIAT, la Reiss Romoli, il centro di formazione ENI a Castel Gandolfo. Le aziende se ne fregano, ora pretendono tutto dalla scuola pubblica.
Annosa questione, cinicamente legata al margine e al bilancio.
Siamo l’unico Paese dell’OCSE con i salari più bassi di trent’anni fa. Un sicuro trionfo di Confindustria e Confcommercio. Però, mi creda, un trionfo autolesionista e miope.
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