Editoriale 105. Fiducia cercasi

Per un anno intero ci siamo dovuti fidare. Di quello che dicevano i giornali, dei dati, dei DPCM, dei politici, dei virologi. Abbiamo visto sfilare di fronte a noi cambiamenti che, oltre a trasformare in maniera radicale le nostre vite, hanno influito anche nelle abitudini lavorative. Ci siamo fidati di questa normalità che alcuni hanno […]

Per un anno intero ci siamo dovuti fidare.

Di quello che dicevano i giornali, dei dati, dei DPCM, dei politici, dei virologi.

Abbiamo visto sfilare di fronte a noi cambiamenti che, oltre a trasformare in maniera radicale le nostre vite, hanno influito anche nelle abitudini lavorative.

Ci siamo fidati di questa normalità che alcuni hanno definito “nuova” sebbene non ci fosse niente di normale nel modo di lavorare che avevamo in quella “vecchia”. Abbiamo subìto la vita in parallelo con i nostri familiari più stretti cercando di adeguarci ad una quotidianità innaturale per esseri che si definiscono sociali e, ancor di più, per alcuni imbruttiti che da qualche decennio avevano imposto un modello che ormai tutti riconosciamo insostenibile.

Tutti, tranne quegli imbruttiti stessi che perseverano nel loro imbruttimento, nella speranza che si ritorni brutti come prima. Ma di loro non si fida quasi più nessuno.

Alcune aziende hanno chiesto fiducia, supportate dagli slogan di sindaci e associazioni di categoria che incitavano a non fermarsi. “Le aziende sono i luoghi più sicuri”. Troppe volte non è stato così.

Non è stato così per quanto riguarda i contagi, se facciamo fede a episodi di cronaca in cui aziende molto rinomate come Tenaris (i cui proprietari, fra gli uomini più ricchi d’Italia, sono anche a capo degli ospedali della catena Humanitas) hanno avuto contagiati e morti a causa delle scarse attenzioni alle sanificazioni.

Quanto avvenuto in Lombardia e nella zona fra Monza e la Brianza, e perché si sia fatta pressione affinché quelle zone non si colorassero di rosso, è materia di inchiesta giudiziaria a cui va tutta la nostra fiducia e quella di centinaia di parenti delle vittime che ancora aspettano una risposta.

Non è stato così nemmeno in termini di dispositivi di sicurezza, se è vero che, nonostante il lockdown, lo scorso anno ha visto più morti sul lavoro dell’anno precedente. E il primo quadrimestre del 2021 ha già un 10% in più del 2020 con un totale di 306 morti già all’inizio di maggio. Episodi come quello della giovane Luana d’Orazio e di Laila El Harim, morte schiacciate nei macchinari con cui lavoravano o della funivia del Mottarone sono fra i più eclatanti, in cui gli imprenditori si arrogano il diritto di dare la priorità ai tempi di produzione sospendendo i sistemi di sicurezza in una roulette che non ha mai vincitori. Due morti al giorno, dicono le statistiche.

“Quando passi da Milano”: la frase che con arrogante leggerezza i businessman ripetevano a tutti i non residenti nella città decretata unilateralmente “capitale del lavoro”. In virtù di quale patto mai scritto dovesse influire sulle trasferte del resto degli italiani è solo un ricordo. Fidatevi.

Intanto arrivano costantemente le notizie di imprese che decretano “il lavoro da ovunque” per tutto il 2022. Mentre si continua a spaccare il capello nella polemica se quanto avvenuto sia stato “smartworking” o “telelavoro” o a tergiversare su eventuali modalità ibride.

Come sappiamo, il modo migliore per non prendere una decisione è impantanarsi sui termini e sulle clausole; un ottimo alibi per prendere tempo in attesa che “passi à nùttata”.

Più fiducia anche alla sostenibilità: non è un’attenzione richiesta solo dai singoli ma anche dalle aziende più evolute nel voler anticipare un trend che fra cinque anni ci darà la stessa sensazione di incredulità nel ricordo di quando nei cinema e nei ristoranti si poteva fumare e di quanto benessere ne sia derivato.

Nell’evidenza di quanto sia più produttivo ed economico eliminare trasferte e appuntamenti di cortesia che hanno la stessa efficacia anche senza un passaggio autostradale, anche qui entra in gioco la fiducia, perché tanto ai collaboratori quanto ai loro capi è stato chiesto di cambiare i parametri di valutazione, di uscire dalla logica del comando e controllo attraverso la presenza e i badge (per non parlare della richiesta di “webcam accese”) e adottare, invece, quella degli obiettivi.

Chi non si fida ne sta già subendo le conseguenze: la “great resignation” è un fenomeno così definito da Anthony Klotz, professore associato di Management alla Texas A&M University, per segnalare una tendenza in crescita: a fronte della richiesta delle aziende di rientrare in ufficio, i dipendenti fanno due conti e minacciano le dimissioni. La libertà di orari, l’innegabile efficacia di 8 ore lavorative al netto di trasferte, traffico, stress da parcheggi, inquinamento e costi aggiuntivi (a cui va aggiunto anche un affitto e le spese in posti che non ci appartengono e non ci piacciono), la possibilità di gestire meglio famiglia e interessi personali è qualcosa di cui in molti non faranno più a meno.

Il fenomeno, partito dalle grosse Corporate americane, ha già iniziato velocemente a diffondersi anche da noi. Al punto tale che ho iniziato a parlarne con alcuni colleghi delle Umane Risorse, anche loro testimoni del fatto che fra le domande ricorrenti dei candidati a colloquio c’è la richiesta di poter lavorare da “altri luoghi”. Questo aspetto è solo uno dei tanti, insieme all’attenzione all’etica e alla qualità dell’ambiente con cui le aziende devono fare i conti e che testimonia una nuova democrazia contrattuale in cui non c’è più disparità fra chi offre e chi domanda. Lo hanno capito per primi i “più piccoli” che, grazie a benefit intangibili ma che impattano straordinariamente sugli equilibri delle Persone, oggi riescono a strappare professionalità importanti da aziende più grandi e competitive ma meno veloci nell’adottare l’innovazione e nel rivedere processi a cui si è affezionati come figli a cui non si vuole tagliare il cordone ombelicale.

Non ho fiducia nelle macchinette del caffè (e nei sondaggi). Questo da sempre.

Primo perché normalmente erogano un caffè che fa schifo; potete citarmi tutte le marche che volete, dalla storica Illy alla modaiola Nespresso ma, da napoletano, per me il caffè ha latitudini ben precise e vanno tutte verso Sud. Ma non è questo il punto.

Il punto riguarda uno dei grandi alibi a supporto del ritorno al “prima”: la tanto sbandierata socialità che sembra essere elemento fondante della qualità di lavoro nelle aziende. E intanto stiamo assistendo al teatro dell’assurdo in cui colleghi, richiamati all’interno dello stesso palazzo, fanno riunioni dai rispettivi uffici in videocall. Evidentemente i responsabili della sicurezza, abili produttori di procedure, non sono riusciti a collegarsi con gli/le psicologi/ghe delle Risorse Umane divulgatori del benessere un tanto al chilo. Una balla clamorosa che è la coperta di Linus di chi è incapace di darsi un senso se non ha il suo pubblico di riferimento, il suo calendario zeppo di riunioni, ma soprattutto di chi non ha una sua vera socialità.

La dimostrazione è tutta nella cattiva fede di quei sondaggi commissionati da Associazioni di Categoria e Ordini Professionali (esilarante quello dei Commercialisti) proposti nel bel mezzo del lockdown dove l’ufficio rappresentava l’unica via di fuga legalizzata da una casa di 70 mq zeppa di figli, mariti e mogli, webinar, DAD e riunioni in contemporanea; sondaggi in cui si chiedeva: “Preferisci lavorare da casa o tornare in ufficio?”.

Provate a rifarli ora quei sondaggi e chiedere se davvero la socialità è passare una giornata intera con il Ragionier Filini come compagno di scrivania o facendo gli urletti nelle convention aziendali. Ora che possiamo sceglierci un luogo qualsiasi dove lavorare, che i figli torneranno a scuola, che (con moderazione) abbiamo ripreso una vita relazionale più vera e in cui in molti hanno recuperato gli amici veri, le passioni, lo sport, il cuore.

Ora che in molti hanno finalmente conosciuto le Persone con cui vivono e con cui passavano a stento qualche ora la sera, o solo il weekend e le feste comandate. Perché posso garantirvi che c’è un sacco di gente che sa perfettamente il totale dei punti millemiglia e non ha la più pallida idea di che voti ci siano sulla pagella del figlio.

La fiducia sarà la nuova forma di contratto: fra le Persone, con le aziende, con i fornitori, i partner, i consulenti, i clienti, le città. Un contratto in cui i codici etici non sono cesellati sulle slide patinate di qualche rinomatissima società di consulenza, le vision e le mission che nessuno ricorda non sono inquadrettate alle pareti, perché non ci saranno neppure le pareti. Un contratto di fiducia in cui guardarsi negli occhi quando i fatturati sono in crescita ma anche quando è l’ora di lasciarsi, ringraziandosi per la fiducia reciproca e per il cammino svolto insieme.

Ben altra fiducia rispetto a quattro righe di circostanza recapitate via mail o WhatsApp che hanno il sapore della fuga dei miserabili.

Foto di copertina: Giulio Di Meo

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