Editoriale 99. Lavori protetti e non protetti

La fine del 2020 mi porta una certezza che negli anni avevo più volte rifiutato di accettare: un giornalismo serio deve far male. Male perché porta chi firma i pezzi e chi li legge a vedere in faccia l’Italia che non vorremmo vedere e a capire che dipende da ognuno per la sua parte; non […]

La fine del 2020 mi porta una certezza che negli anni avevo più volte rifiutato di accettare: un giornalismo serio deve far male.

Male perché porta chi firma i pezzi e chi li legge a vedere in faccia l’Italia che non vorremmo vedere e a capire che dipende da ognuno per la sua parte; non si dica che serve più ottimismo o che bisogna raccontare il positivo e ciò che funziona se vogliamo “cambiare il Paese” – espressione talmente ridicola nelle premesse che ne rivela già la sciatteria delle intenzioni e quindi anche delle azioni. Certo che siamo anche un’Italia sana e certo che le va resa giustizia ma ogni luce vive anche di ombre.

Solo scavando sottopelle dove gli altri hanno paura di andare ad annusare le puzze di una società e di un’economia messe senz’aria a fermentare discriminazioni e dolori si può provare vicinanza col Paese. Ai giornalisti viene sempre chiesta imparzialità – ed è corretto – o distanza – ed è altrettanto necessario – ma se c’è una qualità che rende il nostro mestiere capace di incarnare il suo scopo è solo e soltanto l’attitudine alla prossimità, alla similitudine tra umani. Proprio perché avvicinandosi alle notizie vengono giù un velo di ipocrisia dietro l’altro e al tempo stesso si rivelano i meccanismi comuni del vivere. Tutto il resto arriva dopo. Le parole da scegliere per gli articoli arrivano dopo, così come lo stile di scrittura o la capacità di analisi o di sintesi o di colore nel rendere i fatti e i racconti.

Ci viene chiesto di fare passi in avanti e mai indietro, se non a tutela di chi stiamo ascoltando. È un passaggio delicato che si addice bene a ciò che ci è toccato invece subire a livello informativo negli ultimi mesi e renderci conto di come siamo stati trattati dai principali media italiani, di come hanno pensato di entrare nelle nostre vite. Terrorizzandoci, appiattendo le informazioni, allineandosi, annoiandosi loro per primi e poi anche noi, propinandoci i soliti numeri e i soliti nomi. Abbiamo visto in faccia tutta la loro distanza nei nostri confronti proprio quando avremmo avuto bisogno di loro quasi quanto dei medici.

Il circo di buona parte del giornalismo italiano è spesso in gabbia.

Il 2020 ci ha ricordato che fare un giornalismo adulto vuol dire stare vicini agli altri anche se fa male e soprattutto se fa male. È adulto esattamente perché si assume le conseguenze di ciò che va a cercare. Soprattutto dopo un anno egocentrico e spregiudicato come quello che sta per chiudersi.

SenzaFiltro vi lascia con un numero che ci è costato tanto sforzo: raccontare l’Italia dei lavori protetti e non protetti ma non per il gusto di spaccare in due le cose bensì per il gusto di rinnovare i concetti. Non siamo più solo l’Italia del conflitto tra posto pubblico e privato o tra tempo determinato e non: il nuovo confine è indagare se veniamo tutelati nel nostro lavoro, quanto, come, perché sì, perché no, se ci discriminano o violano a prescindere da dove siamo e dal ruolo che rivestiamo, cosa possiamo fare. Non abbiamo risparmiato nessuno perché le puzze partono dalle piccole aziende fino ai grandi organi pubblici che dovrebbero essere i primi a tutelarci. Quanta puzza. Per fortuna, in redazione, ogni volta resettiamo l’olfatto e andiamo avanti.

SenzaFiltro chiude un anno che ci ha costretti a cambiare totalmente marcia perché proprio noi che facevamo un giornalismo di approfondimento legato alla cultura del lavoro non potevamo dire no all’attualità dirompente che ci stava cambiando la vita, le relazioni, i tempi e la storia. Ringrazio tutta la redazione che non si è tirata indietro davanti al passo più veloce e tutti i lettori che non si sono voltati dall’altra parte scegliendo anche loro di farsi un po’ male pur di capire.

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