Gianni Aversano e il test ai nuovi alunni del liceo: “Cosa ti fa paura? L’abbandono, prof”

Tra i banchi porta musica, poesia e una battaglia contro i voti. “Dietro questi ragazzi c’è una complessità che chiede di essere ascoltata, la loro crisi è il riflesso di quella degli adulti”: la nostra intervista al professor Gianni Aversano sul ruolo degli insegnanti nell’era digitale.

Tutto è iniziato dal desiderio di conoscere gli studenti a cui avrebbe dovuto insegnare filosofia e storia. Un paio di mesi fa, una mattina di settembre, è entrato in aula e ha dato un test di venti domande, una quindicina di minuti e non di più per rispondere, l’invito a scrivere senza dare peso al giusto o sbagliato, il rispondere di getto a cui la scuola non li abitua perché alla scuola non interessa il lato irrazionale e istintivo che marca l’identità di ognuno.

Intercetto su Facebook il post con cui racconta l’esperimento. Leggo. Sento entrarmi una ventata in testa. Il post iniziava con la parola ABBANDONO scritta da sola e senza alcuna parola accanto a confortarla, in stampatello, le lettere dritte come colonne antiche.

Lo definiva un test esistenziale e in forma anonima per i suoi nuovi alunni, l’intento di capire chi avesse davanti per preparare al meglio le lezioni: domande di ogni genere, passando anche per la musica, il cinema, i libri. Merita un richiamo la domanda finale, anche per la cura con cui l’ha posta limando i livelli di consapevolezza tra i più piccoli e i più grandi nelle varie classi: “Cosa ti fa paura” e, a salire, “quale è la tua angoscia”.

Alcune delle risposte al test anonimo proposto dal Professor Aversano ai suoi studenti

“La risposta finale di tanti è stata per me sorprendente e un colpo al cuore. Più di 40 di loro hanno risposto che la paura è l’abbandono o la solitudine. Altri, come mi aspettavo, hanno detto ‘la morte’, ‘il fallire’, ‘deludere’, che comunque dicono di cose serie. Loro che non sono così ricchi di vocaboli appropriati usano la parola abbandono, che non mi ha mai sfiorato se non pensando ai cani sull’autostrada.”

Gianni Aversano è un professore di filosofia e storia in un liceo di Caserta. È rientrato quest’anno sui banchi di una scuola superiore dopo averne passati 15 all’infanzia, dove ha preso e dato gioia col suo metodo didattico inedito. Un metodo che gli sta a pelle perché è un artista, un musicista, un attore, un autore.

Quando lo ascolti, tira fuori dalle cose piccole e comuni tutta la nobiltà della cultura napoletana e parecchio altro, fino a Fossati e Montale raccontati insieme. Senza chitarra in mano Gianni Aversano non sembra nemmeno lui. Tutte le sue lezioni sono fatte di musica e poesia con cui ogni mattina apre per una decina di minuti.

“I primi giorni i ragazzi del liceo erano perplessi a iniziare col mio metodo che li costringe a fare musica e poesia, ma che soprattutto li costringe a essere guardati e a guardarsi negli occhi perché nessuno li guarda più. Dico volutamente di costringerli e lo dico come gesto positivo. Da settembre conoscono già L’Infinito, Il canto di Ulisse, Guantanamera, Montale. Il mio è un invito alla coralità, all’abituarsi a fare insieme le cose”.

Gianni Aversano, professore di filosofia e storia ma anche cantante, artista e attore

Un giorno uno studente ha detto ad Aversano: “Prof, si vede che lei mi guarda”. Io me lo immagino Gianni Aversano a scuola. “La mattina, quando entro in classe, non dico subito buongiorno. Entro, li guardo, faccio in modo che possiamo trovarci tutti negli occhi: finché non mollano la loro distrazione non li mollo nemmeno io, li tengo d’occhio con la massima cura possibile. Entrano in classe svogliati e coi cellulari in mano, ma anche se si sentono forzati si sentono anche finalmente considerati”.

Su quel test anonimo poi ci hanno ragionato, ne hanno discusso, ci hanno giustamente riso in classe, tutti. “Sono loro che hanno voluto leggessi le risposte in ogni classe. È venuto fuori un mondo sommerso. Ho persino scoperto che una ragazza di sedici anni ha in Philip Roth il suo autore preferito, Philip Roth a sedici anni vuol dire che dietro questi ragazzi c’è un’irrequietezza e una complessità che grida di essere ascoltata. Che facciamo spesso noi, in consiglio di classe, quando discutiamo dei ragazzi con voti bassi? Diciamo che sono intelligenti ma non studiano. Le solite etichette che ci hanno ridotto a quello che siamo”.

Mi racconta che coi piccoli era una festa, chitarra e corse tra i banchi, ma arrivando dai 130 studenti che si è trovato a gestire da settembre – in totale ha ben cinque classi – si è accorto della tristezza profonda, dell’indifferenza, dei silenzi. Spesso la tristezza dei genitori, però, è la stessa.

“Per quanto, all’infanzia, ci fossero genitori anche giovanissimi, coppie di ventisette o ventinove anni, erano già tutti impregnati di apatia per la vita, rinunciatari, nessuna gioia, sempre affannati. La crisi dei giovani di oggi è il riflesso della crisi degli adulti. I ragazzi non vedono intorno a loro gente adulta contenta, appassionata, con una speranza che costruisce. Vedono un disfacimento, è questo che li diseduca. E intanto gli adulti pontificano dicendo di fare o non fare questo o lamentando che i figli non hanno alcun ideale. E loro che ideale rimandano? Adulti che hanno rinunciato a fare gli adulti e che spesso si atteggiano a fare i ragazzini.”

La scuola pensa a dare voti senza pensare ai ragazzi

“La scuola è diventata un giudizio continuo sui ragazzi, sta lì solo a dare voti, e non le interessa tirare fuori di cosa sono fatti, il dolore o uno slancio felice. I giovani non vengono accompagnati alla scoperta di sé stessi, sanno benissimo cosa è bene e cosa è male ma non riescono a aderire a quei valori perché tutta la società intorno non aderisce e non è coerente con ciò che dice. Allora non vedono il senso di doverlo fare per primi”.

Il dibattito italiano sui voti e sul merito, anche in ambito scolastico, si rinnova ciclicamente scivolando ogni volta sul conflitto; senza guerra non sappiamo parlare.

A inizio anno scolastico era scoppiata la polemica sui cosiddetti mezzi voti nella scuola secondaria, sui meno meno o sui più in fondo al numero. Era stato chiamato in causa su Repubblica Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi: “La prassi di assegnare voti non interi attraverso l’uso dei ‘mezzi punti’ e dei ‘+ e –’ è molto infelice. Non ha un fondamento normativo e risulta ambigua nei confronti dello studente. In più si complica la comunicazione tra scuola, studenti e famiglie e non si riempie di senso la valutazione della prestazione didattica”.

Molti docenti avevano allora rivendicato la propria libertà di insegnamento, anzi della propria libertà didattica e pedagogica. Ogni tanto dovremmo andare a cercare se possono venirci in soccorso buone norme, in questo caso l’articolo 1 del Testo unico sullistruzione (decreto l.vo 297/94) che traccia così la libertà di insegnamento: “L’esercizio di tale libertà è diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”. Lo scopo sono gli alunni, non i docenti; la finalità è l’evoluzione dei ragazzi, non l’autonomia del professore. Se la scuola capisse questo, saremmo parecchi passi avanti.

“Io faccio una battaglia contro i voti, i voti non dicono chi siamo. Ai miei studenti chiedo se stanno in classe perché vogliono avere voti alti o se stanno in classe per avere a che fare con me, con sé stessi e con gli altri, insomma con la vita. Un giorno ho detto loro: volete un 9, un 10? Io ve lo metto subito, che problema c’è? L’entusiasmo era nell’aria, però poi ho aggiunto: Ma se siete qui solo per un voto alto allora quando entrate in classe mettetevi da una parte, giratevi di spalle e tagliate i ponti con la classe, non parlate e non interagite. Alla fine nessuno ha detto che lo voleva a quelle condizioni. Nessuno chiede mai in profondità cosa vogliono e nessuno li mette mai davanti a un bivio interiore. Ce le hanno, le risposte, se poni bene le domande.”

Il ruolo dei professori nell’era della rete

Lungo tutta l’intervista non trattiene il dubbio massimo, la domanda con cui credo entri in classe ogni giorno: ma a cosa servono i professori in un mondo che, banalizzando il discorso, offrirebbe su un semplice canale come YouTube già tutta la sintesi delle nozioni e della conoscenza?

“Mi chiedo a che cosa serva quindi oggi un insegnante. A correggerti quattro compiti e interrogarti tre volte se riesce? A dire ai tuoi genitori che non studi? A lamentarsi di te con altri colleghi proprio come gli stessi alunni si lamentano dei prof con i loro compagni?”. E mi cita Pavese con Il mestiere di vivere, era il 1950: “Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?”. Un insegnante ti guarda, percepisce la tua vibrazione profonda, la tua ferita, il tuo desiderio, e con la sua materia e con la sua passione “in-segna”.

Il professore di Aversa ne è sicuro e ci affonda ogni giorno mani e cuore: quello che manca è un godimento condiviso, un desiderio personale che possa essere di tutti. Mi racconta che la sua convinzione di mettere insieme le persone intorno a una forma di bellezza comune lo ha portato da poche settimane a inaugurare un suo teatro: “Il mio sogno, finalmente. E l’ho fatto proprio in uno spazio dentro casa mia”. Il progetto si chiama Smoda (Spazio Maccus Officina delle Arti), il teatro sta nel suo paese, a Sant’Arpino, sempre Caserta, non lontano da Aversa.

I giovani non sanno a chi dirla, la paura di essere abbandonati. Hanno nostalgia di un presente che non conoscono. Hanno bisogno di sentirsi attesi da qualcuno, e vorrei vederli la mattina quando sanno che Gianni Aversano li aspetta in classe con la luce negli occhi. Vogliono essere attesi oggi, non domani; attesi da noi che corriamo, ridicoli, verso parole vigliacche come futuro o innovazione senza chiedere loro se e come vorrebbero andarci, in quel domani.

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Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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Foto di copertina: credits Stanley Morales su Pexels

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