La multinazionale turca della spesa a domicilio lascia l’Italia. Le condizioni per pensare di fare fatturati miliardari in questo settore sono due: godere di privilegi fiscali e operare nella precarietà. E finalmente, le istituzioni iniziano a svegliarsi.
La gig economy nobìlita l’uomo?
Tanti nomi ma un denominatore comune Come si può realizzare un’analisi precisa sulla gig economy? Si può verificare se e dove funzioni? Esistono esempi, italiani o esteri, per dimostrare che migliori il lavoro, aumentandone l’offerta e la qualità? Rispondere a queste domande è difficile per diversi motivi, ma i due principali sono da una parte […]
Tanti nomi ma un denominatore comune
Come si può realizzare un’analisi precisa sulla gig economy? Si può verificare se e dove funzioni? Esistono esempi, italiani o esteri, per dimostrare che migliori il lavoro, aumentandone l’offerta e la qualità?
Rispondere a queste domande è difficile per diversi motivi, ma i due principali sono da una parte le infinite modalità in cui la tecnologia e il Web stanno velocemente cambiando il lavoro, e dall’altra l’elenco sterminato di appellativi con cui si tenta di dare un nome a una o più parti di questo cambiamento. La disintermediazione, l’uberization, la sharing economy, la gig economy, l’economia on demand, sono una serie di termini che pecca di molte sovrapposizioni, anche se c’è un denominatore comune: l’effetto tecnologico su moltissimi modelli di business.
Effetto positivo per tutti, se consideriamo due dei tre protagonisti della questione: i consumatori e i fornitori dei servizi che si avvalgono delle tecnologie. I primi guadagnano in termini di tempo e soldi risparmiati, i secondi per margini, efficienza e riduzione dei costi. Vedi alla voce passeggeri di Uber e ospiti di Airbnb.
La prospettiva di chi lavora
A complicare la valutazione sulla gig economy – compresi i relativi sottoinsiemi e le intersezioni con altri modelli – c’è però il punto di vista del terzo protagonista: il lavoratore. Quali benefici gli porta?
La tecnologia che si traduce in app e piattaforme software ha la capacità di prendere il lavoro di ogni singolo individuo e metterlo direttamente sul mercato. Senza intermediari né ostacoli, chiunque può mettere su piazza una piccola o grande parte di tempo, capacità, esperienze – e venderla.
Quasi sempre, per chi lavora, gli intermediari sono un ostacolo di tipo fisico, come l’ufficio, il laboratorio, il capannone o un generico luogo di lavoro, o anche professionale, come la gerarchia o il datore di lavoro, colui che acquista le ore lavorative trasformandole in prodotti o servizi da vendere al cliente.
La soluzione della disintermediazione
La disintermediazione tecnologica consente a chi lavora di auto-vendersi, consegnando i propri servizi o prodotti al cliente in maniera diretta. Per molti, tutto questo coincide con il paradiso; una self economy in cui ognuno è imprenditore di se stesso. Idraulico, avvocato, parrucchiere, dentista. Niente più studio, ufficio, partner e soci. Tramite Web si arriva dal cliente. Una forma estrema di libertà, che in parte è un bene sia arrivata. Agognata da molti settori, la salvifica disintermediazione ha permesso di ricevere le chiavi d’accesso al proprio mercato senza ostacoli artificiosi, come ad esempio licenze e permessi.
Talvolta la disintermediazione ha eliminato un intermediario inutile o lento, costoso o farraginoso, esprimendo la sua forma buona, quella additiva, che porta un valore in più alla fine del processo di business. Talaltra, nella sua forma sottrattiva, eliminando intermediari utili o indispensabili, efficaci o efficienti, ha tolto valore alla fine del processo.
La domanda iniziale, però, resta senza risposta: il lavoro è aumentato, è migliorato?
Il valore del tempo
Migliaia di idraulici, infermieri, meccanici, falegnami, avvocati, contabili, sono sbarcati sul Web da soli e hanno trovato i loro spazi. Ma considerarli tutti imprenditori che mettono la propria forza di lavoro sul mercato in maniera disintermediata, senza calcolarne gli effetti anche effetti negativi sia sul tempo che sul profitto, è un errore.
Il driver (guidatore) che trasporta passeggeri può decidere di mettere la propria capacità totale di lavoro su una o più piattaforme, tentando così di raggiungere quel numero di corse necessarie a sbarcare il lunario. E probabilmente è accaduto così a una delle vittime emblematiche della gig economy americana, Doug Schifter, il driver che si è sparato davanti al municipio di New York, disperato per aver raggiunto oltre 100 ore di lavoro settimanali.
Per ogni Schifter che si è visto sopraffatto dalla costante disponibilità a lavorare pur di sopravvivere ce ne sono altrettanti che, grazie all’economia dei lavoretti, hanno potuto mettere sul mercato un po’ del loro tempo per arrotondare in un momento di magra, o in un momento di assenza di occupazione.
Il lavoro nobilitato
I cinquantenni espulsi dal mercato del lavoro che consegnano hamburger in bicicletta per un paio d’ore al giorno, o i neolaureati che distribuiscono pacchi in città per pochi euro all’ora, non sono certo esempi di lavoro che viene nobilitato dalle tecnologie attraverso cui prende forma la gig economy.
Prendiamo ad esempio la nascita del codista. Anche questa è una “figura professionale” nata sotto il cappello della gig economy: ingaggiato tramite app, attende per noi il turno in fila alle poste o fa la coda per noi in qualche ufficio, oppure fa la spesa, permettendoci di impiegare altrimenti il nostro tempo.
Si tratta di casi evidenti che dimostrano la cruda genesi della gig economy. Nata dalla crisi, non è dovuta alla volontà di nobilitare il lavoro elevandolo a una qualità migliore, quanto a quella di trovarne uno anche a costo di inventarselo.
Il lavoro low cost
Il vero oggetto di discussione di queste nuove economie non è quindi il consumatore e neppure l’imprenditore, entrambi benedetti dall’efficienza, ma è proprio colui che presta l’opera. Oltre a dover gestire il suo tempo come se ne fosse l’amministratore delegato, e quindi ad auto-ordinarsi di lavorare continuamente ed essere sempre reperibile, ha da gestire l’inevitabile effetto commoditization che il suo lavoro subisce.
Messa tutta sul mercato, infatti, la mole di lavoro che finisce sulle piattaforme può rischiare un livellamento dei prezzi al ribasso, soprattutto quando la disponibilità del suo servizio è alta. Ecco concretizzarsi il rischio di trasformare il proprio lavoro in un servizio low-cost.
Quindi, di fronte alla domanda se il lavoro aumenti e migliori, anche qui la risposta è fuorviante, perché piattaforme e tecnologie più che migliorarlo sembrano redistribuirlo.
In questa redistribuzione, chi fa un lavoro ricercato viene trovato più facilmente dal mercato e viene ben pagato. Chi fa un’attività comune, ad alta intensità di manodopera e bassa intensità di scolarizzazione o specializzazione, rischia di ridursi a commodity.
La gig economy fisica
L’economia dei lavoretti ha però una funzione positiva che si esprime testualmente con il lavoretto: quando si ricorre alla piattaforma per cercare una prima esperienza, per passare da un’attività all’altra e per compensare un momento di vuoto.
Il massimo del suo successo – e dei suoi risultati positivi per l’economia in generale – si raggiunge però quando porta efficienza non nel lavoro inteso come manodopera, ma nel contesto di una gig economy “fisica”.
A Milano sta nascendo un sistema di condivisioni di saloni per parrucchieri, che consentono ai professionisti della bellezza di evitare l’ostacolo di un investimento in un immobile e nelle relative attrezzature. Così non viene messa in rete l’ora di lavoro del parrucchiere, ma la poltrona.
La diffusione nel mondo di migliaia di coworking è un altro esempio di asset fisici – gli immobili vuoti – che vengono messi sul mercato con un’altra forma. Che cosa sono se non una fantastica redistribuzione in un mercato fermo come quello immobiliare? Si tratta di una modalità di fruizione che consente a chi non può permettersi un ufficio di condividerlo con altri. In più, porta alla formazione di community di professionisti che finiscono per condividere anche esperienze lavorative, attività e formazione.
Il caso di Airbnb è ancora più chiarificatore rispetto a un’economia nuova, che grazie alle tecnologie mette “in piattaforma” asset fisici fermi e inutilizzati e li rimette in circolo migliorati, e addirittura porta a un’emersione dal mercato sommerso, come nel caso italiano. Oltre a ciò, consente la nascita di nuovi intermediari che si fanno carico di tutti i servizi legati al passaggio degli immobili da un ospite all’altro.
Che cosa resta
La gig economy ha quindi effetti incerti, sempre imprevedibili – positivi ma anche negativi – quando opera direttamente nella (re)distribuzione sul mercato del lavoro, tentando di portarvi efficienza. Può invece avere spazi infiniti e un futuro più roseo quando redistribuisce asset fisici e li reintroduce nel mercato.
Capannoni industriali e artigianali vuoti potrebbero essere messi in piattaforma, evitando di consumare suolo prezioso e preservare l’ambiente. Impianti industriali usati saltuariamente potrebbero essere messi in piattaforma per la condivisione con altre aziende. Macchinari sanitari costosi e utilizzati solo parzialmente potrebbero essere messi in piattaforma per essere condivisi da più strutture; qualcuno lo fa già con gli ambulatori o con gli esami in orari prima non considerati, come il week end.
La domanda quindi, adesso ha una risposta: per ora non ci sono ancora gli strumenti legislativi e sociali affinché la gig economy operi al meglio nel contesto del lavoro, tutelando chi ne è penalizzato invece che favorito; ci sono invece contesti in cui le potenzialità di successo sono davvero infinite per tutti.
Photo by Airbnb Office [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr
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