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Giornalista professionista, videomaker e fotografo. Ha lasciato l’insegnamento e si è dedicato al giornalismo dopo un periodo di volontariato fra i rifugiati siriani nel sud della Turchia. Ha una laurea magistrale in Mass Media e Politica, ha frequentato il Master di Giornalismo di Bologna e scrive di diritti, politica e gig economy. Ha seguito fin dagli esordi la questione dei rider, ha scritto per diverse testate ed è fra i fondatori di Ventuno.

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<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500"><em>Chi forma gli operai specializzati? Gli stipendi di periti e laureati che lavorano nelle scuole sono molto inferiori a quelli che si percepiscono nelle imprese: così l&#8217;insegnamento diventa una missione sociale per pochi. L&#8217;opinione di Davide Prato (EnAIP Veneto) e Giorgio Spanevello (ITS Academy Meccatronico Veneto).</em></p>



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<p>“Con le retribuzioni contrattualmente previste è piuttosto difficile essere attrattivi, a maggior ragione negli <strong>insegnamenti di indirizzo</strong> come il mio.”</p>



<p>Analizza un aspetto originale <strong>Davide Prato</strong>, docente di meccanica in forza a EnAIP Veneto, da sempre impegnato nel mondo dei percorsi di istruzione e formazione professionale. Già, perché se negli ultimi mesi il dibattito si è arenato sulle difficoltà vere o presunte delle imprese nel reperire operai specializzati, nessuno si è posto una domanda fondamentale: <strong>come si formano i ragazzi senza formatori preparati e ben pagati?</strong></p>



<p>“<strong>I tecnici sono difficilissimi da scovare</strong>, spesso perché molto strutturati nel bagaglio di conoscenze, ma non all’altezza di trasferire agli studenti competenze specifiche; ragion per cui diventa complicato trovare risorse preparate e con particolare orientamento alla formazione. Io mi reputo una mosca bianca, dopo l’istituto tecnico industriale ho deciso di seguire un percorso di studi in scienze della formazione, una sorta di vocazione che non tutti hanno nelle proprie corde. Peraltro, la mancanza di vocazione non è l’unica causa se <strong>oggi i professori del mondo meccanico o elettrico latitano pericolosamente</strong>.”</p>



<p>Il riferimento alla <strong>condizione contrattuale</strong> di chi presta servizio nella formazione professionale è scontato. E suona come un ulteriore grido di allarme, visto e considerato che in generale gli insegnanti italiani lavorano di più e percepiscono il 30% in meno rispetto alla media dei colleghi europei.</p>



<p>“Ma la nostra è una situazione ancor più drastica. Intanto perché siamo chiamati a un carico settimanale ben superiore agli insegnanti della scuola pubblica e poi perché, pensando al mio caso, <strong>se paragono le trentasei ore spese in istituto con le dieci di consulenza esterna</strong> che fatturo a officine e aziende, <strong>gli introiti complessivi non sono molto divergenti</strong>.”</p>



<p>Un vero peccato, visto che sono in media circa centomila l’anno gli studenti che si iscrivono a questi percorsi di istruzione e formazione. E che insegnare in un centro professionale talvolta si traduce in <strong>impegno sociale</strong>, dovuto al contesto di comunità nel quale operano i docenti dei CFP, spesso coinvolti con costanza in attività tese a <strong>contenere la dispersione formativa</strong>.</p>



<p>“E chi lavora con partita IVA vive una situazione se possibile ancora più deficitaria, per non dire alla canna del gas. Parliamo di un fatturato pari a venti, venticinque euro l’ora, che quindi netti diventano poco più di dieci, ai quali devi sottrarre tutte le spese di gestione autonoma”.</p>



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<h2 id="h-la-formazione-professionale-ha-bisogno-di-ingegneri-ma-le-aziende-pagano-piu-delle-scuole">La formazione professionale ha bisogno di ingegneri, ma le aziende pagano più delle scuole</h2>



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<p>Un diverso termine di paragone è in ogni caso utile averlo. La guida ai salari redatta da Hays a fine 2021 fotografa, tra le altre professionalità, anche gli <strong>stipendi dei ruoli che periti e laureati</strong> in meccanica, elettrotecnica ed elettronica svolgono all’interno delle <strong>imprese private</strong>. Ebbene, nel mondo dell’engineering, un lavoratore dedicato alla ricerca e sviluppo con un’esperienza minima guadagna <strong>dai trenta ai trentacinquemila euro</strong> come retribuzione annua lorda. Se parliamo però di profili con significativa esperienza le RAL lievitano, toccando, ad esempio nell’universo automotive<em>,</em> vette <strong>dai cinquanta ai sessantamila euro</strong> per le mansioni di progettista e project manager.</p>



<p>Vocazione oppure no, <strong>perché decidere di insegnare nella formazione professionale davanti ad alternative simili?</strong> Questi valori, che subiscono variazioni minime a seconda del settore, rendono l’idea dei percorsi di carriera che uno specialista può incontrare nel mondo impiegatizio R&amp;D. Stesso discorso vale per i <strong>manutentori</strong>, risorse che magari hanno seguito il medesimo percorso scolastico ma che, per attitudine, scelgono di vivere il campo attraverso il contatto diretto con l’attività di ricerca guasto e riparazione. Anche loro, soprattutto in quanto ricercatissimi sul mercato del lavoro, viaggiano in media a vele retributive spiegate. In questo panorama si inseriscono anche <strong>saldatori</strong>, <strong>meccanici</strong>, <strong>collaudatori</strong>, <strong>installatori di impianti</strong>, che guarda caso per peculiarità tecniche sono oggi le risorse più complesse da selezionare.</p>



<p>L’indagine del sistema informativo Excelsior di febbraio 2022 ha messo inoltre in evidenza che <strong>industria, meccatronica e metallurgia coprono oltre il 50% delle previsioni di assunzione</strong>. A riprova di quanto detto finora anche questa ricerca individua nella carenza di figure tecniche specializzate la criticità principale. Insomma mancano, tra gli altri, fonditori, saldatori e caldaisti.</p>



<p>Un cortocircuito impressionante, perché se <strong>insegnare queste materie nei CFP è diventata una missione sociale e pure sottopagata</strong>, il mondo delle aziende dice al contrario che la domanda di ragazzi con questa formazione è indirettamente proporzionale al numero degli iscritti e alla volontà degli ingegneri di intraprendere un percorso di valore come l’insegnamento.</p>



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<h2 id="h-insegnanti-presi-a-prestito-dalle-aziende-problema-risolto-no-servono-soldi">Insegnanti presi a prestito dalle aziende: problema risolto? “No, servono soldi”</h2>



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<p>Interessante il punto di vista di <strong>Giorgio Spanevello</strong>, direttore generale di ITS Academy Meccatronico Veneto, una concreta opportunità post diploma, naturale conseguenza dei percorsi tecnici superiori Giocoforza legata anche ai centri di formazione professionale, nella tipologia di figure professionali da inserire, pur con livelli di conoscenza ben diversi.</p>



<p>“Noi siamo una realtà molto particolare, e lo sottolineo perché non abbiamo nei nostri organici insegnanti assunti con contratto di lavoro dipendente, ma al contrario sono tutti a contratto. Una parte di questi arriva dal mondo delle professioni, per vincoli legati al decreto istitutivo che prevede questa quota obbligatoria fissata al 50%. Per tale ragione cerchiamo, per quanto possibile, di concordare con le <strong>aziende socie</strong> una <strong>concessione di alcune ore dei loro tecnici</strong>. In alternativa andiamo a cercare queste figure tra i professionisti e, tra questi, chiaramente puntiamo su chi ha le caratteristiche migliori per approcciarsi all’insegnamento. Chiaro che per noi sono quasi tutti <strong>insegnanti che svolgono altri lavori</strong>: credo che questa sia nei fatti la differenza principale con le dinamiche della IeFP”.</p>



<p>Ma non potrebbe essere, a mali estremi, una soluzione anche per le scuole professionali incapaci di mettere sotto contratto professori di meccanica? “Non c’è dubbio, possono anche pensare di procedere in questi termini. Però, mi duole dirlo, <strong>il problema sono i soldi</strong>. Io pago settanta euro l’ora il mio docente a contratto, non so se i CFP hanno queste disponibilità economiche”.</p>



<p>Una situazione che potrebbe creare <strong>ripercussioni anche sugli ITS</strong>. È assurdo pensare che, a causa delle difficoltà nei centri professionali, a cascata si perdano magari studenti di valore in grado di proseguire sulla strada della maturità e della specializzazione post-diploma? “Obiettivamente da noi in pochi provengono dal percorso di formazione professionale. <strong>Noi abbiamo perlopiù diplomati di scuola statale</strong>, i CFP come dice lei dovrebbero entrare in terza battuta. Diciamo che siamo su percentuali infinitesimali, anche perché la formazione di base nelle professionali è forse troppo bassa dal punto di vista teorico”.</p>



<p>E dal punto di vista della pratica non è supportata da insegnanti retribuiti e motivati nel migliore dei modi. “Esatto. Tra l’altro, lo dico con onestà intellettuale, <strong>i docenti che prestano servizio nei CFP non vedono l’ora di intravedere qualche spiraglio nei concorsi pubblici</strong>. Quest’anno, ad esempio, è stato un vero e proprio dramma perché si sono aperte tante strade nella scuola pubblica, e questo ha pesato nelle dinamiche della formazione professionale, soprattutto per i docenti di laboratorio”.</p>



<p>Nel frattempo le organizzazioni si spendono invano nella ricerca di giovani manutentori, con la segreta speranza che i ragazzi tornino a seguire in numero cospicuo le scuole professionali, porto di approdo sicuro per l’accesso diretto al mondo del lavoro. Ma anche se fosse così, poi chi li forma?</p>



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<p><em>Photo credits: baritoday.it</em></p>


Tecnici specializzati: tutti li vogliono, nessuno li forma, pochi li pagano


<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500"><em>Erano 15 lavoratori su 50 ma hanno vinto lo stesso: l&#8217;azienda DUSSMANN costretta a cercare l&#8217;accordo sui contratti del portierato del Politecnico di Milano, in precedenza sottoposti a forti tagli e aumenti di mansioni. Il tutto nel silenzio di università e studenti. Ne parlano il sindacalista FILCAMS CGIL Vincenzo Quaranta e Alfredo Terlizzi, tra i lavoratori coinvolti.</em></p>



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<p>Inaspettata e per questo ancora più forte e significativa. Non è imbrigliabile in una semplice triade di aggettivi quella che si può definire a tutti gli effetti la<strong> vittoria</strong> sul fronte legale del gruppo di lavoratori e lavoratrici del comparto del<strong> portierato</strong>, in servizio al <strong>Politecnico di Milano</strong>, che ha fatto causa alla <strong>DUSSMANN</strong>.</p>



<p>A un anno e un mese dal <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/politecnico-di-milano-la-vergogna-degli-appalti-quando-il-ribasso-va-in-porta/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">nostro servizio</a> pubblicato a febbraio 2021, dedicato proprio a questa complessa vicenda, torniamo a parlarne, ma stavolta raccontando un traguardo emblematico per la difesa dei diritti in ambito lavorativo.</p>



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<h2 id="h-portierato-del-politecnico-di-milano-il-sindacalista-quaranta-tocchiamo-soglia-dell-incostituzionalita">Portierato del Politecnico di Milano, il sindacalista Quaranta: “Tocchiamo soglia dell’incostituzionalità”</h2>



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<p>Prima di approfondire le dinamiche di questa svolta positiva dobbiamo però riavvolgere il nastro e ripercorrere i passaggi cardine di tutto ciò che la precede.</p>



<p>Protagonisti sono i lavoratori, circa una cinquantina, che prestano servizio di <strong>portierato</strong> all’interno della prestigiosa sede del <strong>Politecnico di</strong> <strong>Milano</strong>, che un anno prima affida la gestione del servizio stesso alla multinazionale tedesca <strong>DUSSMANN</strong> dopo uno dei famigerati <strong>appalti al ribasso</strong>.</p>



<p>A stretto giro la situazione cola a picco, mandando diritti e tutele allo scatafascio. Il personale del comparto del portierato si trova infatti a subire un <strong>taglio sul monte ore del 15% </strong>oltre a una <strong>drastica riduzione dello stipendio</strong>, che da 7,23 euro lordi all’ora scende a 5,40 euro per un netto a livelli imbarazzanti: 4 euro e 40 centesimi all’ora. Lo stipendio mensile, prima pari a 1.100 euro, scende ad appena <strong>800 euro</strong>, mentre la quattordicesima viene silurata, così come alcuni giorni di ferie non goduti. Come se non bastasse vengono aggiunte <strong>responsabilità non previste dalla mansione</strong> in una situazione di ritmi già frenetici.</p>



<p>“Ci è stato chiesto di <strong>controllare le telecamere</strong> a circuito chiuso e di <strong>misurare la temperatura</strong> a tutti coloro che accedono alla sede, tutto ciò senza aver fatto un minimo di formazione precedente”, ci raccontava senza mezzi termini il nostro testimone N. a inizio dello scorso anno. E ancora: “Dal lunedì al venerdì ci sono da coprire il turno del mattino, dalle 6 alle 14, oppure quello del pomeriggio, dalle 14 alle 22, <strong>senza pause</strong>. Il turno del sabato inizia alle 6 del mattino e termina alle 19, e nemmeno quello prevede una pausa pranzo. Se vogliamo mangiare qualcosa, giusto per evitare cali di pressione o prendere un medicinale, dobbiamo farlo di nascosto”.</p>



<p>Una dinamica insostenibile: “<strong>Tocchiamo la soglia dell’incostituzionalità</strong>”, commentava a questo proposito <strong>Vincenzo Quaranta</strong>, funzionario della FILCAMS CGIL, sindacato che ha affiancato senza sosta e fin dall’inizio il gruppo di lavoratori e lavoratrici coinvolti nella <strong>vertenza</strong> da cui scaturisce una battaglia legale mirata al recupero di tutele e condizioni economiche a prova di dignità. </p>



<p>Ai tempi che furono avevamo provato a raccogliere anche un commento sulla situazione <strong>scrivendo al rettore</strong>, alla direzione e al responsabile dell’amministrazione del Politecnico di Milano ma avevamo ricevuto picche sul fronte intervista e un laconico riscontro solo a mezzo ufficio stampa: “Non c’è da dire nulla, questa è una questione che riguarda solo il rapporto tra azienda e dipendenti. Il Politecnico non è coinvolto e non può fare nulla”.</p>



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<h2 id="h-quando-vincono-i-lavoratori-l-azienda-condannata-in-primo-grado-cerca-l-accordo">Quando vincono i lavoratori. L’azienda condannata in primo grado cerca l’accordo</h2>



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<p>Durante tutto il 2021 siamo rimasti in contatto con i protagonisti della vicenda e possiamo assicurare che il percorso di rivendicazione di tutele e stipendi decapitati ha dovuto affrontare diverse prove: la tensione dell’attesa, l’atmosfera delle aule dei tribunali, le divisioni nel gruppo stesso dei lavoratori – tra chi credeva in questa battaglia e chi no – ma soprattutto i denti stretti nel reggere stipendi salassati e difficoltà ad arrivare a fine mese, o semplicemente nel sostenere le spese quotidiane. C’è anche chi ci ha <strong>rimesso la casa</strong> a causa dello <strong>stipendio da fame</strong>, e persino la salute per lo<strong> stress</strong> vissuto, senza ricevere l’ombra di un risarcimento.</p>



<p>Una dura battaglia che però non ha piegato la determinazione di lavoratori e lavoratrici fino ad arrivare alla storica sentenza di dicembre 2021, che <strong>condanna in primo grado</strong> <strong>DUSSMANN</strong>. Con lo scoccare del 2022 viene avviato un <strong>accordo tra le parti</strong> che prevede il ripristino del contratto multiservizi e il recupero di ore di lavoro tagliate al momento del cambio di appalto.</p>



<p>“La sentenza diceva di ripristinare tutte le differenze retributive, ma con l’accordo verrà corrisposto ai lavoratori il 75% di arretrato per l’anno 2020 e il 60% per l’anno 2021”, ci spiega Vincenzo Quaranta entrando nel dettaglio. Un compromesso assunto a tutela dei lavoratori stessi in quanto “impedisce a DUSSMANN l’eventuale possibilità di presentare ricorso in appello determinando un’incidenza sui lavoratori che hanno partecipato alla vertenza”, puntualizza. E sottolinea: “In ambito lavorativo è un risultato molto raro e si tratta di una grande vittoria. Per la parte sindacale questa sentenza diventa un vero e proprio un<strong> precedente a livello italiano</strong>. A permettere il raggiungimento di questo risultato ha contribuito in maniera decisiva l’operato prezioso del legale che ha gestito sia la vertenza che tutto l’accordo, ossia l’avvocato <strong>Maurizio Borali</strong> dello studio Borali-Fezzi”.</p>



<p>Percorsi che richiedono impegno e che sono precedute da situazioni spesso allo stremo. È lampante che sarebbe bene evitarli del tutto, puntando alla prevenzione. “Esattamente”, commenta Vincenzo Quaranta. “Sarebbe importante prevenire nella fase di preparazione e contrattazione dei capitolati di gara, tutelando le clausole sociali”.</p>



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<h2 id="h-alfredo-terlizzi-abbiamo-vinto-la-causa-in-quindici-su-cinquanta-nel-silenzio-di-politecnico-e-studenti">Alfredo Terlizzi: “Abbiamo vinto la causa in quindici su cinquanta, nel silenzio di Politecnico e studenti”</h2>



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<p>Nel nostro servizio coinvolgiamo la voce di <strong>Alfredo Terlizzi</strong>, che da anni presta servizio di portierato al Politecnico di Milano e che rappresenta uno tra i lavoratori più attivi dell’intera battaglia legale, affrontata fin dall’inizio a testa alta, con la perseveranza e la determinazione di chi crede che la tutela dei diritti sia qualcosa da difendere, e anche da far succedere, senza cedere mai.</p>



<p>“Sono contento di questa bella vittoria e di aver fatto parte dell’azione per ottenerla. Un po’ di amaro in bocca resta, perché in termini economici non avremo indietro tutto ciò che ci spetta, ma <strong>la vittoria è stata schiacciante per noi lavoratori</strong>, ed è quello che più conta: dal 1° febbraio viene considerato valido il compenso del contratto multiservizi che noi abbiamo caldeggiato”.</p>



<p>Rispetto al ruolo giocato dal Politecnico nel percorso di rivendicazione dei diritti Terlizzi chiosa: “Non hanno partecipato, sono stati nelle retrovie”. È anche importante specificare che a questa vertenza hanno aderito<strong> in quindici su una cinquantina di lavoratori/lavoratrici </strong>del settore: “Una parte di colleghi si era dissociata perché convinta che non ce l’avremmo fatta, un’altra invece aveva puntato alla conciliazione”, spiega Terlizzi. “A vittoria ottenuta in diversi si sono pentiti di non aver aderito, ma noi che abbiamo scelto di fare questa battaglia legale stiamo comunque cercando di far rientrare questi colleghi nel nostro contratto perché <strong>pensiamo che sia giusto stare tutti sulla stessa barca</strong> ed essere uniti anche per future battaglie”.</p>



<p>Chiediamo ad Alfredo Terlizzi se sono almeno arrivati i ringraziamenti da parte dei colleghi scettici sul risultato positivo della vertenza: “Ancora no”, risponde con un sorriso. “Ma non importa, ciò che conta è aver ottenuto il risultato e che tutti possano essere coinvolti nel contratto multiservizi”.</p>



<p>Una dinamica rara, quella incarnata dal nostro intervistato, e che ci porta a riflettere su quanto la cultura del lavoro diventi qualcosa di sano e credibile solo quando applicata e difesa nel concreto, senza narcisismi o divisioni, come in questo caso.</p>



<p>L’articolo dell’anno scorso si concludeva infine con una domanda precisa, che recuperiamo: “<strong>Gli studenti e le studentesse del Politecnico</strong> quale opinione hanno rispetto a questa situazione di <strong>diritti non tutelati</strong>, visto che il luogo lo frequentano grazie anche a questi lavoratori e lavoratrici che concretizzano il servizio? Un luogo dove l’alta formazione dovrebbe intrecciarsi costantemente con un intento etico concretizzato nella quotidianità di tutti, senza esclusione, e non manifestato nelle parole di pochi”.</p>



<p>Nessun cenno di risposta ci è mai arrivato, ma per sicurezza chiediamo anche al nostro intervistato se sia stata attivata qualche <strong>iniziativa di supporto alla situazione da parte degli studenti</strong>: “<strong>Zero, niente di niente</strong>”, risponde. “Questa è stata una battaglia in difesa dei diritti portata avanti da noi lavoratori, che abbiamo stretto i denti senza mollare mai, e poi dal sindacato e dal legale che sono rimasti al nostro fianco supportandoci sempre, passo dopo passo”.</p>



<p>Insomma, una vittoria e una soddisfazione per chi c’è stato, un’orma indelebile di imbarazzo per chi invece se ne è lavato le mani pensando che i diritti siano solo parole buone per condire post e brochure, quando la realtà conferma a gran voce tutt’altra cosa.</p>



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<p><em>Photo credits: csastudio.it</em></p>


Politecnico di Milano, i portieri fanno gol: sentenza storica contro la multinazionale

<p class="has-medium-font-size" style="font-style:normal;font-weight:500"><em>I dati raccolti da INAPP e dal ricercatore dell&#8217;Università di Bologna Maurilio Pirone mostrano uno spaccato inaspettato dell&#8217;economia basata sulle piattaforme digitali. Il quadro dei lavoratori è composito, ma le necessità sono comuni: nuove norme e maggiore inquadramento.</em></p>
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<p>Quando si parla di <strong>lavoro su piattaforme digitali</strong> lo si definisce sempre come “un mondo in costante evoluzione”. Anche la <strong>Commissione europea</strong> ne ha parlato in questi termini, aggiungendo che è necessario agire per regolamentarlo perché “consente a molte persone, comprese quelle che altrimenti hanno difficoltà ad accedere al mercato del lavoro, come i lavoratori a basso reddito, le donne, i giovani, le persone con disabilità, i migranti oppure le persone appartenenti a minoranze razziali o etniche, di guadagnarsi da vivere o di integrare il proprio reddito”.</p>
<p>È la descrizione che compare nella sua <strong>proposta di direttiva</strong>, pubblicata lo scorso 20 gennaio, in cui avverte il Parlamento europeo dell’enorme crescita sia in termini di ricavi delle piattaforme, che tra il 2016 e il 2020 sono quasi quintuplicati passando da circa 3 miliardi a circa 14 miliardi di euro, sia in termini occupazionali: oggi sono <strong>oltre 28 milioni</strong> <strong>le persone che lavorano</strong> mediante piattaforme di lavoro digitali nell’Unione europea, e si prevede che nel 2025 arriveranno a toccare i 43 milioni.</p>
<p><strong>Ma chi sono questi lavoratori?</strong><strong></strong></p>
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<h2 id="h-noti-e-meno-noti-i-lavoratori-della-gig-economy">Noti e meno noti: i lavoratori della gig economy</h2>
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<p>Quando pensiamo alle piattaforme, la prima immagine che viene in mente è quella del <strong>rider</strong>, che con lo zaino cubico e il giubbetto catarifrangente sfreccia per strada o ci porta la cena. Eppure <strong>il mondo della gig economy è molto più vario</strong> e comprende molte figure professionali che, confinate nel lavoro da remoto, sfuggono alle nostre osservazioni, oltre che alle maglie delle proteste, delle rivendicazioni, della regolamentazione.</p>
<p>In <strong>Italia</strong> i <strong>lavoratori</strong> che fanno parte di questo mondo sono in tutto <strong>570.521</strong>, pari all’1,3% della popolazione tra i 18 e i 74 anni. A dichiararlo è l’INAPP, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, nel suo report <em>Lavoro virtuale nel mondo reale</em>, elaborato sulle risposte di 45.000 lavoratori. Due terzi lavorano per piattaforme location-based, in cui i compiti assegnati vengono svolti in una località specifica, mentre un terzo svolge attività rese solamente sul web. Sul totale, <strong>tre lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto</strong>, mentre solo l’11% ha un contratto da dipendente.</p>
<p><strong>Solo il 36,2% rientra nel food delivery</strong>. Aggiungendo il 14% che si occupa di consegnare pacchi e prodotti, resta un <strong>50% le cui mansioni sono diverse</strong> da quelle dell’immaginario collettivo. Il 34,9% si occupa di esecuzioni di attività online. La percentuale non è ulteriormente divisibile, ma secondo <strong>Francesca Bergamante</strong>, una delle ricercatrici che hanno curato il report per INAPP, si tratta di lavori come traduttori, copywriter, editor e altro ancora. Il 9,2% svolge invece lavori domestici, e il 4,7% accompagna soggetti con l’auto.</p>
<p>La maggior parte di questi lavoratori, inoltre, non utilizza le <strong>piattaforme</strong> per arrotondare, ma per svolgere la propria <strong>attività principale</strong>: si tratta di <strong>274.000 persone</strong>, poco meno della metà del totale. Ci sono poi gli occupati che lavorano per la piattaforma come attività secondaria, ossia circa 139.000 persone, e i non occupati o lavoratori occasionali, che svolgono sulle piattaforme attività lavorative occasionali, pari a 157.000 persone.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/lavoratori-gig-economy.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="1024" height="768" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/03/lavoratori-gig-economy.png" alt="" class="wp-image-49294" /></a></figure>
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<p>Dal punto di vista demografico, <strong>più dei tre quarti dei lavoratori della gig economy sono uomini</strong>. Il 70% ha un’età compresa tra 30 e 49 anni e la fascia d’età tra 18 e 29 anni si concentra sulla categoria dei lavoratori occasionali. Molti di loro, inoltre, sono <strong>padri o madri di famiglia</strong>: circa il 45% degli intervistati ha infatti dichiarato di essere parte di una coppia con figli. Sono la maggioranza sia fra coloro che usano le piattaforme per il loro lavoro principale, sia per quello secondario. Un quadro che non solo sfata il mito dello studente che consegna pizze, ma restituisce la descrizione di un fenomeno di massa e in crescita, che coinvolge nuclei famigliari senza avere sempre un contratto su cui fare affidamento.</p>
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<h2 id="h-l-identikit-impossibile-e-le-richieste-comuni-di-chi-lavora-sulle-piattaforme">L’identikit impossibile (e le richieste comuni) di chi lavora sulle piattaforme</h2>
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<p>Per capire meglio il fenomeno della crescita della gig economy abbiniamo all’indagine quantitativa svolta da INAPP le informazioni raccolte dall’indagine qualitativa di <strong>Maurilio Pirone</strong>, ricercatore dell’Università di Bologna che ha lavorato a un progetto Horizon intitolato <em>Disciplina del lavoro e nuovi processi di sindacalizzazione nell’economia di piattaforma</em>.</p>
<p>Lo studio ha riguardato l’analisi di quattro piattaforme, giudicate esemplificative per i diversi settori: <strong>Deliveroo</strong>, <strong>Airbnb</strong>, <strong>Uber</strong> e <strong>Helpling</strong> (piattaforma per le pulizie) e i loro lavoratori dislocati in sette città: Barcellona, Bologna, Berlino, Lisbona, Londra, Parigi e Tallin, scelte per avere un quadro per diverse zone dell’Europa. Si è trattata di un’analisi di campo, realizzata intervistando più di duecento lavoratori delle piattaforme nelle sette città. Successivamente sono stati creati dei focus group per ognuna delle città e poi a livello globale. “Lo scopo del progetto era quello di avere la collaborazione dei lavoratori attivi nella gig economy nell’analisi del loro lavoro e nella produzione di policy”, ha detto Pirone.</p>
<p>Questi focus group hanno evidenziato che “<strong>non c’è una figura unica di lavoratore delle piattaforme</strong>”: quindi un host di Airbnb ha una percezione di sé stesso e una serie di richieste diverse da un rider di Deliveroo. Inoltre, anche nella stessa piattaforma i lavoratori possono avere diverse visioni a seconda del rapporto che instaurano con la piattaforma. Come spiega Pirone, la ricerca ha individuato due macrotipi di lavoratori: chi lo fa in una <strong>maniera professionale</strong>, ossia come prima attività, e chi in <strong>maniera accessoria</strong> (cioè chi ha altri lavori o progetti di vita diversi che sostiene tramite la piattaforma, come studenti, artisti e così via).</p>
<p>Fra i lavoratori della gig economy ci sono anche coloro che <strong>sfruttano le piattaforme per un’attività vera e propria</strong>, come i “property managers” su Airbnb, che gestiscono per conto terzi anche 50 appartamenti. Oppure ci sono <strong>coloro che si posizionano su più piattaforme</strong>, dai rider che utilizzano diverse app per avere più clienti nello stesso lasso di tempo, oppure host che sono su Airbnb e anche su Booking.</p>
<p>“Questa varietà rende difficile trovare risposte comuni, ma ci sono alcune domande che emergono trasversalmente, come <strong>maggiore chiarezza sui funzionamenti delle piattaforme</strong>, dell’algoritmo, del controllo, della valutazione, o maggiore attenzione sulle <strong>social protection</strong> (infortuni e malattie). Spesso questi lavoratori devono pagarle da soli perché sono contrattualizzati come lavoratori occasionali, partite IVA, lavoratori autonomi. Inoltre, tranne per Airbnb, c’è la richiesta di <strong>avere un monte ore preciso</strong>”.</p>
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<h2 id="h-orari-duttili-paghe-basse-dove-servono-le-nuove-normative">Orari duttili, paghe basse. Dove servono le nuove normative</h2>
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<p>Quest’ultimo punto è uno dei più rilevanti, nonché forse l’essenza della gig economy, ovvero <strong>l’estrema fluttuazione sia degli orari che delle tariffe</strong>.</p>
<p>“Le piattaforme, però, hanno una maniera molto plastica di adattarsi ai contesti”, spiega il ricercatore. “<strong>Lo schema di organizzazione del lavoro è simile</strong>: lavoro autonomo occasionale, scaricare i costi del lavoro sul lavoratore, utilizzo sistemi di tracciamenti e ranking, ma trovano soluzioni differenti per entrare in un mercato”.</p>
<p>L’esempio migliore è <strong>Uber</strong>, la compagnia di taxi californiana. In Italia non è legale perché non usa le licenze, quindi per entrare sul mercato ha stretto accordi con le aziende locali. A Bologna ha stretto un accordo con CosePuri, un’azienda di trasporti, che si appoggia all’infrastruttura digitale. “In Portogallo è stata fatta una legge che obbliga ad assumere i driver, però lavorano per società terze, non direttamente per Uber. La piattaforma è quindi molto resiliente rispetto ai contesti normativi”.</p>
<p>Eppure, anche se la piattaforma si adatta e penetra fra i vari passaggi di una filiera di un settore utilizzando vuoti normativi o escamotage organizzativi, trovare <strong>risposte normative</strong> è essenziale per salvaguardare un settore che ora è arrivato a contare 570.521 soggetti, il 2,25% sulla popolazione attiva del 2020 (pari a 25.369 milioni), e che negli ultimi anni non ha fatto che crescere.</p>
<p>Il <strong>caso in controtendenza</strong>, anche se solo in Italia, è quello di <strong>Helpling</strong>, l’app di servizi a domicilio in cui si chiama una persona per pulire casa. Molto sviluppata in Inghilterra e Germania, nel nostro Paese fatica a svilupparsi perché la dimensione informale continua ad avere un grosso ruolo: secondo lo studio, <strong>i lavoratori cercano di svincolarsi dalla piattaforma</strong> dopo il primo contatto col cliente, perché ha <strong>commissioni molto alte</strong>.</p>
<p>“Indipendentemente dalla configurazione contrattuale con le piattaforme, <strong>c’è una serie di diritti trasversali che andrebbero garantiti</strong>”, ribadisce Pirone. “A livello nazionale e locale sarebbe necessaria una serie di tavoli di trattative per rendere operativi questi diritti, non in una maniera astratta, ma secondo l’esigenza di quei contesti, perché è difficile trovare una regola comune”.</p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/gig-economy/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Gig economy</a></strong>.</em></p>
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Gig economy, la metà dei lavoratori è invisibile. E solo uno su tre fa il rider

I dati raccolti da INAPP e dal ricercatore dell&#8217;Università di Bologna Maurilio Pirone mostrano uno spaccato inaspettato dell&#8217;economia basata sulle piattaforme digitali. Il quadro dei lavoratori è composito, ma le necessità sono comuni: nuove norme e maggiore inquadramento.

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<p><strong>Vivere l’università ai tempi della pandemia</strong> non è affatto facile. Tra richieste di Green pass per accedere alle lezioni e in biblioteca, studenti che occupano il rettorato come a Torino, professori sospesi e senza stipendio da mesi, quello che dovrebbe essere il luogo deputato al sapere universale non sta attraversando un bel periodo.</p>



<p>Eppure raramente l’università fa notizia, anche perché, come ci dice <strong>Luigi Leone Chiapparino</strong>, presidente del CNSU (Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari), “è una minoranza, sono pochi quelli che la frequentano, mentre un figlio o un parente a scuola ce l’hanno tutti”.</p>



<p>Per capire che cosa sta vivendo chi la frequenta, abbiamo parlato con <strong>Alessio Bellini</strong>, che ha partecipato all’occupazione del rettorato, <strong>Alessia Giulimondi </strong>del coordinamento romano degli Studenti No Green pass, con il già citato Chiapparino e con il professor <strong>Francesco Benozzo</strong> dell’Università di Bologna, sospeso dall’ottobre scorso.</p>



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<h2 id="h-l-occupazione-del-rettorato-di-torino-degli-studenti-no-green-pass">L’occupazione del rettorato di Torino degli Studenti No Green pass</h2>



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<p>Alessio fa parte del gruppo degli <strong>Studenti No Green pass</strong>: a livello nazionale, il canale Telegram conta <strong>più di 12.000 persone </strong>che si confrontano poi sui vari canali locali. “A Torino siamo in 1.700 su Telegram, 200 nel coordinamento. Ci sono sia vaccinati che non, oltre a chi è guarito dal COVID-19”.</p>



<p>Dall’agosto 2021, da quando cioè è entrata per la prima volta in vigore la certificazione verde anche per l’università (<a href="https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/08/06/21G00125/sg" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">decreto 111 del</a><a href="https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/08/06/21G00125/sg"> 2021</a>), gli Studenti No Green pass hanno organizzato diverse iniziative sul territorio nazionale: lezioni all’aperto, incontri, manifestazioni e azioni di “disobbedienza civile”, come <strong>#FuoriServizio</strong>.</p>



<p>“Una forma di <strong>resistenza non violenta</strong>”, spiega Alessio, “che dal 10 gennaio si tiene ogni lunedì per sensibilizzare sulle <strong>discriminazioni per prendere i mezzi pubblici</strong> (<em>dove è richiesto il super Green pass</em>, <em>N.d.R.</em>). Pensa: gli studenti possono entrare all’università con l’esito negativo di un tampone, ma non possono prendere i mezzi. E non tutti vivono vicino: chi viene dalla prima cintura di Torino deve farsi anche una ventina di chilometri”. Chi vuole aderire stampa dal sito nazionale i volantini presenti con l’hashtag #FuoriServizio e sale su un qualsiasi mezzo pubblico munito semplicemente del biglietto.</p>



<p>La richiesta di “disapplicare il Green pass agli ingressi di tutte le strutture universitarie, comprese biblioteche, aule studio e mensa” è sfociata dal <strong>26 al 28 gennaio</strong> nell’<strong>occupazione </strong>del<strong> rettorato di Torino</strong>. “Abbiamo deciso di farlo perché siamo critici verso il Green pass, che non si è dimostrato uno strumento di prevenzione efficace del contagio. A darci un’ulteriore spinta, oltre all’aumento dei casi, &nbsp;è stato che il 3 gennaio, con una mail, <strong>il rettore</strong> (<em>Stefano Geuna</em>, <em>N.d.R.</em>) <strong>ha imposto la DaD</strong> senza consultarsi con nessun organo rappresentativo. Dopo tutti i controlli e i tamponi, il fatto di tornare con le lezioni a distanza è stato un ulteriore incentivo”.</p>



<p>L’occupazione ha visto partecipare trenta studenti, ma “nel clou siamo arrivati anche a cinquanta, oltre a tutti coloro che erano fuori dal rettorato”. Continua Alessio: “Abbiamo occupato per tre giorni, il terzo siamo usciti scortati dalla DIGOS.<strong> Ci è stato dato un ultimatum</strong>: andarcene via entro 24 ore, se no saremmo stati denunciati. Il tutto senza riuscire a parlare davvero con il rettore, al quale abbiamo scritto una lettera che in un primo momento voleva ritirare Cristopher Cepernich (<em>delegato del rettore per la comunicazione</em>, <em>N.d.R.</em>), ma che poi siamo riusciti a consegnare a mano. L’ha ritirata e ci ha detto ‘<strong>Smettetela, tanto sapete come la penso</strong>’, ed è finita lì”.</p>



<p>Nella lettera gli studenti chiedono al rettore, oltre a togliere il controllo tramite il Green pass, lezioni ed esami garantiti in presenza e DaD solo per chi ha bisogno, di mantenere mascherine e tracciamento delle presenze se serve a garantire la sicurezza e non a causare disagi agli studenti.</p>



<p>“In virtù dell’<strong>autonomia universitaria</strong>”, spiega Alessio “a Torino si potrebbe decidere di non chiedere il Green pass”.</p>



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<h2 id="h-in-universita-con-l-autonomia-e-il-caos-i-controllori-non-conoscono-la-loro-funzione">“In università con l’autonomia è il caos: i controllori non conoscono la loro funzione”</h2>



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<p>Autonomia che fa sì che ogni ateneo applichi i decreti a suo modo. Al <strong>Conservatorio Santa Cecilia di Roma</strong>, si legge sul sito degli studenti No Green pass, circa venti giorni fa un ragazzo non è riuscito a entrare per fare lezione, nonostante il Green pass base. Questo perché, secondo chi era addetto ai controlli, una circolare del direttore (di fatto mai mostrata) richiedeva il super Green pass. Lo studente, dopo varie insistenze, si è rivolto alla polizia e solo allora è riuscito ad accedere alla struttura.</p>



<p>“Questo” spiega <strong>Alessia Giulimondi</strong> del coordinamento romano “tradisce ciò che sta succedendo nelle università:<strong> c’è tanta confusione </strong>e ognuno,<strong> in virtù dell’autonomia</strong>, agisce a suo modo. Nel caso della Sapienza i controlli sono pochi perché è un sistema molto grande, ma dipende dalle facoltà. Con un gruppo di studenti abbiamo provato a entrare a Economia un mese fa: all’ingresso ci sono dei tornelli che non siamo riusciti a capire se fossero per via del Green pass o no, perché non siamo riusciti ad arrivarci. Siamo stati bloccati prima da un controllore che ci ha detto che <strong>non avevamo il diritto di stare lì</strong> e ha persino chiamato la polizia, che ovviamente non poteva fare nulla. Quella persona, come tante altre che sono lì senza conoscere la loro funzione, non sa che l’università è uno spazio pubblico e che non in quanto studenti non stavamo violando nulla”.</p>



<p>Tutto ciò contribuisce a creare “<strong>un clima di odio e conflitto sociale</strong>” chiosa Alessia che coordina il gruppo insieme a Valerio Casali. “Succede anche in biblioteca, per chi deve laurearsi, non c’è quell’accesso libero ai testi fondamentale per la tesi. Non c’è scambio umano, l’università così organizzata è un colpo alla ricerca e al mondo accademico. Per entrare, devi mostrare di avere effettuato una prenotazione e se sei un esterno puoi sì fare un&#8217;autocertificazione ma devi avere un riferimento interno che giustifichi la tua presenza. Non è più uno spazio aperto di conoscenza, anche cambiare aula diventa difficile così come studiare ovunque. Devi avere un motivo per fare tutto”.</p>



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<h2 id="h-immunodepressi-esclusi-alloggi-vincolati-al-green-pass-e-chi-e-positivo-o-in-isolamento-non-puo-dare-esami-a-distanza">“Immunodepressi esclusi, alloggi vincolati al Green pass. E chi è positivo o in isolamento non può dare esami a distanza”</h2>



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<p>Il problema dell’autonomia universitaria esiste da sempre e durante la pandemia ha riguardato tutte le misure di sicurezza, nel bene e nel male.</p>



<p>Spiega <strong>Luigi Chiapparino</strong>: “Abbiamo chiesto, senza esito, che venissero date delle linee guida sia per lo svolgimento della DaD che per le misure relative al Green pass. Come CNSU ci siamo concentrati più che altro sul fatto che ognuno potesse<strong> proseguire la sua carriera universitaria in tutte le circostanze</strong>: in questa direzione va per esempio la proroga dell’anno accademico, per la quale sembra che ci sia nuovamente un’apertura. Così come abbiamo chiesto che la DaD fosse largamente usata. Anche perché ci sono fuorisede che non sono potuti ancora rientrare. Così come alcuni atenei, proprio per la mancanza di linee guida, negano la possibilità di sostenere esami a distanza a chi è positivo al COVID-19 o in isolamento obbligato”.</p>



<p>“Ci sono poi gli <strong>stranieri</strong> che non hanno una vaccinazione riconosciuta in Italia, gli <strong>immunodepressi</strong> che non possono farla. Per non parlare degli <strong>alloggi</strong> <strong>accessibili solo a chi ha il Green pass</strong>: se si è arrivati a questo punto è perché ci sono situazioni problematiche e non sono stati introdotti dei correttivi per ridurre l’impatto negativo di tali misure, come potevano essere i tamponi gratuiti che avevamo chiesto anche per questioni di tracciamento. Come CNSU, una volta preso atto dell’autonomia, ci siamo messi a lavorare con le rappresentanze locali per risolvere le questioni il prima possibile.”</p>



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<h2 id="h-francesco-benozzo-docente-universitario-sospeso-da-cinque-mesi-il-green-pass-uccide-il-diritto-allo-studio">Francesco Benozzo, docente universitario sospeso da cinque mesi: “Il Green pass uccide il diritto allo studio”</h2>



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<p>L’università di questi tempi è problematica anche per i docenti. <strong>Francesco Benozzo</strong>, professore di Filologia e linguistica all’Università di Bologna, dall’ottobre 2021, come si legge sul sito dell’ateneo, “è al <strong>quinto mese di sospensione dall’università e dallo stipendio</strong> come conseguenza del rifiuto di esibire il cosiddetto Green pass per svolgere il proprio lavoro”.</p>



<p>“Sono contro questo strumento barbarico, non l’ho mai usato e non ho mai fatto un tampone. <strong>Adesso che ho il super Green pass da guarito</strong> potrei tornare, ma sarei incoerente con me stesso. Non lo faccio perché è <strong>una discriminazione per tutti</strong>, sia per gli studenti che per chi lavora in università. E con il recente obbligo vaccinale so che anche molti amministrativi stanno andando nella stessa direzione.”</p>



<p>Eppure la sua azione <strong>non ha ricevuto l’appoggio dei colleghi</strong>, neanche coloro che a settembre avevano firmato l’appello contro il Green pass (tra questi anche Alessandro Barbero). “In pochi si sono fatti vivi: l’università si sta dimostrando un dispositivo che anonimizza i suoi protagonisti. Gli accademici stanno evidenziando un’incoerenza palese tra ciò che insegnano e quel che fanno nella realtà. Gli studenti sono le uniche persone serie che si oppongono a questa discriminazione”.</p>



<p>Quando gli chiediamo che cosa ne pensa dell’occupazione del rettorato risponde senza indugi: “Sono andati a occupare legittimamente casa propria. Più che lottare per vie legali, <strong>bisogna puntare</strong> <strong>sulla disobbedienza</strong>, sul dissenso individuale. Se così fosse stato, in università ci sarebbero stati molti problemi, perché ognuno può fare qualcosa. Anche il mio direttore di dipartimento, quando è venuto a sospendermi, mi ha detto ‘in bocca al lupo, non posso fare diversamente’. Invece non è così: ognuno si può rifiutare. <strong>Il Green pass di fatto sta uccidendo il diritto allo studio</strong>, perché è assurdo che persone che pagano fior fior di tasse non possano accedere all’università”.</p>



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<p><em>Photo credits: lindipendente.online</em></p>


Universitari No Green pass, bastone senza carota: alla protesta pacifica risponde la DIGOS


<p>Il lavoro rimane fuori da Sanremo. Non solo dal Festival, ma da tutta la città, dall&#8217;Italia intera.</p>



<p>Di certo non ci saremmo aspettati in una delle conduzioni più patinate e &#8220;politically correct&#8221; della storia del festival proteste di lavoratori in cassa integrazione o che rischiano il licenziamento, ma nemmeno la totale assenza di un tema tanto cruciale per questa Italia, considerando la presenza di monologhi e interventi a favore di parità di genere, razzismo, mafie, disabilità, inclusione e temi più o meno &#8220;alti&#8221;. <strong>Come se il lavoro, con la disoccupazione al 9%, con circa 70 vertenze gravi aperte sul tavolo dei Ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, con le serrande di tanti negozi che si sono abbassate nel febbraio 2020 e non si sono più rialzate, rispetto a quelli fosse un tema non sufficientemente idoneo al popolo dei social o, forse, troppo deprimente per la tenuta dello share.</strong>  </p>



<p>Persino Saviano ha preferito parlare della tragica storia di Rita Atria, la diciottenne ribellatasi alla mafia e morta suicida anni fa, <strong>Massimo Ranieri</strong> ha dedicato una canzone agli emigranti costretti ad andare all&#8217;estero. Cent&#8217;anni fa. Eppure <strong>sarebbe bastato chiamare un tecnico luci, un tecnico del suono o un organizzatore di concerti, insomma uno di quei lavoratori delle spettacolo che fino a un anno fa erano presenti su tutti i palchi perché appartenenti a una categoria tra le più toccate dal Covid-19. Invece niente.</strong> Come se al di fuori&nbsp;della città dei fiori la vita fosse ripresa normalmente con i negozi aperti, i bar pieni e i concerti dal vivo. Ma non è così. I concerti sono pochi e a capienza ridotta, i negozi faticano a tirare avanti e i posti di lavoro sono pochi e sempre meno sicuri.&nbsp;</p>



<h2 id="h-eddy-anselmi-storico-del-festival-all-edizione-dei-record-e-mancato-un-occhio-sul-mondo-di-oggi">Eddy Anselmi, storico del Festival: &#8220;All&#8217;edizione dei record è mancato un occhio sul mondo di oggi&#8221;</h2>



<p>A caldo, direttamente dalla chiusura della conferenza stampa finale del festival nella mattinata di oggi, abbiamo chiesto un commento a <strong>Eddy Anselmi: giornalista e storico del Festival</strong>, cultore di musica e costume, nonché conduttore radiofonico e autore televisivo. Proprio in occasione dell&#8217;edizione 2020 De Agostini ha pubblicato il suo ultimo lavoro: <em>Il festival di Sanremo. 70 anni di storie, canzoni, cantanti e serate</em>. Suo è anche l’Almanacco Panini del Festival.</p>



<p><strong>“Al festival dei record è mancato un occhio sul mondo di oggi, in particolare un occhio alle tematiche di attualità, alle tematiche sociali.</strong> Sì i monologhi, sì il racconto generale: il festival di certo non ha potuto prescindere dal mondo in cui viviamo ma lo spazio dove non ha quasi lasciato traccia è stato l&#8217;ambito delle canzoni: tutte hanno parlato d&#8217;amore o di rapporti personali e bisogna leggere con la lente di ingrandimento i testi per potersi accorgere che lo spirito dei tempi, anche quando lo lasci di proposito accidentalmente fuori dalla porta, rientra dalla finestra. La canzone dei <strong>La rappresentante di lista</strong>, “Ciao ciao”, snoda una storia d’amore, e una voglia di disimpegno, sul sottofondo di una prossima fine del mondo probabilmente in relazione all&#8217;emergenza climatica di cui tanto si parla in questi mesi, in questi anni. Anche il pezzo di <strong>Dargen d’Amico</strong>, &#8220;Dove si balla”, non può che fare riferimento alle mascherine, alla nostra storia che va a farsi benedire, a un mondo &#8211; quello dell&#8217;intrattenimento nei locali da ballo che per troppo tempo in questo biennio di pandemia è stato lasciato ai margini dall’azione politica &#8211; considerato quasi superfluo. Lo stesso autore lo ha ricordato&nbsp;chiaramente durante la serata finale del festival che quello è un lavoro serio, che si tratta di un indotto, si tratta di famiglie, si tratta di un importante settore dell&#8217;economia del Paese.</p>



<p>L’altro tema &#8211; il “fateci lavorare, abbiamo bisogno di tornare dal vivo” &#8211; è stato comunque avvertito: certo meno dell’anno scorso dove <strong>Lo stato sociale</strong> aveva messo in scena durante la serata delle cover una performance che ricordava proprio l&#8217;apertura dei teatri ma alcuni lo hanno provato a fare anche in questa edizione. <strong>Cesare Cremonini</strong> ha detto “Erano due anni che non mi esibivo dal vivo”, sottolineandolo proprio davanti a un teatro Ariston strapieno per l’occasione.&nbsp;Sanremo è servito per dare al Paese uno spettacolo con un 65% di share: il punto è che non si raggiungevano da anni simili ascolti sul totale della televisione ma sappiamo che è fortemente diminuita la platea televisiva, soffrono le altre televisioni generaliste, lo share è un concetto che andrebbe spiegato meglio e con più cura ma questa è una divagazione che non ha nulla a che fare col ragionamento iniziale. Comunque lo show di grande successo c’è stato e va riconosciuto. Quando Amadeus ha trasformato l&#8217;Ariston in un locale da ballo forse in molti avranno pensato “allora è il momento, forse la guerra è finita”. Magari è stato un modo delicato, naturale, non clamoroso per dircelo”.</p>



<p>Però l&#8217;Italia non ha bisogno di mezze risposte da intuire, ha bisogno di chiarezza, e mentre si diverte a votare da casa il vincitore del Festival di Sanremo 2022 magari vuole anche sapere da che parte sta andando il suo lavoro, i suoi italiani, i suoi diritti messi ingiustamente sul banco d&#8217;accusa in nome di un&#8217;emergenza a cui la maggior parte di noi non crede più. Un&#8217;Italia a cui non basta lo share dei record.</p>



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Chi non lavora non va a Sanremo

<p>“Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei tu”. Una frase abusata quando ci si riferisce ai social network, forse anche ipocrita dato che la troviamo scritta sui social stessi, che non tiene conto di come vengono svolte oggi la maggior parte delle attività umane, dallo studio al lavoro.</p>
<p>Eppure, il recente crollo in borsa di Meta l’ha resa nuovamente attuale.</p>
<p>Dal 2 al 4 febbraio, infatti, <strong>il prezzo di una singola azione della società proprietaria di Facebook, Instagram e WhatsApp è sceso da 323 dollari a 237,09.</strong> Un calo pari al 26,4%, per una perdita complessiva di 250 miliardi di dollari. Zuckerberg stesso ha perso circa 28 miliardi di dollari. Perché noi comuni mortali possiamo capire la dimensione di questo numero, immaginiamo che ci venga regalato un dollaro ogni secondo del nostro tempo. Per arrivare a 28 miliardi dovremmo attendere quasi 888 anni, mentre per arrivare a 250 ce ne servirebbero 7.927.</p>
<p>Basta un click nelle impostazioni dei sistemi iOS</p>
<p>Ma perché Meta ha perso cifre simili? Tutto è dipeso da due fattori: una fuga consistente di utenti giovanissimi che stanno migrando verso TikTok e, soprattutto, una nuova politica della privacy introdotta nelle applicazioni per i sistemi iOS. <strong>Tim Cook ha deciso di permettere ai fan della mela morsicata di dichiarare se vogliano o meno essere tracciati nei loro acquisti o nelle loro attività online.</strong> Questo impedisce o almeno rallenta Meta nella targettizzazione del pubblico e nella vendita di pubblicità personalizzata. Secondo una stima effettuata dal capo delle operazioni finanziarie di Meta, David Wehner, questo cambiamento costerà più di 10 miliardi di dollari in mancate vendite nel 2022, pari a circa l&#8217;8% del totale dei ricavi dello scorso anno. La prospettiva ha quindi fatto crollare il valore azionario.</p>
<p><strong>Dalla versione iOS 14.5 in poi, basta accedere alle impostazioni iOS del proprio dispositivo, andare nel menù “Privacy”, selezionare “Tracking”. Lì si trova il pulsante “Allow Apps to Request to Track”</strong>, che di default è disattivato. Un meccanismo semplicissimo che porta a un effetto devastante per una delle più grandi compagnie del mondo, il cui business non si rivela così infallibile. Certo, nonostante la grossa perdita bisogna ricordare che un valore di 237,09 dollari ad azione è comunque altissimo, ma il fatto che gli utenti abbiano il potere di scegliere una minore invasività nella propria sfera e di stare al riparo dalla pubblicità profilata è già una buona notizia e riporta in mano agli utenti un potere non indifferente. Ci ricorda che i social network sono fatti di persone e che se tutti contemporaneamente ci scollegassimo, questi smetterebbero di esistere. Nel mondo attuale forse non è più possibile vivere collettivamente senza il loro uso e la defezione di un singolo soggetto porta alla sua scomparsa non solo dai radar delle pubblicità, ma anche da quelli del mondo lavorativo. Ma il fatto che siano tecnologie autoescludenti non significa che dobbiamo accettarle passivamente, comunque siano e qualunque forma prendano. Forse i social esisteranno sempre, ma non devono essere necessariamente quelli attuali e il <strong>potere di cambiare questo mercato deve tornare in mano agli utenti. In parte è appena successo ed è bastato un semplice aggiornamento</strong>. Se venisse estesa la stessa politica anche ad Android, il tonfo in borsa di Meta sarebbe decisamente più consistente e Zuckerberg non avrebbe nemmeno il tempo di completare il Metaverso in cui sta stipando tutte le sue speranze.</p>
<p><strong>A questo punto, bisogna chiedersi: lo vogliamo davvero?</strong> Se potessimo scegliere di cancellare del tutto le nostre tracce sulle preferenze di consumo e rendere inutili i nostri dati per le aziende, se facessimo davvero crollare gli imperi dei social e di tutte le altre aziende che si nutrono di pubblicità, saremmo più liberi? Accetteremmo di pagare abbonamenti per ognuno di quei servizi che oggi abbiamo gratuitamente? La risposta a questa domanda potrebbe farci male.</p>
</p>
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Più privacy, meno dritti alla Meta

“Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei tu”. Una frase abusata quando ci si riferisce ai social network, forse anche ipocrita dato che la troviamo scritta sui social stessi, che non tiene conto di come vengono svolte oggi la maggior parte delle attività umane, dallo studio al lavoro. Eppure, il recente [&hellip;]

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No, non è sinonimo del posto fisso. La domanda a cui risponde questo numero è: siamo al sicuro, mentre lavoriamo, o forse gli incidenti e le malattie sono più insidiosi e diffusi di quanto crediamo?

Numero 107 - Un posto sicuro


<p>Mesi, a volte anni. Questo è quello che ci vuole prima che un <strong>processo civile per un infortunio sul lavoro</strong>, o anche una malattia professionale, arrivi fino alla sentenza di Cassazione.</p>



<p>La guerra dei ricorsi e le lungaggini colpiscono spesso anche i lavoratori che già una volta non sono stati tutelati, mentre stavano svolgendo il proprio lavoro. Anche per questo spesso e volentieri le parti decidono di <strong>accordarsi tra loro senza avere bisogno di un giudice</strong>, per non perdere troppo tempo.</p>



<p>Secondo il giurista <strong>Mirco Minardi</strong>, che assiste da anni la CGIL nelle cause di lavoro, in media i tempi per avere un giudizio alla sezione lavoro della Cassazione oscillano <strong>tra i tre e i quattro anni</strong>, ma alcune sentenze sono arrivate anche dopo <strong>quindici anni</strong> nel caso di cause che toccavano sia il lavoratore che il datore di lavoro che l&#8217;INAIL e l&#8217;assicurazione.</p>



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<h2 id="h-cause-contro-inail-quando-il-pagamento-va-restituito">Cause contro INAIL, quando il pagamento va restituito</h2>



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<p>La <strong>sezione lavoro</strong>, assieme a quella tributaria, è una delle più lente, anche perché è tra quelle con il <strong>maggior numero di processi in corso</strong>.</p>



<p>Nei <strong>ricorsi contro l&#8217;INAIL</strong>, che coprono la maggioranza dei casi, se al lavoratore viene riconosciuto il diritto a percepire un rimborso, l&#8217;ente liquida dopo la sentenza di primo grado. Il rischio è che, se c&#8217;è un ricorso e il lavoratore perde in appello o in cassazione, debba <strong>restituire quanto percepito</strong>.</p>



<p>«Sono casi rarissimi – dice l&#8217;avvocato della CGIL <strong>Marco Dagradi</strong> – ma si possono verificare. Le cause per infortuni o malattie sul lavoro nella maggior parte dei casi non arrivano in Cassazione, ma il numero è comunque in aumento». Nel 2020, stando ai report del ministero della Giustizia: «Sono cresciute in modo non marginale le pendenze davanti alla Corte di cassazione (+ 5,6%)». Nel 2017/18 i procedimenti pendenti erano 109.019, l&#8217;anno successivo 113.862 e nel 2019/20 120.186. Di questi fanno parte anche i processi che riguardano <strong>infortuni o malattie professionali</strong>, che nella maggior parte dei casi vedono il lavoratore ricorrere contro l&#8217;INAIL.</p>



<p>«Nel caso in cui si tratti dell&#8217;INAIL – spiega Dagradi – <strong>la sentenza di primo grado è esecutiva</strong> e il lavoratore può chiedere da subito la messa in pagamento. Il problema vero è che se ci sono ricorsi fino alla Cassazione non si ha la matematica certezza di non dover ridare quei soldi». Il ricorso, infatti, non blocca il pagamento in automatico, ma ci deve essere esplicita richiesta, che solitamente l&#8217;INAIL non effettua.</p>



<p>I dibattimenti che arrivano in Cassazione riguardano nella maggior parte dei casi l&#8217;entità del danno che viene causato da un incidente sul lavoro, oppure se l&#8217;origine di una malattia sia di tipo professionale oppure debba essere attribuita ad altri fattori. I lavoratori si trovano così in un <strong>limbo di indeterminatezza</strong> che popola la letteratura giurisprudenziale, ma che soprattutto intasa la sezione lavoro della Cassazione, che ogni anno tratta migliaia di cause.</p>



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<h2 id="h-dai-vigili-ai-macellai-fino-ai-portieri-d-albergo-le-cause-di-lavoro-pendenti-da-anni">Dai vigili ai macellai, fino ai portieri d&#8217;albergo: le cause di lavoro pendenti da anni</h2>



<div style="height:30px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>



<p>I <strong>vigili di Pomigliano d&#8217;Arco</strong> ci hanno messo cinque anni (dal 2012 al 2017) per sapere se avessero diritto al risarcimento del danno biologico, che la Corte d&#8217;Appello aveva accordato, per aver lavorato sette giorni alla settimana. Altri quattro (2017-2021) per sapere che non ne avrebbero avuto diritto, stando alla Cassazione.</p>



<p>Un <strong>banconista di Roma</strong> invece ha atteso undici anni per scoprire che l&#8217;artrite e le varici di cui soffriva non erano dovute alla professione che ha svolto per tanti anni stando in piedi dietro un bancone, per servire i clienti con la sua carne. La causa di un <strong>portiere d&#8217;albergo</strong> che era svenuto durante il lavoro invece è durata dal 2006 al 2021.</p>



<p>Ma le cause per infortuni o malattie non riguardano soltanto l&#8217;INAIL. Spesso e volentieri, i giudici si devono confrontare con <strong>contenziosi tra lavoratori e aziende</strong>. Un manutentore delle ferrovie ha atteso quattordici anni la sentenza di una causa sul risarcimento per l&#8217;amputazione di un dito. Nel caso di conteziosi tra lavoratori e aziende, il problema è stabilire se ci sia o meno responsabilità da parte del datore di lavoro nel danno arrecato al dipendente.</p>



<p>«Se viene riconosciuta una responsabilità effettiva», dice Dagradi, «oltre all’indennizzo da parte dell’INAIL, il lavoratore danneggiato ha diritto a un <strong>risarcimento del danno da parte del datore di lavoro</strong>. La si può ottenere in due modi: o costituendosi parte civile nel processo penale oppure facendo causa. Le cause con l’INAIL in generale durano molto meno; in un anno si arriva alla sentenza di primo grado e in due a quella di appello. <strong>La Cassazione è quella che allunga i tempi</strong>, ma sono poche le cause che vi arrivano. In generale si fermano prima. Nel caso delle cause con le aziende la questione è più complessa, perché l&#8217;INAIL comunque corrisponde un rimborso, mentre nel caso di privati la società paga solo se si dimostra che ha una <strong>responsabilità</strong> nell&#8217;infortunio occorso al lavoratore. Se questi è caduto da una scala, per fare un caso ricorrente, affinché ci sia un pagamento da parte del datore di lavoro, questa deve essere stata danneggiata. E per dimostrarlo ci vuole più tempo».</p>



<p>Spesso vengono infatti coinvolti dei <strong>testimoni</strong> e vengono effettuate anche delle <strong>perizie</strong>. In questo caso prima di arrivare alla sentenza può passare anche un anno e mezzo, nel quale può darsi che le parti decidano di <strong>accordarsi</strong>. Infatti questo tipo di causa raramente arriva in Cassazione: nel 50% dei casi si trova una soluzione prima dei primi dodici mesi. Stiamo sempre parlando di infortuni non gravi con danni che provocano un’inabilità del 10 o del 15%, che però rappresentano la maggioranza degli infortuni sul lavoro.</p>



<p>«Spesso, infatti», continua Dagradi, «si concludono con una <strong>transazione</strong>. Capita non di rado che si arrivi a una transazione anche quando si è ancora al processo di appello, perché quando il dibattimento verte sull&#8217;inabilità i giudici tendono a passare la parola ai periti, cioè ai medici. Si va così a discutere delle percentuali di inabilità e dei conseguenti rimborsi dovuti. Spesso le differenze tra le risultanze dei periti delle parti sono minime. La decisione del giudice così è imprevedibile, e <strong>nel dubbio ci si accorda</strong>».</p>



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<h2 id="h-in-tribunale-il-tempo-e-nemico-dei-lavoratori-le-statistiche">In tribunale il tempo è nemico dei lavoratori: le statistiche</h2>



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<p><strong>Dati statistici</strong> esaustivi sul <strong>risultato delle sentenze della Cassazione</strong> al momento non esistono. Eppure alcuni giuristi hanno provato a sviluppare un&#8217;analisi.</p>



<p>È il caso di <strong>Biagio Cartillone</strong>, giurista milanese, che nel 2019 ha preso in esame 276 sentenze della sezione lavoro della Cassazione e le analizzate. Ne è emerso che: «A proporre il ricorso principale in Cassazione in maggioranza sono i lavoratori, con il 59,05%, contro il 40,95%, dei datori di lavoro. Il ricorso incidentale è proposto nella percentuale del 5,79%. I lavoratori sono coloro che lamentano in maggioranza la erroneità delle sentenze delle Corti di Appello e confidano nella loro riforma rivolgendosi alla Corte di Cassazione, ultima istanza delle loro aspettative. <strong>I lavoratori</strong>, pur essendo coloro i quali promuovono il maggior numero di ricorsi, <strong>vincono solo nella misura del 22,69%</strong>. Meno di un quarto dei loro ricorsi. I <strong>datori di lavoro</strong>, quando agiscono in via principale, <strong>vincono invece nella misura del 31,85%</strong>.»</p>



<p>Insomma, <strong>più dura il processo e meno conviene al lavoratore</strong>, che risulta spesso meno tutelato e si trova anche a dover attendere tempi lunghi, che nel periodo del COVID-19 si sono ulteriormente dilatati. Per questo la maggior parte dei contenziosi si risolve con l&#8217;accettazione di un&#8217;offerta da parte del datore di lavoro, senza doversi trascinare in un lungo percorso giudiziario dall&#8217;esito incerto, ma dai costi comunque alti.</p>



<p></p>



<p>In copertina foto by Pixabay</p>



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Cause di lavoro: tutto quello che non avete mai osato chiedere


<p><strong>La curva è tornata a crescere</strong>. No, per una volta il tema in discussione non è la pandemia da COVID-19, anche se gli argomenti sono senza dubbio correlati. Soprattutto perché l’aumento delle <strong>denunce per infortuni in itinere</strong> – di questo si parla – è direttamente proporzionale al massiccio rientro dei lavoratori italiani negli uffici pubblici e privati. Poco invidiabili anche i dati proposti dall’osservatorio del traffico elaborato da ANAS, che evidenzia anche nel mese di ottobre 2021 un’impennata del 9% sulla rete nazionale rispetto all’anno precedente, con picchi di undici punti percentuali nelle regioni del Nord e del Centro.</p>



<p>Senza volerci addentrare nell’annosa questione del bilanciamento tra vita privata e lavorativa e del rischio per le aziende di perdere talenti restii alle maratone automobilistiche, rimane un incontrovertibile elemento da considerare: <strong>più strada si percorre per andare al lavoro, più si rischiano incidenti</strong>. Non è un caso che le denunce siano diminuite del 33% nei primi due mesi dell’anno in corso, grazie al notevole ricorso allo smart working. Il lasso di tempo intercorso tra marzo e luglio, però, ha evidenziato un rimbalzo clamoroso, segnando nel confronto un 66% in più, con le riaperture che hanno riportato in sede gran parte dei lavoratori.</p>



<p>Il bollettino INAIL completa il percorso nel terzo trimestre 2021, certificando un aumento complessivo del 20,30%, con gli <strong>infortuni in itinere</strong> a rappresentare l’importante fetta del <strong>13,50%</strong> sul totale degli eventi. Ben <strong>33.054 le denunce</strong> legate a incidenti incappati lungo il tragitto casa-lavoro con mezzo di trasporto proprio, contro le 27.015 del 2020. Un vero peccato, perché nello scorso esercizio le denunce di infortunio in itinere rappresentano solo l’11,22% del totale, con una diminuzione sensibile sul 2019 per quanto riguarda gli incidenti con mezzo proprio. Addirittura 11.984 in meno per la componente femminile (-41,41%) e 12.003 per quella maschile (-35,04%). Quasi dimezzati i casi complessivi, quindi, per un computo pari a 39.204 eventi contro i 63.191 del 2019.</p>



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<h2 id="h-incidenti-in-itinere-durante-lo-smart-working-che-cosa-dice-la-legge">Incidenti in itinere durante lo smart working: che cosa dice la legge?</h2>



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<p>Una rappresentazione opposta a quanto stiamo vivendo negli ultimi mesi, con una tendenza in deciso cambio di rotta. A onor di cronaca, anche nell’ottimistica previsione di un futuro contraddistinto dallo smart working, non è affatto scontato il ripetersi dell’inclinazione positiva messa a verbale nel 2020. Si sa, infatti, che a norma il lavoratore agile non è costretto a prestare servizio confinato tra le mura domestiche, anche se molte realtà organizzative sembrano pensarla in questi termini. Visione indubbiamente parziale, perché uno dei presupposti della forma agile è proprio la scelta del luogo al di fuori del recinto aziendale. Va da sé che il rischio di incidenti “in itinere”, pur con un (insperato) adeguamento corposo ai tempi che corrono, non è destinato a scemare del tutto dalle strade italiane.</p>



<p><strong>Ma che cosa dice la legge quanto a tutele specifiche?</strong></p>



<p>“Per quanto riguarda gli infortuni in itinere, <strong>le regole</strong> per gli smart worker <strong>non cambiano</strong> rispetto a tutti gli altri”, spiega <strong>Tiziano Sgrafetto</strong>, consulente del lavoro ed esperto di tematiche giuslavoristiche del lavoro subordinato e autonomo. “Consiglio un’interessante pubblicazione di Vincenzo Cangemi sul tema, intitolata <em>L’infortunio sul lavoro. Persone, tecnologie, tutele</em>, pubblicata nel 2020 da Adapt University Press. In linea generale la circostanza di dover percorrere uno specifico percorso per raggiungere il luogo lavorativo pesa in quello che viene definito <strong>rischio generico aggravato</strong>”.</p>



<p>Certo, però questa particolare modalità contrattuale, in virtù della flessibilità che la contraddistingue, è indirettamente proporzionale al rischio, giusto? “Dal punto di vista pratico può darsi, però <strong>il luogo prescelto gioca un ruolo chiave</strong>. Il punto è che la scelta va ponderata in base alle necessità dell’azienda o, lato dipendente, per agevolare la bilancia tra vita lavorativa e privata, rispondendo come dice la legge a determinati criteri di ragionevolezza”.</p>



<p>Criterio apparentemente non scontato, perché arriviamo da un lungo periodo di modalità semplificata legato alla pandemia, in scadenza proprio alla fine del 2021 e in attesa di eventuali ma ad oggi improbabili proroghe. Il ritorno alla normalità porterà, alla definizione tra le parti dei luoghi dedicati, normali percorsi derivanti dalle esigenze di cui sopra. Impegno non da poco e dai benefici tutti da verificare, a maggior ragione perché per adesso le strade continuano a registrare <strong>bollettini neri sul fronte del traffico</strong>.</p>



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<h2 id="h-il-mobility-manager-la-nuova-figura-aziendale">Il <em>mobility manager</em>, la nuova figura aziendale</h2>



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<p>Nel frattempo il 22 novembre scorso è arrivata la <strong>prima scadenza</strong> per le imprese coinvolte nel <strong>piano degli spostamenti casa-lavoro</strong>. Sono passati sei mesi, infatti, dall’approvazione del programma del Governo per lo sviluppo e la valorizzazione della <strong>mobilità urbana sostenibile</strong>, introdotto dal ministero della Transizione Ecologica in collaborazione con il ministero delle Infrastrutture per rendere le città più vivibili e con meno traffico.</p>



<p><strong>Cinquecento i milioni stanziati a favore delle aziende</strong> che scelgono di implementare soluzioni sostenibili attraverso l’adozione del <strong>PSCL</strong> (Pianificazione degli Spostamenti sistematici Casa Lavoro del personale dipendente). Ne vengono interessate in via coercitiva le aziende con siti di almeno cento persone, situati in capoluoghi di Regione o provincia oppure in Comuni o città metropolitane che contano più di 50.000 abitanti. Ebbene, il piano teoricamente adottato in questi giorni dovrà entrare in vigore al massimo il prossimo <strong>trentun dicembre</strong>.</p>



<p>Ma chi lo predispone? “Il decreto legge in questione prevede, tra le cose già citate, anche l’obbligo per le imprese di nominare un <strong><em>mobility manager</em></strong>, con funzioni di pianificazione e gestione di attività per la mobilità sostenibile. A questa nuova figura professionale spetterà il compito di lavorare sul piano e di verificarne la corretta attuazione”.</p>



<p>Tanti i dubbi, primo fra tutti il <strong>non coinvolgimento</strong> – se non facoltativo – <strong>di tutte le grandi realtà operative nei paesi di provincia</strong>, di fatto spesso le organizzazioni meno pronte all’implementazione di politiche orientate allo smart working e con più lavoratori impegnati nelle tratte autostradali per raggiungere il posto di lavoro. Da verificare, inoltre, la fattibilità dell’intera operazione, a maggior ragione in considerazione dei dati raccontati, con l’incremento non casuale di traffico e infortuni in itinere.</p>



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<h2 id="h-quanto-risparmierebbero-i-dipendenti-senza-spostamenti-e-senza-incidenti">Quanto risparmierebbero i dipendenti senza spostamenti (e senza incidenti)?</h2>



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<p>L’impressione, spesso discussa in questi due anni, è che chi tra le imprese aveva già in precedenza un approccio culturale ben definito l’ha mantenuto a maggior ragione oggi, mentre chi ha costruito in modo raffazzonato una politica di smart working emergenziale è tornato senza troppi patemi alla casella di partenza. D’altro canto parliamo di un approccio professionale non per forza conseguente alla pandemia, quanto di un <strong>vantaggio culturale per la vita dei lavoratori e dell’organizzazione</strong>. E proprio di questo si sta parlando, perché la diminuzione del traffico sulle strade, oltre che ovvio obiettivo per la sostenibilità ambientale, dovrebbe migliorare la qualità del lavoro.</p>



<p>Rimane infine da capire se i mobility manager nelle aziende siano un vero punto di svolta o <strong>l’ennesima trovata di marketing</strong>. Di certo lavorando sulla mobilità sostenibile si genera economia per l’azienda, abbattimento del rischio e soddisfazione dei lavoratori – oltre a un evidente risparmio economico. Se il dipendente guadagna in modo indiretto risparmiando su mezzo e autostrada non è una cattiva cosa. A conti fatti questi costi non sempre vengono considerati, come capita anche a quelli indiretti degli incidenti.</p>



<p>Durante il lockdown se n’è parlato parecchio: <strong>quanti soldi sono stati risparmiati senza troppi scontri?</strong> Forse, se lo smart working diventasse strutturale, anche i costi di assicurazione calerebbero. Insieme agli infortuni in itinere, chissà in quale percentuale.</p>



<p></p>



<p>In copertina foto by Pixabay</p>



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Incidenti e infortuni in itinere: non sarà il mobility manager a salvarci

<p>Questi anni di lockdown, nonostante i periodi di inattività, non hanno risparmiato i lavoratori e le <strong>morti sul lavoro</strong> sono state numerose. Il 2020 si era chiuso con 1.230 vittime, mentre secondo l’INAIL i primi dieci mesi del 2021 hanno visto <a href="https://www.ripartelitalia.it/wp-content/uploads/2021/11/Tabelle_nazionali_cadenza_mensile_Ott_2021.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">1.017 decessi</a>.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine1mortilavoro.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="891" height="561" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine1mortilavoro.png" alt="" class="wp-image-47592" /></a></figure>
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<p>Un dato importante, che racchiude non solo storie di famiglie distrutte, ma anche dinamiche che devono essere interpretate per comprendere meglio il fenomeno delle morti sul lavoro e come prevenirle.</p>
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<h2 id="h-dove-e-come-muoiono-i-lavoratori-in-italia">Dove e come muoiono i lavoratori in Italia</h2>
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<p>La Regione col <strong>maggior numero di vittime</strong> è la <strong>Lombardia</strong>, dove sono in 140 ad aver perso la vita per lavoro. Su questo triste podio ci sono poi la <strong>Campania</strong> e il <strong>Lazio</strong>, con rispettivamente 107 e 96 decessi. La Regione che ne ha invece subiti di meno è stata la Val d’Aosta, dove ne sono avvenuti tre, uno in più dell’anno scorso.</p>
<p>I termini assoluti, però, non sono molto d’aiuto, perché sono influenzati dalla dimensione geografica. Calcolando l’incidenza di questi valori ogni 100.000 lavoratori si può avere un quadro diverso, in grado di restituire un’immagine più fedele alla realtà: così la Lombardia non appare così critica, mentre <strong>Emilia-Romagna</strong>, <strong>Piemonte</strong> e <strong>Lazio</strong> sono chiaramente più colpite dal fenomeno. Secondo questo tipo di visualizzazione, come si può vedere nell’infografica, il <strong><a href="https://datawrapper.dwcdn.net/2IuWw/1/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Molise</a></strong> detiene il primato per quanto riguarda gli incidenti mortali sul lavoro.</p>
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<figure class="aligncenter size-full is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine2mortilavoro.png"><img loading="lazy" decoding="async" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine2mortilavoro.png" alt="" class="wp-image-47593" width="840" height="555" /></a></figure>
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<p>Come mostra il grafico, ci sono state significative diminuzioni in Lombardia, in Liguria, in Piemonte e in Emilia-Romagna nell’ultimo anno, ma il numero delle morti è salito nel Lazio e soprattutto in Campania e Puglia. Il fenomeno è trasversale e colpisce tutte le fasce d’età, ma sono i <strong>lavoratori sessantenni</strong> i più frequenti nelle pagine di cronaca, sia quest’anno che lo scorso, mentre c’è stata una diminuzione nella fascia che va dai 40 ai 50 anni. Tristemente ci sono vittime anche fra gli over 70, sintomo del continuo allontanarsi dell’età pensionabile.</p>
<p>Tuttavia non bisogna credere che quei 1.017 fossero tutti lavoratori dediti a mansioni pericolose. La maggioranza di loro, 859, sono catalogati dall’INAIL nell’<strong>industria</strong> e nei <strong>servizi</strong>, 112 nell’<strong>agricoltura</strong> e 46 alla voce “<strong>per conto dello Stato</strong>”, dove figurano i dipendenti delle amministrazioni statali e i medici esposti a elementi radioattivi. Di tutti questi, 202 sono <strong>morti in itinere</strong>, ossia nel tragitto verso o dal posto di lavoro. I restanti 815 sono deceduti durante lo svolgersi delle loro mansioni.</p>
<div style="height:50px" aria-hidden="true" class="wp-block-spacer"></div>
<h2 id="h-tutti-i-settori-delle-morti-sul-lavoro">Tutti i settori delle morti sul lavoro</h2>
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<p><strong>Industrie e servizi</strong> racchiudono diverse categorie: l’industria, l’artigianato, il terziario e altre attività. Togliendo la parte di decessi in itinere, le morti sul lavoro sono in tutto 678 e sono così ripartite: 241 nell’industria, 137 nell’artigianato, 145 nel terziario, 52 in altre attività e 103 non determinate. Molte di queste, però, sono avvenute sì nello svolgimento della mansione, ma <strong>su un mezzo di trasporto</strong>: 52 nell’industria, 28 nell’artigianato, 22 nel terziario, 6 in altre attività e 2 non determinate, per un totale di 110. Rispetto quindi al dato iniziale, sono 189 e 109 le morti avvenute in prossimità di macchinari pericolosi. Si tratta comunque di un numero non irrilevante, ma che ridimensiona la percezione del fenomeno come una semplice fatalità dovuta all’intrinseca pericolosità di certi mestieri.</p>
<p>Anche nell’<strong>agricoltura</strong> la maggior parte delle morti è avvenuta senza l’utilizzo di un mezzo di trasporto; il fatto può stupire perché le macchine agricole potrebbero sembrare il pericolo più grande. Invece, su 98 decessi sul luogo di lavoro, solo 15 sono avvenuti sui mezzi, mentre i restanti 83 sono stati causati dalle altre condizioni di lavoro.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine3mortilavoro.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="756" height="425" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/immagine3mortilavoro.png" alt="" class="wp-image-47594" /></a></figure>
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<p>Come si può leggere anche dalla cronaca, però, il numero maggiore di incidenti mortali avviene nel settore delle <strong>costruzioni</strong>. Da inizio gennaio a fine ottobre sono stati 98 gli operai morti nei cantieri, anche più di tutti quelli delle attività manifatturiere messe insieme, fra i quali pesano le industrie alimentari (15), la fabbricazione di prodotti in metallo (17) e quella di altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (12). Nella metallurgia sono stati solo 3 i decessi, mentre nella produzione di <em>coke</em> e altri derivati della raffinazione del petrolio non c’è stata nessuna vittima.</p>
<p>Un’altra voce rilevante è quella del <strong>trasporto</strong> e <strong>magazzinaggio</strong>, che conta 81 decessi, così come nella riparazione e commercio all&#8217;ingrosso e al dettaglio di autoveicoli e motocicli, dove sono stati 62. Anche nel settore del noleggio, delle agenzie di viaggio e di servizi di supporto alle imprese sono morti diversi lavoratori, per l’esattezza 26, più dell’Amministrazione pubblica e difesa, assicurazione sociale obbligatoria, categoria che comprende le attività di amministrazione, supervisione e gestione della difesa militare delle forze armate, attività sanitarie destinate</p>
<p>alle truppe sul campo, attività amministrative, di gestione e di supporto delle forze civili di difesa, dove sono state 21. Persino nell’istruzione sono ci sono state 5 morti.</p>
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<h2 id="h-se-anche-la-morte-sul-lavoro-e-una-questione-di-genere">Se anche la morte sul lavoro è una questione di genere</h2>
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<p>La varietà della categoria industria e il diverso peso che hanno i settori che possono apparire più o meno pericolosi ci permette quindi di sfatare una semplificazione che vorrebbe le morti sul lavoro relegate solo a certi tipi di mestieri, e ci permette di capire che <strong>le situazioni pericolose possono crearsi ovunque</strong>, come per la scuola. Anche nelle attività finanziarie e assicurative ci sono state 5 vittime. Basta un filo scoperto e una mancata attenzione alla cultura della sicurezza.</p>
<p>A farne le spese non sono stati solo i lavoratori italiani. Nei dieci mesi in osservazione, nel nostro territorio, sono stati 861 le vittime nostre connazionali, mentre <strong>38 venivano da altri Paesi dell’Unione europe</strong>a. Un numero più alto è quello dei soggetti <strong>extracomunitari</strong>, pari a 118. La sua incidenza è molto rilevante se si considera che il numero dei lavoratori non UE in Italia è pari a circa 2,34 milioni.</p>
<p>Infine, la <strong>questione di genere</strong>. Dei 1.017 deceduti, <strong>922 sono uomini</strong>. Di questi, 745 sono morti sul luogo di lavoro, 121 dei quali si trovavano su un mezzo di trasporto, mentre 177 sono morti per incidenti in itinere. <strong>Le donne sono invece 95</strong>; 70 sono morte sul posto di lavoro, 5 erano su un mezzo, mentre 25 sono decedute negli spostamenti da casa al lavoro o viceversa.</p>
</p>
<p>Foto di copertina by Pixabay</p>
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Il Molise muore sul lavoro, la Lombardia non è da meno

Tutti i numeri delle morti sul lavoro relativi all&#8217;anno 2021: quali sono le Regioni e i settori in cui si muore di più, e per quale motivo?

Il Molise muore sul lavoro, la Lombardia non è da meno - Informazione senza filtro

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<p>L&#8217;ultima misura legislativa in ordine di tempo è il <strong>Durc di congruità</strong>, che si occupa di verificare l’adeguatezza del costo del lavoro sostenuto nella realizzazione delle opere edili. In sostanza permette di controllare se la manodopera impiegata sia proporzionata all’incarico affidato e, nel caso contrario, invita le imprese ad attuare dei correttivi.</p>



<p>Ma non sarà l&#8217;unica novità in tema di controllo dei cantieri pubblici. Nei prossimi mesi la <strong>SNA</strong> (Scuola Nazionale di Amministrazione, presieduta dall&#8217;ex ministro Paola Severino) organizzerà corsi per professionisti, nei quali si spiega come controllare che tutto vada per il verso giusto sui cantieri. Per questo è nata la cosiddetta <strong>PNRR Academy</strong>, che tra i vari compiti avrà quello di <strong>formare i</strong> “<strong>controllori</strong>” dei cantieri pubblici nell&#8217;ambito dell’Osservatorio Nazionale voluto dal ministero, un tavolo al quale siedono sia le grandi società che i sindacati con il preciso scopo di esercitare i controlli sul PNRR, anche riguardo la trasparenza.</p>



<p>Non è mancata qualche <strong>polemica da parte di ingegneri e architetti</strong>, le cui associazioni di categoria non sono state invitate, pur dovendo svolgere un ruolo fondamentale nella sorveglianza dei cantieri soprattutto in tema di sicurezza sul lavoro. Spesso, infatti, è il progettista il responsabile della sicurezza. Nei prossimi mesi, intanto, partiranno <strong>seminari e webinar</strong>, coordinati dal ministero delle Infrastrutture, e un punto importante riguarderà i <strong>protocolli di sicurezza</strong>.</p>



<p>La PNRR Academy avrà il compito di formare i <strong>responsabili unici dei procedimenti</strong> (<strong>RUP</strong>) che dovranno vigilare sui suddetti protocolli. Al momento i programmi sono ancora in corso di elaborazione e non ci sono ancora gli estremi per le iscrizioni. La prima serie di lezioni riguarderà le procedure di evidenza pubblica, ma già dalla seconda si parlerà di sicurezza nei cantieri. Le tempistiche non sono ancora note, anche perché l&#8217;osservatorio è attivo dall&#8217;estate.</p>



<p>Al progetto di formazione partecipano le principali sigle sindacali degli edili, ma anche le società pubbliche che si occuperanno di assegnare gli appalti: RFI e ANAS in primis. L&#8217;attenzione è alta e i nodi principali sono i <strong>subappalti</strong>, dove spesso si annida il lavoro nero e il rischio di avere minori garanzie di sicurezza. Anche se dal 2018, con le nuove normative, su questo tema è arrivata una stretta forte.</p>



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<h2 id="h-una-formazione-mirata-sui-cantieri-pubblici-con-l-obiettivo-della-prevenzione">Una formazione mirata sui cantieri pubblici con l’obiettivo della prevenzione</h2>



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<p>La stretta normativa però potrebbe non bastare, anche perché i fondi del PNRR vanno spesi in modo celere per far ripartire il Paese dopo lo stop dovuto alla pandemia. Insomma le parole d&#8217;ordine dovranno essere <strong>velocità</strong> e <strong>attenzione</strong>, due elementi che negli appalti pubblici non sempre ci sono e che spesso sono difficili da coniugare.</p>



<p>«Il nostro principale obiettivo – dice <strong>Pierluigi Gianforte</strong>, ingegnere e formatore, esperto di appalti pubblici – è quello di introdurre dei sistemi che ci permettano di <strong>prevenire i problemi</strong>. Le possibilità ci sono perché il quadro normativo è adeguato. Quello che manca è una maggiore consapevolezza e la formazione idonea di professionisti che siano in grado di esercitare il controllo sul rispetto delle regole di tutela dei lavoratori. Ci vogliono soggetti preposti al controllo, che abbiano la necessaria preparazione per applicare le leggi, che negli ultimi anni sono aumentate e sono divenute più particolareggiate».</p>



<p>I decreti ministeriali stabiliscono, infatti, che i direttori dei lavori possano verificare che il personale che si trova nei cantieri sia autorizzato e venga impiegato nel rispetto di tutte le norme di sicurezza, a partire dal cartellino identificativo che tutti devono mostrare. L&#8217;impresa in subappalto ha l&#8217;obbligo di mostrare l&#8217;elenco con i nominativi dei lavoratori impiegati e l&#8217;importo del piano di sicurezza.</p>



<p>«L&#8217;unico modo – continua Gianforte – è quello di <strong>alzare il livello della formazione</strong> sia dei progettisti che di coloro che esercitano il controllo».</p>



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<h2 id="h-il-nuovo-responsabile-unico-dei-procedimenti-puo-indagare-sui-subappalti-e-sospendere-i-bandi">Il nuovo responsabile unico dei procedimenti può indagare sui subappalti e sospendere i bandi</h2>



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<p>Il <strong>mancato rispetto delle norme di sicurezza</strong>, per risparmiare, è di solito uno dei metodi che le imprese utilizzano per il garantire il cosiddetto “<strong>massimo ribasso</strong>” da applicare agli appalti, cioè il criterio che tutte le pubbliche amministrazioni devono osservare per assegnare i lavori. Chi fa l&#8217;offerta più vantaggiosa tra quelle che partecipano a un bando, vince.</p>



<p>Abbassare i prezzi può comportare una <strong>minor qualità del lavoro</strong>, ma anche degli standard di sicurezza che si applicano nei cantieri, con il subappalto degli interventi a ditte esterne che permettono un risparmio. «Si possono &nbsp;effettuare delle <strong>verifiche sul massimo ribasso</strong>», dice Gianforte. «Le grandi stazioni appaltanti si impegnano a individuare anche l&#8217;eccesso di massimo ribasso».</p>



<p>Nel caso il RUP dovesse individuare un <strong>eccesso di ribasso</strong> può <strong>sospendere il bando e rifarlo</strong>. «Inoltre – continua Gianforte – si può intervenire sul cantiere stesso chiedendo alla società che si aggiudica i lavori di mostrare i preventivi dei propri fornitori, e anche di muoversi con precontratti condizionati. Si può addirittura chiedere informazioni sulla discarica dove vengono consegnati i rifiuti».</p>



<p>Questi temi dovranno essere affrontati nei corsi della PNRR Academy, che dovrà sviluppare una serie di contenuti. Questo è uno dei compiti che si è prefissato l&#8217;Osservatorio Nazionale, voluto dal ministero delle Infrastrutture.</p>



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<h2 id="h-architetti-e-ingegneri-esclusi-dalla-commissione-dispiace-infortuni-aumenteranno">Architetti e ingegneri esclusi dalla commissione: «Dispiace, infortuni aumenteranno»</h2>



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<p>L&#8217;idea di una <strong>commissione di controllo</strong> <strong>sugli appalti pubblici del PNRR</strong> è piaciuta a molti. Anche a chi avrebbe voluto parteciparvi, ma non è stato invitato. Ad esempio, <strong>ingegneri</strong> e <strong>architetti</strong>, che saranno coloro che materialmente dovranno occuparsi dei controlli nei cantieri. Ci saranno quindi soltanto i rappresentanti dei lavoratori, con i sindacati e le principali aziende che si occupano di appalti.</p>



<p>«Dispiace apprendere – dice il presidente di Fondazione Inarcassa <strong>Franco Fietta</strong> – che <strong>le professioni tecniche siano rimaste escluse</strong> dalla rappresentanza nell’Osservatorio Nazionale per la Sicurezza nei Cantieri. Il ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile si è fatto promotore di una <strong>iniziativa lodevole</strong>, fondamentale in questa fase delicata per il nostro Paese alle prese con il rilancio dell’economia attraverso i programmi e i progetti del PNRR e del Fondo complementare. Per questo lamentiamo la mancata rappresentanza nell’Osservatorio nazionale delle professioni tecniche, di chi vive in cantiere questi problemi, in quanto responsabili in pieno come professionisti della sicurezza».</p>



<p>La stessa Fondazione Inarcassa tiene alta l&#8217;attenzione sulle tematiche della sicurezza. «Sul tema della sicurezza nei cantieri – continua Fietta – deve esserci la <strong>massima sinergia</strong> tra tutti gli attori che operano in prima linea. I dati recentemente resi noti dall’INAIL non devono trarci in inganno. Come spiega l’Istituto nell’ultimo periodico statistico <em>Dati INAIL</em>, la chiusura dei cantieri nel 2020 a causa della pandemia da COVID-19 ha determinato un drastico calo degli infortuni sul lavoro. Purtroppo, già a partire dal 2021, la ripresa del settore edile come conseguenza dei progetti funzionali al PNRR e il potenziamento dei bonus fiscali legati all’edilizia determinerà un probabile <strong>incremento del fenomeno infortunistico</strong>».</p>



<p></p>



<p>In copertina foto By Pixabay</p>



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PNRR Academy e cantieri edili: perché sono stati esclusi ingegneri e architetti?


<p>A fare notizia in materia di sicurezza sul lavoro sono gli eventi che si concludono con la morte dei lavoratori. Ciò che non fa titolo sui giornali, invece, è <strong>l’incidente che non accade</strong>, come quello di un martello in bilico su una trave sospesa poi caduto a terra – per fortuna senza colpire qualcuno. Quel martello piombato al suolo, senza colpo ferire, è un mancato infortunio, un <strong><em>near miss</em></strong>, che poteva costare la vita a una persona.</p>



<p>Un utensile che precipita nel vuoto senza fare male non fa notizia, mentre invece dovrebbe far parlare tutti i giorni, perché il report e l’analisi di quel mancato infortunio potrebbero un domani salvare la vita a qualcuno. <strong>L’analisi dei <em>near miss</em></strong> non è ancora diffusa nelle aziende, né ha una normativa che la imponga come obbligatoria a livello nazionale. Eppure, come sostenuto anche dall’INAIL nel rapporto 2021 <em><a href="https://www.inail.it/cs/internet/docs/alg-pubbl-gestione-incidenti-procedura-segnalaz-near-miss.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Gestione degli incidenti. Procedura per la segnalazione dei near miss</a></em>, sarebbe una delle chiavi per promuovere una miglior cultura (teorica e pratica) della sicurezza nelle aziende.</p>



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<h2 id="h-prevenire-e-meglio-che-curare-perche-e-importante-l-analisi-dei-mancati-infortuni">Prevenire è meglio che curare: perché è importante l’analisi dei mancati infortuni</h2>



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<p>Alla base di un infortunio (mancato o avvenuto) ci sono <strong>scelte o comportamenti individuali</strong> riconducibili a un lavoratore o ai vertici dell’azienda.</p>



<p>Un <em>near miss</em> è un qualsiasi evento, correlato al lavoro, che avrebbe potuto potenzialmente causare un infortunio, un danno alla salute o la morte, e che non ha prodotto nessuna di queste conseguenze solo per puro caso. <strong>L’analisi dei mancati infortuni</strong> consiste nel registrare il verificarsi di questi eventi (descrivendone modalità, soggetti coinvolti e cause) e nel definire misure e strategie da attuare in azienda per fare in modo che non accadano più.</p>



<p>La <strong>piramide di Heinrich</strong> ci mostra come per ogni evento mortale o molto grave (con oltre trenta giorni di prognosi), si verifichino ventinove infortuni più o meno gravi (da tre a trenta giorni di prognosi) e trecento mancati infortuni. Secondo le stime dell’<strong>ANMIL</strong> (Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi dal Lavoro), applicando queste proporzioni ai dati in Italia sugli incidenti sul lavoro, si possono ipotizzare <strong>almeno 3,5 milioni di <em>near miss</em> all’anno</strong> nel nostro Paese.</p>



<p>Non sussiste un obbligo formale e dichiarato del datore di lavoro nel <strong>D.Lgs 81/08</strong> (<em>Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza</em>, e successive modifiche) di riportare questi (mancati) accadimenti e di disporre delle misure che li prevengano. Tuttavia questa pratica fa parte del percorso obbligatorio per le aziende che vogliono ottenere o che hanno ottenuto la <strong>certificazione sulla sicurezza ISO 45001</strong> del 2018 (la prima norma internazionale sugli standard minimi di buona pratica per la protezione dei lavoratori in tutto il mondo).</p>



<p>Un&#8217;azienda certificata assicura un <strong>Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sui luoghi di lavoro</strong> conforme agli standard internazionali, che garantisce la diminuzione degli infortuni che si verificheranno in azienda (con un calo dei costi diretti e indiretti a essi collegati). I <strong>benefici</strong> sono poi molti altri, quali l’esenzione dalla responsabilità amministrativa prevista dal D. Lgs. 231/01, la riduzione del tasso elaborato dall&#8217;INAIL in funzione dell&#8217;andamento infortunistico aziendale (sconto che in alcuni casi copre sino al costo della certificazione stessa), un aumento della produttività, il miglioramento dell’immagine dell’impresa, e molte altre esternalità positive.</p>



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<h2 id="h-ma-chi-fa-davvero-l-analisi-dei-near-miss-e-che-cosa-ottiene">Ma chi fa davvero l’analisi dei <em>near miss</em>, e che cosa ottiene?</h2>



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<p><strong>Marco Ferrari</strong>, consulente per la sicurezza sul lavoro, racconta la sua esperienza a riguardo.</p>



<p>“All’inizio l’analisi dei mancati infortuni hanno cominciato a farla <strong>le aziende a rischio rilevante</strong>, quelle soggette alla <strong>direttiva Seveso</strong>. Oggi sono sempre di più le realtà che la fanno, sia all’interno dei percorsi di certificazione ISO 45001 che, in alcuni casi, senza puntare a riceverla; ma sono la minoranza. Per quanto riguarda le aziende certificate, si tratta in prevalenza di multinazionali o di imprese comunque sopra i duecento dipendenti; la realtà più piccola che ho visto era sopra i cinquanta addetti. Per le PMI è percepita ancora come un impegno gravoso.”</p>



<p>“<strong>L’esonero dall’applicazione della D.Lgs 231/01</strong> per le responsabilità dell’azienda in caso di infortunio sicuramente è stato un evento scatenante che ha stimolato le imprese a iniziare a certificarsi, e di conseguenza a fare l’analisi dei <em>near miss</em>; tuttavia alla base di questa buona prassi c’è anche un interesse maggiore a cambiare la cultura sulla sicurezza.”</p>



<p>Il problema per Ferrari resta passare dalla teoria alla pratica: “Vedo aziende che ci credono davvero e che ottengono risultati positivi, che vanno anche oltre quanto previsto in termini di prevenzione. Tuttavia, in altri casi, incontro ancora delle <strong>resistenze</strong> quando si fa formazione su questi temi, sia da parte dei vertici che dei dipendenti. Manca a volte la consapevolezza dell’importanza del coinvolgimento effettivo di tutta l’azienda nel controllo e nella percezione della responsabilità da parte del lavoratore”.</p>



<p>Va da sé infatti che senza un <strong>coinvolgimento dei dipendenti</strong> la mappatura dei <em>near miss</em> avrà sempre un limite, poiché sono solo le persone a diretto contatto con i processi produttivi che possono vederne i rischi nella quotidianità.</p>



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<h2 id="h-stefano-pancari-i-near-miss-non-si-analizzano-per-tre-motivi-ecco-quali">Stefano Pancari: “I <em>near miss</em> non si analizzano per tre motivi”. Ecco quali</h2>



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<p>“A mio parere possono essere tre i motivi per cui si fatica a far passare l’importanza dell’analisi dei mancati infortuni”, spiega <strong>Stefano Pancari</strong> (CEO di Sfera Ingegneria, ambassador del network Italia Loves Sicurezza e ideatore di Rock’nSafe, un’iniziativa che unisce la musica alla sicurezza sui luoghi di lavoro).</p>



<p>“Prima di tutto c’è l’aspetto dell’<strong>inconsapevolezza </strong>e della percezione della pericolosità di un comportamento: <strong>sto correndo un rischio ma non me ne rendo conto</strong>. Questo avviene soprattutto quanto il lavoratore ha troppa confidenza con l’operazione che sta svolgendo. Poi c’è l’aspetto della <strong>sottovalutazione del rischio</strong>, un atteggiamento correlato come nel caso precedente a una scarsa cultura della sicurezza, che le aziende dovrebbero modificare. In entrambi i casi la formazione deve intervenire per sostituire comportamenti e abitudini sbagliate con abitudini nuove, puntando a sensibilizzare sugli aspetti valoriali.”</p>



<p>“Infine c’è l’ultima dimensione: quella della <strong>paura</strong> della persona a esternare di essere stata vittima di un <em>near miss</em> per le possibili conseguenze. Un mancato infortunio che avviene per <strong>negligenza</strong> <strong>del lavoratore</strong> può risultare in un richiamo per il comportamento adottato. Ecco che in tal senso le aziende dovrebbero aumentare la loro sensibilità verso la ‘<strong>cultura dell’errore</strong>’, che non va visto solo come qualcosa da condannare e punire, ma come un’opportunità di miglioramento.”</p>



<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/pancari.jpg"><img width="1024" height="683" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/pancari-1024x683.jpg" alt="" class="wp-image-47677" /></a><figcaption>Stefano Pancari, CEO di Sfera Ingegneria e ideatore di Rock’nSafe. Nobìlita Festival 2021, Imola</figcaption></figure>



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<h2 id="h-formazione-e-comunicazione-come-cambia-la-cultura-del-lavoro-e-della-sicurezza">Formazione e comunicazione: come cambia la cultura del lavoro e della sicurezza</h2>



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<p>Alla base dell’idea di Stefano Pancari c’è l’importanza della <strong>formazione</strong> e della <strong>comunicazione</strong> per la promozione di una cultura diversa del lavoro e della sicurezza. Lungi dall’essere dei meri adempimenti burocratici, le pratiche e le attività connesse alla sicurezza vanno promosse all’interno delle aziende in maniera nuova e continuativa nel tempo, cercando di coinvolgere e motivare tutti i livelli dell’azienda, dai ruoli di leadership alle diverse figure lavorative di ogni livello.</p>



<p>“Serve una sensibilità maggiore sull’<strong>importanza del fattore umano</strong>, e in questo senso è fondamentale la parte delle Risorse Umane, che insieme al lato Safety si prende cura della persona. Per favorire questo coinvolgimento le aziende devono adottare una comunicazione e una formazione che vanno <strong>ben oltre gli adempimenti previsti per legge</strong>, costruendo percorsi reiterati che verificano nel tempo gli impegni presi e i risultati ottenuti. Per fare questo è fondamentale che noi consulenti ci impegniamo a trasferire il nostro know how nelle aziende, e a far sì che le persone siano poi in grado di usare spontaneamente e in autonomia gli strumenti ricevuti”, conclude Pancari.</p>



<p>I più di mille infortuni nei primi dieci mesi di quest’anno in Italia dovrebbero essere un motivo sufficiente per arrivare (presto) alla diffusione di questa nuova cultura della sicurezza e dei suoi strumenti, tra cui l’analisi dei mancati infortuni. Se (per forza o per virtù) le grandi aziende sembrano aver interiorizzato la loro importanza, la difficoltà maggiore restano le <strong>PMI</strong>.</p>



<p>Il mondo della formazione ha in mano strumenti comunicativi potenti per favorire questo cambiamento. L’importante è trovare la chiave per mostrare come gli <strong>adempimenti sulla sicurezza</strong> siano <strong>opportunità di crescita e miglioramento per le aziende</strong>. Ora che sempre più esperienze aziendali hanno preso piede è tempo che il loro esempio, e i risultati positivi ottenuti (anche in termini economici) fungano da traino per chi è rimasto indietro.</p>



<p></p>



<p>Photo by <a href="https://unsplash.com/@ernestovdp?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Ernesto Velázquez</a> on <a href="https://unsplash.com/s/photos/hammer?utm_source=unsplash&amp;utm_medium=referral&amp;utm_content=creditCopyText">Unsplash</a></p>



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Near miss e far west: le imprese non imparano dai mancati infortuni

<p>Quest’anno, i <strong>morti sul lavoro</strong> sono stati <strong>1.041</strong> (alla data del 6 dicembre). In media si tratta di <strong>tre vittime ogni giorno</strong>, se non calcoliamo nessun tipo di riposo o festivo. Sappiamo i loro nomi, ma non sempre è facile identificare i carnefici, e per questo vengono ipocritamente definite “morti bianche”, causate dall’assenza di condizioni di lavoro sicure.</p>
<p>Dove non arriva lo Stato e dove non può o non vuole arrivare il datore di lavoro, deve esserci l’intraprendenza dei professionisti e dei lavoratori stessi. È il caso di <strong>Italia Loves Sicurezza</strong>, una comunità ideata dalla fondazione Leadership in Health Safety, di Saipem. Alla base della comunità c’è una <strong>nuova piattaforma</strong> lanciata il 12 novembre che mira ad aiutare i lavoratori raccogliendo le loro testimonianze e i loro suggerimenti, oltre alle segnalazioni su cosa dovrebbe cambiare nel loro settore. L’obiettivo è quello di <strong>dimezzare gli incidenti mortali entro il 2030</strong>.</p>
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<h2 id="h-italia-lovs-sicurezza-la-piattaforma-in-cui-la-prevenzione-sul-lavoro-diventa-virale">Italia Lovs Sicurezza: la piattaforma in cui la prevenzione sul lavoro diventa virale</h2>
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<p>Italia Loves Sicurezza è “un network che negli ultimi cinque anni ha rivoluzionato il modo di <strong>fare e comunicare salute e sicurezza</strong>”, ha annunciato <strong>Davide Scotti</strong>, segretario generale della Fondazione LHS, durante l’evento di presentazione del sito, che è stato pensato per diffondere “comportamenti sani e sicuri tramite l’esempio, l’ispirazione e l’informazione”. Fino ad oggi, il sito vanta un impatto su <strong>1.036.529 persone</strong>.</p>
<p>La piattaforma consiglia all’utente <strong>tre mosse</strong>: sfogliare la bacheca degli atti di salute e sicurezza, scegliere quello più adatto al proprio ruolo e poi, dopo averlo messo in pratica, raccontare come è andata. Le <strong>azioni suggerite</strong> vanno dalle più semplici, come non usare il telefono mentre si scende una rampa di scale (che il sito definisce come l’infortunio più diffuso), a quelle più complesse, come segnalare azioni e situazioni non sicure o proporre idee per rendere accattivanti le esercitazioni antincendio. Infine, si possono organizzare visite di osservazione accompagnate con il personale degli uffici o individuare una serie di lavoratori perché diventino il punto di riferimento di una specifica regola di sicurezza, imparandone la normativa, come rispettarla e quali benefici può portare all’Azienda e alle persone.</p>
<p>La piattaforma vuole dunque <strong>trasmettere agli utenti come insegnare la sicurezza ai loro colleghi</strong>, creando un circolo virtuoso.</p>
<p>Alla base di tutto c’è la metodologia <strong><em>Viral Change</em></strong> pensata dall’esperto organizzativo <strong>Leandro Herrero</strong>, che ha partecipato alla presentazione del nuovo sito. Secondo Herrero, la consapevolezza indotta dei sistemi di comunicazione top-down, ossia la <strong>sensibilizzazione dall’alto</strong>, non basta a modificare il comportamento di una certa comunità. Non è possibile fare campagne di sensibilizzazione su tutto e costantemente, e quando una di esse termina i soggetti tendono a dimenticare e l’effetto si affievolisce.</p>
<p>Per Herrero bisognerebbe <strong>aggiungere all’elemento <em>push</em> un elemento <em>pull</em></strong> per fare in modo che le informazioni divulgate attecchiscano e creino un cambiamento sociale. Bisogna passare dalla matematica dell’addizione a quella della <strong>moltiplicazione</strong>: “Coinvolgiamo qualcuno, poi qualcun altro, teniamo un seminario, poi due, poi tre e andiamo avanti così, ma quanti seminari sarebbero necessari per raggiungere l’intera popolazione? Sarebbe invece necessario coinvolgere un soggetto e poi fargli intraprendere una certa iniziativa per coinvolgerne altri, che ne coinvolgerebbero altri ancora. Oggi usiamo strumenti lineari, che non possono dare questi risultati”.</p>
<p>Occorre dunque un <strong>meccanismo esponenziale</strong> per coinvolgere la totalità di una comunità nell’applicare <strong>regole di sicurezza e di salute</strong>. Per questo, il sito è stato pensato per la diffusione dei comportamenti della sicurezza sul posto di lavoro o a scuola.</p>
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<h2 id="h-come-si-fa-male-l-italia-che-lavora-succede-anche-negli-uffici">Come si fa male l’Italia che lavora: succede anche negli uffici</h2>
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<p>Secondo Scotti la situazione sta già cambiando, e lo si può vedere da una <strong>maggiore attenzione dei media</strong> sul fenomeno delle morti sul lavoro. Che l’attenzione ci sia è facilmente verificabile: la query “morti sul lavoro 2021” restituisce 13 milioni di risultati, fra report e notizie. Che però questo sia un segnale positivo non è così scontato e l’informazione non è stata scevra dallo <strong>sciacallaggio mediatico</strong>, come nel caso di Luana D’Orazio, la ventiduenne morta sul lavoro a Montemurlo (Prato), di cui i giornali hanno parlato a lungo coinvolgendo anche la sua vita privata. Non a caso, il numero delle morti sul lavoro è rimasto pressoché costante negli ultimi anni: nel 2020 sono state 1.538, nel 2019 1.205 e 1.279 nel 2018.</p>
<p>Italia Loves Sicurezza, però, affronta il problema senza escludere le pratiche che nel quotidiano potremmo considerare superflue, così da prevenire gli infortuni più piccoli che possono avvenire anche alla scrivania dell’ufficio. Secondo l’INAIL, gli <strong>infortuni avvenuti in Italia</strong> nei primi dieci mesi del 2021 sono stati 448.110, e non dobbiamo immaginarli solo come incidenti di cantiere. Per esempio, 33.000 di questi sono avvenuti nell’ambito della <strong>sanità e assistenza sociale</strong>. O ancora, impieghi come le <strong>attività legali e contabilità</strong> hanno avuto 799 infortuni e 3 decessi. Nelle attività di <strong>direzione aziendale</strong> e di <strong>consulenza gestionale</strong> sono avvenuti 3.747 incidenti, 13 dei quali mortali. Nel settore della <strong>pubblicità</strong> e delle <strong>ricerche di mercato</strong> si sono registrati 511 infortuni e 2 morti. Nella <strong>ricerca scientifica</strong> ne sono avvenuti 392, con un decesso. Infine, anche nei <strong>servizi veterinari</strong> è stato registrato un incidente mortale, su un totale di 35 infortuni. Per quanto questi dati possano spaventare, le <a href="https://www.inail.it/cs/internet/docs/alg-dati-inail-2021-novembre-pdf.pdf" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">tabelle INAIL</a> mostrano che sono in <strong>lieve diminuzione</strong> rispetto allo scorso anno.</p>
<p>Inoltre, non bisogna dimenticarsi degli infortuni che possono avvenire nel <strong>tragitto casa-lavoro</strong>: quest’anno si è verificato un aumento del 20,4% degli <strong>incidenti in itinere</strong>, per un totale di 62.403 casi. Per questo, Italia Loves Sicurezza si occupa anche di incentivare la sicurezza stradale, e fra le sue missioni ce n’è una dedicata alle vittime della strada.</p>
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<h2 id="h-la-repressione-dei-comportamenti-negativi-genera-sicurezza">La repressione dei comportamenti negativi genera sicurezza?</h2>
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<p>Anche le <strong>malattie professionali</strong> sono un dato importante da tenere in considerazione. Da gennaio a fine ottobre sono state 45.395 quelle insorte, 8.776 in più rispetto allo stesso periodo del 2020. Le più denunciate sono le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, del sistema nervoso e dell’orecchio. Seguono poi i tumori e le malattie al sistema respiratorio. In tutte queste nuove patologie ci sono casi di lavoratori che avrebbero potuto evitare problemi alla vista se gli fosse stato spiegato quanta distanza deve esserci fra l’occhio e lo schermo del computer, o se il datore di lavoro avesse installato dei filtri per la luce blu, così come sedie ergonomiche per evitare i problemi alla schiena. Si tratta di piccoli accorgimenti che potrebbero fare la differenza nelle vite di molte persone, oltre a evitare costi per lo Stato.</p>
<p>“In natura, gli insiemi complessi generano <strong>comportamenti nuovi, inaspettati, figli del sistema</strong>”, ricorda Scotti. “Allo stesso modo, le nostre azioni individuali e collettive possono <strong>generare atti quotidiani, azioni</strong>”. È la base del meccanismo che, per Herrero, crea una nuova cultura. Al di là del ruolo del leader, del <em>role model</em>, che può essere utile come punto di riferimento ma non così determinante nel cambiamento complessivo del comportamento di una comunità, deve esserci un <strong>approccio <em>peer to peer</em></strong>, ossia quello di una rete paritetica, per far sì che il mutamento si instauri in maniera definitiva. Non bastano le costrizioni o le punizioni.</p>
<p>“Hanno un impatto molto limitato”, spiega Herrero, “non funzionano per sempre. <strong>Rinforzare i comportamenti positivi </strong>è molto più efficace, e nella sicurezza è un tema importantissimo”.</p>
</p>
<p>Foto di&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/@jdominici?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Jerome Dominici</a></strong>&nbsp;da&nbsp;<strong><a href="https://www.pexels.com/it-it/foto/blocco-rosso-nel-recinto-di-collegamento-grigio-612266/?utm_content=attributionCopyText&amp;utm_medium=referral&amp;utm_source=pexels">Pexels</a></strong></p>
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Sarà vero che l&#8217;Italia Loves Sicurezza?

La sicurezza diventa virale con una nuova piattaforma online che diffonde e consiglia comportamenti a prova di incidente sul lavoro. Le opinioni di Davide Scotti, segretario generale della Fondazione LHS, e l&#8217;esperto Leandro Herrero.

Sarà vero che l&#8217;Italia Loves Sicurezza? - Informazione senza filtro

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<p>Le mura domestiche, complice la pandemia, sono diventate ormai un luogo di lavoro a tutti gli effetti, ma c’è chi vive questo tipo di situazione da ben prima del COVID-19: parliamo dei e soprattutto delle <strong>caregiver familiari</strong>, ossia chi presta assistenza familiare.</p>



<p>I e le caregiver sono ogni giorno chiamati a sostenere un <strong>carico gravoso</strong>, che oltre alla cura del familiare con patologie o disabilità gravi comporta la gestione degli aspetti burocratici, della manutenzione della casa, dell’iter delle terapie, del trasporto della persona. Al corollario di responsabilità e impegni purtroppo si aggiungono spesso la paradossale rinuncia al proprio lavoro remunerato e persino la <strong>messa a rischio della propria salute e sicurezza fisica</strong>.</p>



<p>La <strong>casa</strong> rappresenta infatti <strong>uno dei luoghi ad alto rischio</strong> per quanto riguarda gli infortuni, tanto che gli incidenti domestici costituiscono un forte problema per la sanità pubblica. Da tempo l’ISTAT quantifica un dato allarmante: <strong>più di tre milioni di infortuni tra le mura domestiche </strong>all’anno.</p>



<p>Inoltre, secondo diversi studi, lo stress quotidiano incide sulla salute fisica e mentale dei/delle caregiver, che presentano spesso disturbi del sonno, dolori dell’apparato muscolo-scheletrico, depressione e ansia, oltre all’aggravarsi di sintomatologie di patologie preesistenti. In altri casi le malattie si innescano a seguito della condizione di pressione e fatica costanti che possono provocare la<strong> sindrome del burnout</strong>, ossia uno stato di esaurimento emotivo, mentale e fisico. In tutti questi casi però <strong>non vengono garantiti periodi di riposo né di cura</strong> per i caregiver, che alla fatica del presente vedono aggiungersi preoccupazioni pressanti per il futuro.</p>



<p>“In assenza della <strong>legge</strong> che riconosca la figura del <strong>caregiver come lavoratore</strong>, mancano tutte le tutele: bisogna provvedere di tasca propria, se si è in grado, sia a stipulare un&#8217;assicurazione sia a finanziarsi un piano pensionistico”, commenta a questo proposito <strong>Alessandra Corradi</strong>, caregiver e presidente dell’associazione onlus “Genitori Tosti in Tutti i Posti” di Verona, attiva dal 2008 a livello nazionale nel promuovere il riconoscimento della figura dei e delle caregiver come lavoratori e lavoratrici.</p>



<p>A immergerci nel vivo di queste problematiche ci pensano due caregiver che le vivono da anni in prima persona, e che hanno scelto di raccontarci le loro storie senza reticenze.</p>



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<h2 id="h-i-caregiver-familiari-sostituiscono-servizi-inesistenti-al-prezzo-di-carriera-e-salute">I caregiver familiari sostituiscono servizi inesistenti al prezzo di carriera e salute</h2>



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<p>Dal mattino presto fino a sera, giorno dopo giorno, lo sforzo di un impegno continuo, di quelli che logorano al punto da mettere a repentaglio salute&nbsp;e&nbsp;sicurezza.</p>



<p>È questa la dura quotidianità che ci testimonia con la sua storia&nbsp;<strong>Serena Monti</strong>, giovane donna e caregiver residente in provincia di&nbsp;<strong>Bologna</strong>. Da tempo assiste il suo compagno, che a causa di un ictus cardio-embolico necessita di cure costanti e gestione su più fronti: “Mi sono rifiutata che venisse abbandonato in una casa di risposo e da otto anni a questa parte me ne occupo io”, racconta.</p>



<p>La giornata di Serena inizia presto e il programma non concede distrazioni o pause: “Mi sveglio alle sei e mezza e mi occupo di tutti gli aspetti: lo lavo, gli do da mangiare, lo vesto, lo porto fuori a prendere aria. Mi sono anche trasformata in fisioterapista e logopedista perché <strong>i servizi sono praticamente inesistenti </strong>e la sua condizione non può fare a meno di queste attività”.</p>



<p>Il destino dei e delle caregiver infatti prevede spesso di sostituirsi – non per scelta quanto per necessità – a servizi lacunosi o persino assenti, come ci conferma la nostra intervistata. “Basti pensare che <strong>in un anno lo Stato ci ha passato solo due sedute di fisioterapia</strong> che sono durate sì e no <strong>cinque minuti</strong>. In pratica si è trattato di una dimostrazione di che cosa avrei dovuto fare io con lui: la cura è stata finora sulle mie spalle”.</p>



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<h2 id="h-servono-stipendio-e-tutele-per-cio-che-facciamo-noi-caregiver">“Servono stipendio e tutele per ciò che facciamo noi caregiver”</h2>



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<p>Il compagno di Serena, proprio grazie ai suoi interventi costanti, ha avuto importanti miglioramenti che nemmeno i sanitari avevano previsto, ma nel frattempo è lei a fare i conti con le conseguenze di una <strong>fatica logorante</strong> vissuta giorno dopo giorno: “Non ce la faccio più, sento una stanchezza fortissima. Ho la schiena distrutta, le gambe sempre gonfie e la tachicardia, avrei necessità di farmi visitare e anche curare, ma i tempi di attesa della sanità pubblica sono lunghi e le cure mediche private non me le posso di certo permettere perché troppo costose. Non sto bene e ho rischiato più volte di farmi male: <strong>devo per caso rischiare di finirci io in carrozzina?</strong>”.</p>



<p>Quando l’impegno diventa estenuante Serena contatta le figure degli&nbsp;<strong>assistenti domiciliari</strong>&nbsp;forniti dal Comune in cui risiede, ma la situazione è allo stremo, a maggior ragione se pensiamo alle conseguenze fisiche e alle mancate tutele sul fronte della&nbsp;sicurezza. “Non posso lavorare e quindi avere uno stipendio perché devo gestire quotidianamente il mio compagno, e <strong>mancano tutele</strong> <strong>riconosciute</strong> <strong>per noi caregiver in caso di malattia</strong>”.</p>



<p>Una situazione da vicolo cieco allestita dallo stesso sistema, costellato da normative assenti, risorse bloccate e indifferenza. Serena <strong>sfata anche un mito che riguarda il</strong>&nbsp;<strong>territorio emiliano</strong>, spesso esaltato dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi sociosanitari: “Le pecche ci sono anche qui. Purtroppo per chi assiste i familiari le mancanze riguardano un po’ tutta Italia”.</p>



<p>Che cosa potrebbe migliorare la situazione Serena Monti lo sa bene e lo afferma con schiettezza: “Servono un&nbsp;<strong>riconoscimento</strong>&nbsp;e uno&nbsp;<strong>stipendio</strong>&nbsp;per quello che facciamo e che ci tuteli a livello economico e di sicurezza, salute compresa, perché non possiamo davvero più andare avanti così. Se ci ammaliamo noi, a chi è invalido poi chi ci pensa?”.</p>



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<h2 id="h-sistema-inesistente-lavoro-una-volta-all-anno-le-rinunce-dei-caregiver">“Sistema inesistente, lavoro una volta all’anno”: le rinunce dei caregiver</h2>



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<p>Un’altra storia emblematica proviene dal<strong> Veneto</strong>, precisamente dalla provincia di <strong>Treviso</strong>, con protagonista una coppia di genitori che ha adottato tre bambini provenienti da vicende di deprivazione e incuria, le quali hanno provocato problematiche di tipo comportamentale – oltre che, in due di loro, disturbi psichiatrici in aggiunta a disabilità come la sordità.</p>



<p>A raccontarci la sua quotidianità fatta di sfide e anche di tante conquiste raggiunte è <strong>Marula Furlan</strong>, madre e caregiver. Marula proviene da un’esperienza professionale importante come responsabile di progetti che riguardano l’ambito dei <strong>disturbi post traumatici</strong> che coinvolgono minori vittime di abusi, in particolare come coadiutrice di cani per interventi di assistenza dedicati proprio a queste problematiche. Un ruolo che ha dovuto ridurre, se non abbandonare, per seguire al meglio i figli, svolgendo senza alcuna tutela e riconoscimento il ruolo di caregiver: “Ne abbiamo affrontate tante e posso dire con certezza che <strong>il sistema da cui siamo circondati</strong>, tra penuria di servizi e figure non sempre preparate, <strong>è quello che scoraggia di più</strong>”, evidenzia.</p>



<p>La vita di Marula e suo marito ha dovuto riorganizzarsi del tutto, come ci spiega lei stessa: “Ci siamo trasferiti in campagna per avere uno spazio di sfogo per i ragazzi. Io<strong> ho dovuto rinunciare al lavoro </strong>se non seguendolo una volta all’anno in veste di coordinatrice perché era impossibile conciliare tutta la gestione quotidiana delle problematiche e delle necessità dei nostri figli con la professione”.</p>



<p>Come sempre l’assistenza familiare nel nostro Paese arriva a implicare la <strong>rinuncia totale</strong> o<strong> parziale del lavoro remunerato</strong>, senza che venga riconosciuta come tale.</p>



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<h2 id="h-il-timore-dei-caregiver-familiari-chi-si-occupa-degli-assistiti-in-caso-di-incidente-o-malattia">Il timore dei caregiver familiari: chi si occupa degli assistiti in caso di incidente o malattia?</h2>



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<p>Focalizzandoci sul <strong>tema sicurezza</strong>, Marula Furlan mette in risalto alcuni aspetti chiave: “Gli incidenti e le criticità non sono mai prevedibili e noi caregiver lo sappiamo molto bene: nulla è dato per scontato. A maggior ragione servirebbero delle <strong>tutele relative agli incidenti domestici</strong>. Noi come famiglia abbiamo attivato un’<strong>assicurazione</strong>, ma oltre a essere di nostra iniziativa personale è tutta a nostro carico”.</p>



<p>Servizi zoppicanti e mancanza di tutele formano un cocktail micidiale per la vita quotidiana dei caregiver che devono gestire situazioni complesse: “<strong>Un’insegnante di sostegno</strong> di una delle mie figlie le ha provocato una <strong>regressione così grave</strong> che non sono mancati episodi in cui abbiamo dovuto contattare <strong>carabinieri</strong> e <strong>ambulanza</strong>: il recupero di nostra figlia l’abbiamo dovuto gestire noi”.</p>



<p>Il tema sicurezza tocca un altro terreno scottante, quello della <strong>salute </strong>di chi opera sul fronte dell’assistenza familiare: “Nel 2015 ho scoperto di avere una patologia rara che mi ha provocato due tumori”, racconta Marula. “Posso affermare che il nostro pensiero come genitori non era per la mia salute, ma <strong>come dare un’adeguata assistenza</strong> ai nostri bambini <strong>qualora mi fosse successo qualcosa</strong> perché spesso mancano figure preparate per sostituirci. I problemi non derivano dai bambini, bensì dalla disgregazione sociale e dalla mancanza di servizi”.</p>



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<h2 id="h-noi-caregiver-facciamo-risparmiare-allo-stato-350-euro-al-giorno">“Noi caregiver facciamo risparmiare allo Stato 350 euro al giorno”</h2>



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<p>Quando si parla di lavoro è inevitabile anche parlare di <strong>soldi</strong>: “Numeri alla mano, <strong>facciamo risparmiare allo Stato ben 350 euro al giorno di comunità</strong>. Noi non chiediamo così tanto, ma un riconoscimento sì, oltre a tutele che non siano a nostro carico”.</p>



<p>Ancora una volta il<strong> lavoro non riconosciuto</strong> del o della caregiver mette a repentaglio la sua stessa salute, come sottolinea Marula: “Io stessa ho rischiato più volte di farmi male in casa, e quando il bambino più piccolo si è ferito a causa del suo disturbo ho dovuto rinviare la mia operazione per stare in ospedale con lui. È anche capitato che rinviassi esami di controllo a causa di situazioni difficili subentrate in casa”.</p>



<p>Tante sfide, ma non sono mancate le <strong>conquiste</strong>: “In barba a chi non ci credeva, pur con fatica, siamo riusciti a far attivare un <strong>progetto di autonomia </strong>per i nostri figli, dimostrando che i miglioramenti sono possibili se si lavora uniti e con costanza”.</p>



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<p><em>Photo credits: alzheimer-riese.it</em></p>


Ammalarsi per assistere: caregiver senza tutele, lo Stato li sfrutta e li ignora


<p>Quando la titolare del B&amp;B di Anagni in cui avevo pernottato la sera prima mi ha mandato un WhatsApp per dirmi che <strong>avevo lasciato un libro sotto il cuscino</strong>, il primo pensiero non è stato di rammarico.</p>



<p>Ci trovo un fondo di verità nel credere che la parte meno razionale di noi provi a liberarsi in modo incidentale di ciò che non le piace. Oppure – mettiamola così – credo sia quello che mi è successo con l’ultimo libro di <strong>Sabino Cassese</strong>, edito da Il Mulino, <strong><em>Intellettuali</em></strong>.</p>



<p>Cassese è un uomo del primo Novecento che ha accettato in pieno le sfide contemporanee e non si sottrae alle trasformazioni, non si tira indietro se c’è da dire la sua. Da <strong>giurista</strong> lo leggo e lo ascolto, prendo spunti e a volte ribalto. Da<strong> intellettuale</strong> che scrive dei suoi omologhi, però, <strong>mi annoia</strong>. Lo confesso.</p>



<p>Sta qui il passo falso del libro, di certo scritto nel tempo giusto – l’aridità di pensiero è evidente e dilagante al tempo stesso; la categoria è in crisi nera e non sa che reinventarsi – ma da un pulpito sbagliato. Al Cassese intellettuale, che tenta di stanare i difetti della categoria, già a un quarto di libro si riesce a fargli tana: per quanto nobile possa essere stato l’intento di scrivere centotré pagine in formato tascabile con cui suscitare un <strong>mea culpa collettivo</strong>, il suo errore più grande è non essersi accorto di <strong>far parte del problema</strong>.</p>



<p>Provo a spiegare perché.</p>



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<h2 id="h-sabino-cassese-descrive-e-incarna-la-crisi-degli-intellettuali">Sabino Cassese descrive (e incarna) la crisi degli intellettuali</h2>



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<p>Intanto i pesi del libro: fino a pagina 82 sembra di stare a leggere dentro una bolla del sapere, tra citazioni e riferimenti che disarmano chiunque, malauguratamente e da non intellettuale, si fosse comprato il libro sperando di non sentirsi ignorante e di trovarci dentro un modo differente, più empatico, di esporre le questioni. È solo negli <strong>ultimi due capitoli</strong> che finalmente <strong>si accorge che siamo nel 2021</strong> e che bisogna pensare a un contesto più reale della colta teoria, insistere contro la crisi delle domande interiori aggravate dalla pandemia e rimarcare l’abbandono di una dimestichezza con quelle domande vitali che ci fanno dire ogni giorno che vale la pena campare e anche pensare.</p>



<p>Dei due capitoli finali ho apprezzato il coraggio di essersi buttato in mare pur senza essere un nuotatore esperto, ma i rischi li ha corsi ugualmente. Quando parla di <strong>memoria transattiva</strong> – “le persone fanno affidamento su quello che possono trovare nel web” – e quando si chiede “se Google diventa una componente del proprio sistema cognitivo, c’è ancora bisogno degli intellettuali?”, la prima sensazione è stata di <strong>sconforto</strong>. Il web non è lo spazio in cui andiamo a cercare un intellettuale, bensì lo spazio in cui cerchiamo risposte, a volte importanti e spesso banali.</p>



<p><strong>L’intellettuale invece fa le domande</strong>, e dovrebbe farle <strong>scomode</strong>: alla società e alla politica, alla cultura, all’uomo medio, ed è un altro mestiere rispetto a quello di Google e i suoi fratelli. Mi piace, invece, quando rimarca che il vero disastro sociale arriva quando ai cittadini non educati si sommano <strong>delegati non competenti</strong>: in Italia il disastro è arrivato da tempo, aggiungo io.</p>



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<h2 id="h-un-libro-del-2021-denso-di-cultura-di-inizio-novecento">Un libro del 2021 denso di cultura di inizio Novecento</h2>



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<p>Altro scivolone è che tutti i nomi di intellettuali che cita o tutti gli esempi meritevoli di libri e letture che snocciola si fermano a <strong>troppo inizio del secolo scorso</strong>, come se la sua formazione andasse ostentata e rimarcata rispetto a un passato recente, per non dire a un presente: certo che abbiamo alle spalle secoli di cervelli validissimi, ma non vedo perché non ci si possa sforzare di suggerire a un lettore una strada più attuale.</p>



<p>Mi consola che abbia almeno riportato <strong>una frase di Ivano Dionigi</strong>, “il latinista”: certo che Dionigi lo è, ma definirlo in modo lapidario ed esaustivo come “il latinista” fa arrivare un puzzo di etichette autorevoli e di sapere lontano che di sicuro non aiuta la messa in circolo della conoscenza, e che per di più poggia polvere e patina sopra persone molto più sfaccettate di come le rappresentano gli intellettuali.</p>



<p>Mi fa sorridere amaro anche quando sottolinea che uno dei contesti in cui trovare ancora gli intellettuali sono i <strong>quotidiani</strong>: ma chi li legge più i quotidiani, col livello vergognoso di disinformazione che hanno toccato? I dati parlano da soli.</p>



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<h2 id="h-un-finale-interessante-ma-con-l-autore-fuori-dal-suo-ambito">Un finale interessante, ma con l’autore fuori dal suo ambito</h2>



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<p><strong>Domande buone</strong> ne pone, Cassese, ma non con la stessa cura che dedica alle pagine con cui si illude di aver scritto un libro utile sulla crisi degli intellettuali mentre con l’altra mano si incipria il naso del proprio sapere.</p>



<p>Infatti è nei capitoli finali di attualità, quando si addentra nelle logiche del web e dei linguaggi e quando invita gli intellettuali a cambiare registro e comunicazione per parlare a un pubblico più ampio, che un po’ intenerisce perché <strong>non poche falle</strong>, mentre scrive, gli tolgono la strada sotto i piedi. Mi ha intenerito e ricordato <strong>Corrado Augias</strong> lo scorso gennaio (86 anni come Cassese) quando, dalla pagine della sua rubrica su Repubblica, si lamentava del servizio clienti di Enel per una mail di richiesta di 92 euro a suo avviso non dovuti, mentre in realtà era stato palese vittima di phishing: io lì, a dire il vero, mi sono resa conto della inesistenza di un editing serio dentro i “grandi” giornali, o ancor peggio dell’<strong>inviolabilità dei testi a firma di un intellettuale</strong>, e tutto torna per chiudere il cerchio a questo articolo.</p>



<p>Ad ogni modo, il libro rimasto sul cuscino di Anagni poi mi è tornato a casa a mezzo posta. Quanto è bastato per finire di leggerlo in un colpo solo, terrorizzata che il mio vigile inconscio me lo facesse perdere di nuovo.</p>



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<h2 id="h-perche-leggere-intellettuali">Perché leggere <em>Intellettuali</em>?</h2>



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<p>Perché, se si ha la pazienza di arrivare alla <strong>parte finale del libro </strong>con un Cassese un po’ più libero dalle etichette dell’intellettuale, vale la pena provare a <strong>rispondere a certi quesiti</strong> che pone.</p>



<p>A me ha lasciato la voglia di capire se gli intellettuali, piuttosto che parlare al grande pubblico, scelgano la strada della consulenza al potere, alle istituzioni; se preferiscano cioè <strong>farsi pagare per non pensare o per dare soluzioni comode</strong> piuttosto che porsi domande per far tremare la società.</p>



<p>Giuro che non c’è ironia, né polemica, in questo mio dubbio. Ci sto ancora pensando.</p>


Non è Google l’intellettuale che ci manca

<p>L’<strong>INPGI, l’Istituto Nazionale di Previdenza per i Giornalisti Italiani, è fallito</strong>. O meglio, l’INPGI 1 verrà assorbito dall’INPS, come deciso dalla legge di bilancio. La decisione porta la data del mese scorso, eppure sono stati in pochi a parlarne. Forse perché il tracollo della cassa previdenziale era sotto gli occhi di tutti da diversi anni. Il motivo? Si potrebbe incolpare la crisi del settore, ma sarebbe una spiegazione semplicistica.</p>
<p>“In tutta questa vicenda, mentre ci sono tante voci, l’unica notizia certa è che <strong>dal primo luglio 2022 l’INPGI passa all’INPS</strong> perché così ha deciso la legge di stabilità”. A dirlo è <strong>Claudio Santini</strong>, storico giornalista del <em>Resto del Carlino </em>e docente di Deontologia al Master di Giornalismo di Bologna. “Sul resto ci sono molte incertezze, ma c’è una notizia abbastanza buona: l’INPGI <strong>non è stata commissariata</strong>, non è stata messa sotto il controllo di un gruppo politico. Il che avrebbe significato una completa sottrazione del controllo dell’Istituto dalle mani dei giornalisti”.</p>
<p><strong>L’INPGI 2, infatti, resta ancora attivo</strong>. Si tratta della cassa previdenziale per i lavoratori autonomi, attualmente la maggioranza nel giornalismo. Il trattamento di disoccupazione resta fino alla fine del 2023. Ci sarà poi un ricalcolo dei contributi in base ai parametri INPS, che sono più restrittivi. Ciò significa che <strong>le pensioni saranno più basse</strong> <strong>per chi vi andrà prossimamente</strong>; per chi invece è già pensionato, l’assegno resta invariato. Ci sono ancora diversi aspetti che dovranno essere decisi tramite l’iter parlamentare, come i nuovi criteri per la nomina dei consigli di amministrazione.</p>
<p>Secondo Santini si è arrivati a questo punto perché i versamenti dei <strong>contributi</strong> sono calati drasticamente. “<strong>I giornalisti, oggi, ricevono stipendi molto più bassi</strong>, e quelli che vanno in pensione hanno versato di meno di ciò che veniva versato nel passato”.</p>
<p>Ovviamente questo è solo uno step intermedio delle cause. Uno dei fenomeni che ha inciso sulla crisi dell’INPGI è il <strong>prepensionamento</strong>.</p>
<p>“I prepensionamenti hanno portato via i giornalisti, ma la loro uscita dal lavoro è stata pagata dai giornalisti stessi. Per chiedere lo stato di crisi le procedure sono molto semplici, non ci sono molti scogli da superare. I giornalisti hanno pagato di tasca a loro i <strong>vantaggi che gli editori hanno ottenuto con lo stato di crisi</strong>, ossia prepensionare i lavoratori. L’INPGI ha dovuto così pagare le pensioni dei giornalisti che sono stati esclusi, ma non alla fine del loro percorso lavorativo; senza quindi che avessero versato tutti i contributi necessari.”</p>
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<h2 id="h-crisi-inpgi-il-patrimonio-immobiliare-ridotto-allo-0-73-in-nove-anni">Crisi INPGI, il patrimonio immobiliare ridotto allo 0,73% in nove anni</h2>
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<p>C’è però un altro aspetto da considerare. I contributi non sono l’unica forma di entrate dell’istituto; anche le altre sono venute a mancare. A spiegarlo è <strong>Giampiero Moscato</strong>, ex responsabile dell’ANSA Emilia-Romagna, nonché prepensionato.</p>
<p>“L’INPGI è un istituto che meno di dieci anni fa aveva una sostenibilità a cinquant’anni o anche sessant’anni. Era una delle migliori mutue d’Europa”, racconta. “Era ricco, con quello che ricavava dalle entrate contributive aveva acquistato un <strong>patrimonio immobiliare di oltre un miliardo di euro</strong>, che per i 10.000 giornalisti circa che rappresenta si tratta di un’enormità. Tant’è che riusciva a mandare in pensione lavoratori a 57 anni e 18 anni di contributi. Poi c’è stata la <strong>bolla immobiliare</strong> e il crollo del mercato. A quella crisi epocale si è aggiunta la <strong>crisi strutturale</strong> del settore, legata ai social network, che rubano il mercato pubblicitario ai giornali. Perdendo risorse, le testate hanno mandato a casa i dipendenti che avevano contratti vecchi, dei tempi d’oro, e hanno assorbito molta meno gente e con contratti depotenziati. Nel giro di dieci anni l’INPGI è arrivato sull’orlo del precipizio”.</p>
<p>Nel <strong>2011</strong>, infatti, il patrimonio immobiliare detenuto dall’INPGI era considerevole: al netto degli ammortamenti aveva un valore pari a <strong>707.035.392 euro</strong>. Alla chiusura del <strong>2020</strong>, invece, era di <strong>5.179.183</strong> <strong>euro</strong>. Il valore di una delle principali fonti di reddito dell’INPGI è oggi lo 0,73% di quello di dieci anni fa.</p>
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<h2 id="h-una-crisi-che-dura-da-anni-perche-nessuno-e-intervenuto-prima">Una crisi che dura da anni: perché nessuno è intervenuto prima?</h2>
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<p>Come spiega Moscato, gli <strong>stabili</strong> venivano affittati e garantivano una <strong>rendita utile</strong> ai bilanci, ma la costante diminuzione degli introiti complessivi ha costretto l’INPGI a <strong>svenderli</strong>: sia per sanare i debiti, sia perché, per legge, “non si può detenere un patrimonio immobiliare pari al 100% delle proprie entrate, deve essere al massimo il 20%”. Quindi era necessario disinvestire gli immobili per rientrare nel tetto previsto per legge, ma al contempo il loro valore era diminuito per effetto della crisi. Ed è così che si arriva al 31/12/2020, con un disavanzo di 242.165.971 euro, aumentato di oltre 70 milioni rispetto a quello del 2019.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/Immagine1.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="612" height="386" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/Immagine1.png" alt="" class="wp-image-47476" /></a><figcaption><em>Fonte: INPGI</em></figcaption></figure>
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<p>Come dice Moscato, <strong>il patrimonio immobiliare è stato venduto male</strong> nel periodo in cui è scoppiata la bolla immobiliare, quindi è stato svalutato: “Il quadro ha portato a un <strong>tracollo</strong>, che <strong>non è quindi riconducibile alla disonestà dei dirigenti INPGI</strong>, come racconta <em>Il Foglio</em> o suggerisce Boeri. La situazione, però, era prevedibile e sarebbe stato necessario trattare con la politica cinque o sei anni fa; ora sarebbe meno oneroso per lo Stato”.</p>
<p>Come mostra il grafico, infatti, il valore complessivo degli immobili detenuti era più che dimezzato nel 2015. Un dato che avrebbe richiesto di correre ai ripari immediatamente e che ha coinciso col tracollo del bilancio, come mostra la figura sotto.</p>
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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/Immagine2.png"><img loading="lazy" decoding="async" width="606" height="340" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/12/Immagine2.png" alt="" class="wp-image-47477" /></a><figcaption><em>Fonte: INPGI</em></figcaption></figure>
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<p>Il grafico mostra che la crisi dell’istituto di previdenza era visibile già nel 2014-2015. Dal 2016 al 2017 si è poi passati da un attivo di 9.410.051 euro a un passivo di 100.612.588 euro, poi cresciuto fino a oggi.</p>
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<h2 id="h-crisi-dell-inpgi-colpa-dei-pensionati-semmai-della-politica">Crisi dell’INPGI, colpa dei pensionati? Semmai della politica</h2>
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<p>È, vero, come dice Santini, che il <strong>dislivello fra contributi raccolti e pensioni erogate</strong> ha un peso: i contributi obbligatori versati dai giornalisti nel 2020 sono pari a 375.950.696 euro, mentre il valore delle pensioni dello stesso anno è di 564.358.638 €: una differenza di 188.407.941 €.</p>
<p>Come riporta il documento di bilancio dell’INPGI, l’andamento degli ultimi esercizi è stato caratterizzato dalla “continua flessione dei contributivi obbligatori e non obbligatori e dal continuo aumento della spesa previdenziale. Si conferma, infatti, il fenomeno emerso negli ultimi anni: un <strong>calo costante dell’occupazione</strong> che riflette la crisi economica in cui versa il settore editoriale e la complessità delle trasformazioni in atto nel mondo dell’informazione. Inoltre, sono aumentate le aziende che hanno fatto ricorso ai <strong>contratti di solidarietà</strong> comportando, pertanto, una riduzione della massa retributiva imponibile e un <strong>aumento della spesa previdenziale</strong>”.</p>
<p>Questo però non deve portare a incolpare i giornalisti pensionati. “Da noi il dramma è che i vecchi, che sono già usciti, hanno ottenuto pensioni commisurate al periodo in cui il giornalismo era una gallina dalle uova d’oro. I nuovi scontano il fatto che ora le uova non ci siano, e non sono neanche d’oro”, dice Moscato. “Non credo che il sistema giusto sia quello di svalutare gli assegni di quelli che sono andati in pensione, perché violerebbe il principio della regolamentazione dei rapporti civilistici fra le persone, cioè che <strong>non si può rendere retroattiva una norma svalutativa</strong>. Una delle colpe che do io è che si è accettato che i nuovi ingressi versassero meno contributi e raggiungessero un livello di retribuzione adeguato dopo molto tempo. È il grimaldello con cui i datori di lavoro depotenziano anche la rappresentanza sindacale”.</p>
<p>Come denuncia l’ex direttore dell’ANSA Emilia-Romagna, l’entrata nel mercato di lavoratori con contratti depotenziati ha reso di troppo i giornalisti che godevano di stipendi più alti. Ma come hanno fatto gli editori ad <strong>abusare in questo modo del prepensionamento</strong>?</p>
<p>Nel 1981, Il Parlamento approvò la <strong>legge 416</strong>, Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l&#8217;editoria. Gli articoli 36 e 37 regolano i prepensionamenti in caso di crisi occupazionale, che viene dichiarata tale dal ministero del Lavoro e della previdenza sociale. Con l’aumento delle richieste di prepensionamenti, l’INPGI regolamentò ulteriormente il procedimento, inserendo la necessità di mostrare evidenze negative in bilancio. Fu però la <strong>politica</strong> a dare il colpo di grazia a questo sistema: l’8 ottobre del 2009, un <strong>decreto</strong> <strong>del ministro del Lavoro Sacconi</strong> consentì l’accesso allo stato di crisi anche nel caso in cui la crisi fosse solo prospettata. È in quel momento che ha avuto inizio il tracollo dell’INPGI: la crisi immobiliare l’ha solo accelerato.</p>
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<p><em>Photo credits: contropiano.org</em></p>


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Fallimento INPGI, il vero buco è immobiliare: questa Cassa non è un albergo

Dai prepensionamenti alla crisi immobiliare, il fallimento dell’Istituto Nazionale di Previdenza per i Giornalisti Italiani (INPGI) è stato causato dagli editori e dalle decisioni improvvide della politica. Ne parliamo con Claudio Santini, del &#8220;Resto del Carlino&#8221;, e Giampiero Moscato, ex responsabile ANSA Emilia-Romagna.

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<p>«Non possiamo permettere che <strong>delle minoranze minaccino di morte la maggioranza</strong>.»</p>



<p>Così, con soddisfazione, il giornalista del <em>Corriere della Sera</em> <strong>Fabrizio Roncone </strong>commentava a <em>CartaBianca</em> l&#8217;allontanamento di <strong>Stefano Puzzer</strong> da Piazza del Popolo, conclusosi con un <strong>Daspo</strong> di un anno dalla Capitale. La misura gli è stata inflitta per aver atteso – invano, da solo e pacificamente – che qualcuno rispondesse a tutte quelle domande che, nonostante l&#8217;incontro con il ministro Patuanelli, finora, il Governo ha lasciato cadere nel vuoto.</p>



<div class="wp-block-media-text alignwide is-stacked-on-mobile" style="grid-template-columns:22% auto"><figure class="wp-block-media-text__media"><img width="819" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_115733-819x1024.png" alt="" class="wp-image-46980 size-full" /></figure><div class="wp-block-media-text__content">
<p> Tanti gli interrogativi che questo «<strong>Governo sempre più disconnesso dalla cittadinanza</strong>» – come lo hanno definito le deputate del Gruppo Misto, <strong>Yana Ehm</strong> e <strong>Simona Suriano</strong>, che in Piazza del Popolo e a Trieste ci sono state realmente – continua a lasciare aperti. E sono tanti i dubbi da porsi, se chi ci governa dimostra «azione dopo azione – sempre per citare le deputate – di non avere alcuna intenzione di ascoltare realmente le persone, né di voler trovare misure concrete per risolvere problemi oggettivi, garantendo al contempo diritti fondamentali e sanciti dalla Costituzione, come il diritto al lavoro e la libertà di espressione». </p>
</div></div>



<p>Ma una cosa è certa: se siamo arrivati a definire un uomo solo, in attesa su una panchina, “una minaccia di morte”, qualcosa nella narrazione mainstream è andato storto. Questo storytelling da salotto ha iniziato a scricchiolare già da tempo, e qui, a Trieste, il distacco tra percezione e realtà si è fatto evidente già quel fatidico <strong>18 ottobre</strong>. In quella data, mentre secondo la <strong>ministra Lamorgese</strong> un poliziotto in borghese stava «verificando il movimento ondulatorio di un mezzo», le forze dell&#8217;ordine <strong>respingevano</strong> <strong>con gli idranti centinaia di cittadini</strong> che manifestavano davanti al molo VII del porto. Ma che no, <strong>non impedivano a chi voleva di entrare a lavorare</strong>, e no, <strong>non erano solo portuali</strong>.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-full is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/proteste-trieste.png"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/proteste-trieste.png" alt="" class="wp-image-46987" width="597" height="479" /></a></figure></div>



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<h2 id="h-parlano-i-sanitari-triestini-da-queste-misure-pi-danni-che-benefici">Parlano i sanitari triestini: “Da queste misure più danni che benefici”</h2>



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<p>Per conoscere chi si muove davvero in quest&#8217;onda di dissenso <strong>siamo andati di persona a Trieste</strong><em>.</em></p>



<div class="wp-block-media-text alignwide is-stacked-on-mobile" style="grid-template-columns:41% auto"><figure class="wp-block-media-text__media"><img width="768" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_115628-768x1024.png" alt="" class="wp-image-46979 size-full" /></figure><div class="wp-block-media-text__content">
<p>Abbiamo raccolto <strong>tante voci</strong>, testimonianze di rabbia, sofferenza, incredulità e frustrazione; tutte, però, avvolte da un&#8217;enorme <strong>paura</strong>. Le <strong>ripercussioni </strong>verso chi ha rilasciato<strong> interviste</strong> ci sono già state, fino a sfociare, in alcuni casi, nel licenziamento. Ecco perché chi si è raccontato ha chiesto di farlo in forma anonima, seppure a malincuore.</p>



<p>I primi a balzare all’occhio sono certamente i <strong>sanitari</strong> – medici, infermieri, OSS, tecnici di laboratorio. Anche loro complottisti? Probabilmente quanto lo può essere oggi il professor Crisanti, esautorato dal ruolo di virologo tv, dopo aver dichiarato a <em>Report</em> che gli esponenti del Governo, sul Green pass, avrebbero detto «una serie di stupidaggini pazzesche». </p>
</div></div>



<p>«<strong>Le attuali misure hanno causato più danni</strong> – sociali, etici, psicologici e persino sanitari – <strong>che benefici</strong> per il contenimento dell’epidemia. Se il Governo mirasse effettivamente a un rafforzamento del sistema di screening, come indicato dal DL 127/2021, dovrebbe richiedere <strong>tamponi a tutta la popolazione</strong>, compresa quella vaccinata, senza farli pagare ai lavoratori».</p>



<p>A parlare sono gli “angeli” dell’emergenza, gli stessi che sono stati lodati anche durante il G20 a Roma. «Abbiamo lavorato con professionalità per tutto il periodo della pandemia, in condizioni di sicurezza spesso precarie. <strong>Ci hanno definiti eroi, e ora?</strong> Veniamo colpevolizzati solo perché chiediamo il diritto di far valere la nostra libertà di scelta riguardo a una terapia che ha ricevuto l’autorizzazione all’immissione in commercio solo in forma condizionata».</p>



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<h2 id="h-maestre-autisti-e-forze-dell-ordine-la-polvere-dei-vecchi-problemi-sotto-il-tappeto-del-green-pass">Maestre, autisti e forze dell’ordine: la polvere dei vecchi problemi sotto il tappeto del Green pass</h2>



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<p>C’è poi un’altra categoria per cui il Green pass è obbligatorio da ben prima del 15 ottobre e per cui ora si paventa l’obbligo vaccinale: gli <strong>insegnanti</strong>.</p>



<p>«Al di là del disagio economico e organizzativo, <strong>contestiamo l’incoerenza delle misure adottate dal Governo</strong>. Nonostante le belle parole, ci troviamo <strong>ancora in classi pollaio</strong>, con schiere di ragazzi che non vengono sottoposti ad <strong>alcuno screening</strong>. Che fine hanno fatto i tamponi salivari annunciati a inizio anno per tutti gli alunni? Per non parlare dei CPIA (<em>Centri provinciali per l&#8217;istruzione degli adulti, N.d.R.</em>), dove gli studenti sono tutti adulti ma senza obbligo di Green pass, perché i loro corsi sono equiparati alla scuola primaria.»</p>



<p>Incoerenza è la parola chiave anche per il <strong>Coordinamento degli Autoferrotranvieri di Trieste</strong>: sprovvisti di Green pass non possono più salire sui propri mezzi per lavorare, dove però sono ammessi come passeggeri. Già, perché nonostante la piena ripresa dei viaggi pendolari, il Green pass non è richiesto né su autobus né su treni intraregionali, che molto spesso hanno però mantenuto <strong>le stesse vetture</strong> <strong>ridotte del periodo di lockdown</strong>: «Abbiamo chiesto l&#8217;esonero dalla certificazione come previsto dalla legge per i lavoratori del trasporto pubblico locale, ma senza ottenere risposta dall&#8217;azienda».</p>



<p>Tra sospesi e autosospesi sono un centinaio su seicento nella sola Trieste Trasporti, e le corse inevitabilmente iniziano subire modifiche: «Chiediamo di poter tornare al nostro lavoro, ripristinando così il servizio, ma senza dover pagare per farlo».</p>



<p>Sono molti i settori che iniziano ad <strong>accusare le carenze di personale</strong> seguite all&#8217;introduzione del <strong>Green pass</strong>, ma non in tutti è possibile sopperire rapidamente alle posizioni vacanti. È il caso degli impieghi pubblici, ai quali si accede tramite concorso – salvo i tantissimi casi di assunzioni precarie tramite agenzie interinali. Un esempio per tutti? Le <strong>forze dell’ordine</strong>. Sì, proprio quelli che sui media si vedono eroicamente contrapposti alla violenza dei manifestanti: tra le loro fila le attuali (<strong>auto</strong>)<strong>sospensioni</strong> rappresentano la punta dell&#8217;iceberg di un problema ben più radicato.</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_120418.png"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_120418-edited.png" alt="" class="wp-image-46986" width="672" height="420" /></a></figure></div>



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<p>«<strong>Siamo sottorganico da anni</strong>, <strong>ma ora pare che sia colpa dei no Green pass</strong>», spiega un vigile del fuoco. «La cosa che ci fa più male? La brutalità con cui veniamo dipinti noi manifestanti, che non fa altro che dividerci ulteriormente. La missione del nostro lavoro è sempre stata quella di aiutare chiunque e <strong>anche questa protesta è per noi un aiuto per tutti</strong>, compreso chi non comprende perché ci stiamo opponendo a queste misure. Questo è il messaggio che vorremmo arrivasse».</p>



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<h2 id="h-trieste-non-ha-paura-dei-manifestanti-ma-di-perdere-il-lavoro">Trieste non ha paura dei manifestanti, ma di perdere il lavoro</h2>



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<p>Un messaggio che però non solo non sentiamo arrivare da alcun canale, ma che si cerca di «comprimere», anche «<strong>al limite della legalità</strong>», come ha chiesto di poter agire lo stesso sindaco di Trieste, <strong>Roberto Di Piazza</strong>, <strong>bloccando completamente Piazza Unità</strong> lo scorso 6 novembre. Ha funzionato?</p>



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<figure class="is-layout-flex wp-block-gallery-1 wp-block-gallery aligncenter columns-3 is-cropped"><ul class="blocks-gallery-grid"><li class="blocks-gallery-item"><figure><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_121618.png"><img width="1024" height="771" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_121618.png" alt="" data-id="46989" class="wp-image-46989" /></a></figure></li><li class="blocks-gallery-item"><figure><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_121855.png"><img width="768" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_121855.png" alt="" data-id="46990" data-link="https://www.informazionesenzafiltro.it/?attachment_id=46990" class="wp-image-46990" /></a></figure></li><li class="blocks-gallery-item"><figure><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_121942.png"><img width="899" height="1599" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_121942.png" alt="" data-id="46992" data-full-url="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_121942.png" data-link="https://www.informazionesenzafiltro.it/?attachment_id=46992" class="wp-image-46992" /></a></figure></li></ul></figure>



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<p>Se il piano era creare disagio per mettere i cittadini ancor più gli uni contro gli altri, allora sì. L&#8217;onda dei manifestanti, di certo, non si è arenata; si è anzi riversata nel resto della città, mentre il cuore pulsante di Trieste veniva transennato per escludere tutti, cittadini, visitatori ed esercenti.</p>



<p>«Anche volendo, <strong>i clienti non potrebbero nemmeno raggiungermi</strong>», spiega <strong>Angelo Parcianello</strong>, titolare del centralissimo Hotel James Joyce. «Un ulteriore danno, che si aggiunge al calo del 50% delle prenotazioni delle ultime settimane. Il motivo? La gente ha paura di quello che sente in televisione, ma la città è sicura».</p>



<p>Nessuno, qui, teme violenze o soprusi a causa delle manifestazioni, ma piuttosto perdite lavorative. «Vengo da Reggio Calabria, <strong>per me questo è tutto tranne che violenza</strong>», esordisce <strong>Giacomo Casciano</strong>, responsabile della rinomata pizzeria Bianco. «Se c&#8217;è un rischio è quello di contagio, perché la pandemia è ancora in corso. Ecco perché sono il primo a essere d&#8217;accordo che servano misure per ripartire in sicurezza, ma mi chiedo se queste siano quelle giuste».</p>



<p>Una domanda che a quanto pare molti si pongono, vaccinati o meno, ma a cui il Governo continua a fare pericolosamente orecchie da mercante, supportato da uno storytelling manicheo in cui, con le parole di Brecht, «tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono».</p>



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<div class="wp-block-image"><figure class="aligncenter size-large is-resized"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_121230.png"><img src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/11/immagine_2021-11-09_121230-768x1024.png" alt="" class="wp-image-46988" width="495" height="660" /></a></figure></div>



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<p><em>Foto di copertina: strettoweb.com</em></p>


Trieste, no Green pass: gli invisibili della piazza


<p>Leggere il libro di <strong>Giambattista Scirè</strong>, <strong><em>Mala università</em></strong>, è uno schiaffo in pieno viso il cui segno rimane impresso per parecchio tempo.</p>



<p>Scirè è ricercatore universitario e storico, con all&#8217;attivo diversi saggi, che ha vinto il concorso da ricercatore di Storia contemporanea presso l&#8217;<strong>Università di Catania </strong>nel dicembre 2011 ma non ha ottenuto il posto perché era stato assegnato a una laureata in Architettura tramite un <strong>concorso truccato</strong>. Un caso clamoroso, di cui hanno parlato tutta la stampa e le tv nazionali. Da allora Giambattista Scirè prosegue la sua battaglia contro l’Università di Catania per avere un contratto (che non ha ancora avuto, tranne quattro mesi di lavoro su tre anni dovuti), nonostante le sentenze amministrative e penali a suo favore.</p>



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<h2 id="h-mala-universit-la-rabbia-contro-la-corruzione-dell-accademia"><em>Mala università</em>, la rabbia contro la corruzione dell’accademia</h2>



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<p>Ho dovuto metabolizzare <em>Mala università</em> per parecchi giorni prima di scriverci su.</p>



<p>La <strong>rabbia</strong> con cui l’autore ci guida in questo sistema malato è viva in ogni pagina e mi ha colto di sorpresa: pensavo di essere già preparata – assuefatta – alla cattiva gestione delle risorse pubbliche in Italia. E invece no.</p>



<p>Non si è mai troppo consapevoli dei disastri pianificati a tavolino dai <strong>vertici di potere</strong>, settari ed elitari. Darei ragione a Scirè nel definirli “<strong>delinquenti col curriculum riuniti in bande</strong>”, che stanno contribuendo da decenni a privarci del futuro, di un pensiero critico, di un ascensore sociale, di una meritocrazia essenziale non solo nella teoria, ma soprattutto nella pratica.</p>



<p>Perché il <strong>danno</strong>, come Scirè intitola un capitolo del libro, non colpisce solo le vittime dei concorsi truccati, estromesse a priori da un accesso al ruolo, ma <strong>si riflette su tutti i cittadini</strong>. Pensiamo alla <strong>sanità</strong>, a quanto è sconvolgente comprendere come il Servizio sanitario nazionale non sia in mano ai più bravi e competenti, ma a logiche di potere (accademiche e politiche) che hanno sistematicamente la meglio sull’esigenza primaria di un servizio medico-assistenziale pubblico ottimale. Il diritto del cittadino a essere curato al meglio è pura utopia oppure questione di fortuna, effettiva o evocata a suon di telefonate.</p>



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<h2 id="h-l-universit-come-mafia-di-stato">L’università come mafia di Stato</h2>



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<p><strong>L’Università è un</strong> “<strong>postificio</strong>” <strong>referenziato</strong>, “gerarchico, verticistico, piramidale”; è prigioniera di un sistema di potere che la ricatta e la gestisce, dall’interno ma soprattutto dall’esterno, come fosse una proprietà privata, “<strong>una cosa nostra</strong>”<em>.</em></p>



<p>Oltre il solito capitolo sulle <strong>molestie</strong>, di cui da donna ho la nausea, una sezione del libro davvero inquietante e da approfondire è quella che racconta perché la “<strong>masso-mafia</strong>” gode di protezioni e coperture ad alti livelli politico-istituzionali: per l’utile e l’interesse che ne deriva. La recente vicenda della depenalizzazione del reato di abuso d’ufficio all’interno dei concorsi universitari (voluta fortemente dal governo Conte, tramite il decreto Semplificazioni, a settembre 2020) dimostra con chiarezza questa interconnessione cronica tra accademia e politica.</p>



<p>Le <strong>lobby accademiche</strong>, potenti e stimate, fanno parte di ogni partito e movimento politico, e consolidano il rapporto tra la politica e l’università attraverso fondazioni, istituzioni e associazioni, le quali mettono spesso a disposizione “ingenti somme di denaro” per costruire borse di studio pubbliche e assegni di ricerca, con i relativi vincitori già predeterminati.</p>



<p>Questa è l’università pubblica, oggi: <strong>un’</strong><strong>enorme marchetta culturale </strong>dove girano interessi, contatti, reti e soldi in corsi, progetti, master e simili, utili solo a sistemare i parenti e non ad accrescere la qualità etica, culturale e sociale di noi cittadini, che paghiamo tasse su tasse ignari di finanziare un sistema intoccabile e dedito al profitto.</p>



<p>L’autore non usa giri di parole nel definire <strong>mafia di Stato</strong> la masso-mafia accademica, dove i cattedratici usufruiscono delle università pubbliche come se fossero loro feudi privati, con metodi e arroganza degni di esponenti della malavita organizzata.</p>



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<h2 id="h-universit-corrotta-un-alternativa-esiste">Università corrotta, un’alternativa esiste</h2>



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<p>L’ultimo capitolo è dedicato al gruppo fondato da Scirè il 10 novembre 2017 “<strong>Trasparenza e Merito. L&#8217;Università che vogliamo</strong>”, un punto di riferimento, di ascolto e di supporto per tutti coloro che intendano contrapporsi a questi abusi, segnalandoli a chi di dovere e sollecitando l’opinione pubblica.</p>



<p>Ad oggi il gruppo di difesa raduna 743 studiosi tra i ventidue e i settantacinque anni, provenienti da quasi tutti i settori scientifici, divisi in 140 professori ordinari e associati, 326 tra ricercatori a tempo indeterminato e determinato e 227 tipologie di studiosi (contrattisti, dottori di ricerca, borsisti).</p>



<p>Anche personaggi importanti del dibattito pubblico come <strong>Andrea Crisanti</strong>, scienziato di fama internazionale, e <strong>Tommaso Montanari</strong>, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, hanno deciso di aderire e diventare <em>ambassador </em>del gruppo, approvandone i valori e le cause.</p>



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<h2 id="h-perch-leggere-mala-universit">Perché leggere <em>Mala universit</em><em>à</em><em></em></h2>



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<p>Ritengo che leggere <em>Mala università </em>sia necessario per comprendere appieno quanto gli interessi clientelari, settari, maschilisti e mafiosi di un sistema così elitario innalzino pochi e sottraggano a tutti.</p>



<p>Da cittadina non posso permettere che il mio senso etico e culturale sia annebbiato e rovinato da un sistema così corrotto: solo costruendo una mia base autonoma di pensiero con letture come questa posso creare e diffondere un pensiero critico che in tanti, troppi, non conoscono o hanno paura di propagare. Perché soltanto capendo realmente il valore dell’<strong>u</strong><strong>niversità come massimo sistema di democrazia pubblica </strong>si può risollevare l’Italia dalla crisi culturale e valoriale in cui brancola da decenni.</p>



<p>L’unica critica che sento di dover fare a questo libro è la tipografia da cui proviene, ossia Grafica Veneta Spa (Trebaseleghe), salita tristemente alla cronaca come caso emblematico di caporalato e razzismo. È un peccato che un saggio di denuncia di questo tipo sia attaccabile proprio sul piano etico-culturale.</p>



<p>Iniziamo da questi piccoli accorgimenti a prendere coraggio e denunciare quello che non riteniamo corretto. Un libro non può certo cambiare un sistema, ma può avviarlo al cambiamento.</p>


E se la quarta mafia fosse l&#8217;università?

<p><strong>Brunetta</strong> lo ha detto più e più volte negli ultimi mesi: <strong>la pubblica amministrazione va ristrutturata</strong>. Servono persone capaci, qualificate, motivate. Parole che, al di là della demagogia, hanno fatto drizzare le orecchie a molti italiani in cerca di un lavoro, sia giovani neolaureati, sia precari con qualche inverno in più alle spalle.</p>
<p>Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rappresenta per molti una luce in fondo al tunnel della <strong>disoccupazione</strong>, e l’iscrizione ai <strong>concorsi pubblici</strong> è diventata quasi uno sport in cui li si prova tutti sperando di ottenere un contratto. Fra i vari, quello <strong>RIPAM Funzionari Amministrativi</strong>, che si è svolto a inizio ottobre, è uno dei più importanti. In palio ci sono infatti <strong>2.736 posti a tempo indeterminato</strong> per laureati, categoria F1.</p>
<p>Il bando era stato aperto nel luglio 2020, inizialmente per 2.133 posti. Un anno dopo è stato riaperto per ampliare il bacino di candidati e aumentare i posti a disposizione. Anche l’esame è cambiato. In origine prevedeva tre momenti: quello della preselezione, quello del test scritto e dell’esame orale. In seguito alla riforma Brunetta, è stato tenuto unicamente il test scritto con una valutazione dei titoli accademici per ordinare in graduatoria quelli con lo stesso punteggio. Il test stesso era diverso: era composto da 50 domande, 40 delle varie materie giuridiche ed economiche e 10 situazionali.</p>
<p>Con la riapertura del bando, i quesiti sono diminuiti: 40 domande, 8 delle quali situazionali, mentre le altre di tutte le materie, comprese inglese e informatica, che avrebbero fatto parte del test preselettivo. Insomma, si può dire che l’esame sia stato <strong>facilitato</strong>. C’è infatti un grande bisogno di nuovo personale: sono ben <strong>118.879 i posti già disponibili nella pubblica amministrazione</strong>, come ha dichiarato in aprile il ministro Brunetta: “Dietro una cifra apparentemente asettica ci sono nomi e cognomi, ci sono progetti di vita congelati a causa del virus. Sbloccare questi concorsi ci è sembrata la prima urgenza”.</p>
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<h2 id="h-la-falsa-partenza-della-riforma-brunetta-i-disagi-del-ripam-funzionari-amministrativi">La falsa partenza della riforma Brunetta: i disagi del RIPAM Funzionari Amministrativi</h2>
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<p>La nuova macchina burocratica pubblica, che dovrà rasentare la perfezione e l’efficienza tecnologica, è partita molto male: gli <strong>avvisi per la partecipazione</strong> a questo concorso sono stati <strong>inviati a pochi giorni</strong> dalla data del test scritto. Per esempio, chi si è dovuto presentare il primo ottobre è stato avvertito il 27 settembre. Chi invece è stato chiamato per la data del 7 ottobre ha ricevuto l’appello il primo. Una quantità di tempo troppo breve per prepararsi o per chiedere un permesso lavorativo, che ha causato molti <strong>disagi</strong> anche negli spostamenti.</p>
<p>Le <strong>sedi</strong> dei concorsi sono state infatti dislocate nelle zone fieristiche di alcune città: a <strong>Milano</strong> si è tenuto il concorso per tutti i partecipanti residenti nel Nord Italia, a <strong>Roma</strong> per quelli nel Lazio e in Toscana, a <strong>Pescara</strong> per quelli residenti in Abruzzo, Emilia Romagna, Marche, Umbria e Molise, a <strong>Napoli</strong> per la sola Campania, a <strong>Foggia</strong> per Puglia e Basilicata, a <strong>Cagliari</strong> per la Sardegna, <strong>Reggio Calabria</strong> per la Calabria, e infine la Sicilia, dove i residenti delle province di Catania, Messina, Trapani sono stati inclusi nel calendario di <strong>Catania</strong>, mentre gli altri in quello di <strong>Siracusa</strong>. Una divisione singolare, dato che Siracusa e Catania distano circa 60 km, mentre un residente di Reggio Emilia deve percorrerne più di 400 per arrivare al suo luogo d’esame. Il calendario non teneva infatti conto del domicilio e non era possibile selezionare un luogo diverso.</p>
<p>Per tutti coloro che vivono preparando vari concorsi e che hanno approfittato dei lockdown per studiare, questi cambiamenti forse non saranno stati pesanti. Per tutti i lavoratori che avevano dato per perso quel concorso, che non controllano ogni giorno il sito della pubblica amministrazione e che hanno un domicilio diverso dalla residenza, può essere stato un problema. Per questo abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni partecipanti.</p>
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<h2 id="h-le-voci-dei-partecipanti-ai-concorsi-pubblici-non-solo-un-posto-fisso-nel-privato-si-guadagna-meglio">Le voci dei partecipanti ai concorsi pubblici: “Non è solo un posto fisso, nel privato si guadagna meglio”</h2>
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<p>Il primo è <strong>Federico</strong>, <strong>di Roma</strong>, che ha sostenuto l’esame nella sua città il 1° ottobre. Trentatreenne, lavora all’università da precario. Come tutti ha ricevuto l’invito due giorni prima, ma per lui non è stato un grosso problema: è infatti un veterano dei concorsi, solo questa estate ne ha fatti cinque. Il suo sogno è di entrare e fare carriera nella pubblica amministrazione con i concorsi interni. Ne ha provati di ogni tipo, perché attualmente non ha neanche un contratto; convive con la fidanzata e vorrebbe avere una sicurezza che, in questo momento, solo la pubblica amministrazione potrebbe dargli. Si è iscritto al concorso perché sarebbe adatto ai suoi studi: è infatti laureato in relazioni internazionali e vorrebbe entrare al ministero degli Interni. Alcune domande assomigliavano alle cose che aveva già studiato per i concorsi di Roma, quindi si reputa fortunato. I quiz, però, non erano facili, nonostante si ritenesse preparato, e non è riuscito a superare la soglia dei 21 punti. Ora continuerà a provare, certo che i prossimi concorsi andranno meglio.</p>
<p><strong>Marianna</strong>, trentaseienne di <strong>Palermo</strong> che ha svolto il concorso a Siracusa, ha iniziato a lavorare a 21 anni, prima ancora di laurearsi, ma è riuscita comunque a prendere anche la specialistica. È risultata idonea con un punteggio basso, ma è ottimista: “Credo che arriverà il momento per tutti. La pubblica amministrazione ha un grande turnover”. I suoi genitori, e così anche i suoi nonni, hanno lavorato nel pubblico. Ha lavorato per anni in uno studio legale, poi nel settore commerciale. “Alla fine ho capito che mi piaceva il diritto ed ero portata, quindi sono tornata al punto zero”. Si è licenziata e si è buttata sullo studio, con il sogno di entrare nella PA. Il concorso RIPAM è capitato; il suo obiettivo era vincere quello Aci, attualmente fermo. Nel mentre ha ottenuto un posto a tempo determinato all’università.</p>
<p>“Vorrei un tempo indeterminato, ma soprattutto sogno di unire la mia esperienza con le lingue, con il business development e con la conoscenza del diritto”, ci racconta Marianna. “Sogno di dare il mio contributo per cambiare la pubblica amministrazione in meglio. Mi piacerebbe entrare al ministero della Cultura, sarebbe il sogno nella sua migliore versione”. Un’ambizione che però ha un prezzo, perché nel settore privato guadagnava bene e <strong>lo stipendio del pubblico sarebbe inferiore</strong>, ma lei preferisce comunque la carriera nei ministeri: “Guadagnavo tanto anche come commerciale. Un po’ mi pesa, ma sento un forte attaccamento adesso. Quando si parla del pubblico come posto fisso mi dà sui nervi, perché <strong>deve essere un onore lavorarci</strong>, bisogna sentirne la responsabilità”.</p>
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<h2 id="h-i-concorsi-per-diplomati-una-macelleria-e-quelli-per-enti-locali-sono-difficilissimi">“I concorsi per diplomati? Una macelleria. E quelli per enti locali sono difficilissimi”</h2>
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<p>Poi c’è <strong>Giada</strong>, trentenne, che ha una laurea magistrale in scienze storiche e un master di II livello sulla gestione di documentazione digitale. Alla fine dello stage curricolare, però, è stata l’unica a non essere assunta in azienda. Ha lavorato come editor, ma veniva pagata troppo poco. Ha tentato una collaborazione con un giornale locale, ma senza successo. Lo scorso anno ha ottenuto una supplenza in una scuola media, ma con un contratto che veniva rinnovato ogni tre settimane. Ora si mantiene come tutor per gli studenti universitari. I concorsi di dottorato non sono andati bene e ora sta provando tutti i concorsi pubblici.</p>
<p>“Penso che quello statale sia un ottimo impiego. Non dico che è il mio piano A, ma nemmeno l’ultima spiaggia”, racconta Giada. “Se ne avessi l’opportunità mi piacerebbe lavorare nell’editoria a tempo pieno, ma non nascondo che fare un lavoro di ufficio, che metti da parte tornando a casa, ha un notevole fascino”. Vorrebbe però <strong>evitare</strong> <strong>quelli per diplomati</strong>, “sono una macelleria e poi lo stipendio è basso, soprattutto in caso di trasferimento. Eviterei anche <strong>quelli per enti locali</strong> che comunque sono difficilissimi”.</p>
<p>Infine c’è <strong>Alberto</strong>, 37enne di <strong>Padova</strong>, laureato all’Università Ca’ Foscari in Amministrazione, finanza e controllo. Dopo la laurea ha iniziato il praticantato da commercialista, con 200 euro al mese per arrivare alla fine con 600 euro al mese, senza un contributo versato. Ha lavorato come dipendente per una società di servizi finanziari, ma si è ritrovato a svolgere sempre più mansioni senza che gli venissero riconosciute in busta paga.</p>
<p>“Per evitare una crisi di nervi me ne sono andato e ho aperto una partita IVA perché nei colloqui di lavoro per impiegato mi rispondevano troppo formato o poco formato”. Si era poi buttato su un progetto a Londra e aveva rilevato con dei soci un’azienda che costruiva parti robotiche: “Ero alle stelle. <strong>Poi è arrivato il COVID-19 che mi ha stravolto il mondo</strong>, facendo saltare tutti i miei progetti. Da lì sono iniziati i problemi. Sono un libero professionista con l’attività avviata da pochi anni, quindi con pochi clienti, ai quali se non arrivano contratti non arrivano i lavori; non c’è fatturazione, non ci sono incassi, non ci sono i pagamenti dei fornitori, se non a distanza di troppi mesi”.</p>
<p>Il privato gli stava ormai stretto; da lì l’idea di buttarsi nel pubblico: “Nella mia zona ci sono occasioni di lavoro, ma <strong>non riesco più a sopportare i colloqui di lavoro</strong>, sono stanco di partire da zero e di dimostrare ogni volta quanto valgo per poi essere ripagato con una pacca sulla spalla o promesse non mantenute. Mi rendevo conto che non potevo vivere in questo modo e che non avevo più le forze psicologiche per riprendere da zero l’attività”. Dopo 4-5 mesi di studio ha vinto un concorso e fra poco inizierà a lavorare. Ne ha tentati una decina, insieme a quello RIPAM, perché “ero stanco di essere umiliato dalle persone che non capivano il mio excursus lavorativo e per dimostrare che ero in grado di mettermi in gioco con altre migliaia di persone. Lo stipendio non sarà migliore, ma so che entrerà il 10 o il 27 del mese successivo all’effettuazione della prestazione lavorativa e non dopo 7 mesi. Una volta entrato posso fare carriera anche con altri concorsi”.</p>
<p>Non è ancora chiaro in quanti si siano iscritti a questo concorso e in quanti siano risultati idonei. Nei gruppi Facebook dedicati viaggiano cifre come <strong>180.000 </strong><strong>iscritti e 8.000 idonei</strong>, ma nessuna può essere provata. Secondo il bando, la graduatoria dovrebbe scorrere fino all’esaurimento degli idonei, quindi è possibile che trovino lavoro in molti più di 2.736.</p>
<p>Dietro questi numeri si nascondono altre storie simili a quelle che abbiamo raccontato: di sfruttamento, di precarietà, di giovani professionisti che si sono scontrati con la crisi, e che adesso cercano di ricominciare a costruirsi un futuro.</p>
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<p><em>Photo credits: liveuniversity.it</em></p>


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Brunetta e la disperata motivazione di chi cerca un posto nella PA

SenzaFiltro ha raccolto alcune testimonianze dai partecipanti a un importante concorso pubblico, tenutosi a ottobre 2021 con diverse farragini organizzative. Per i nuovi volti della pubblica amministrazione partecipare ai bandi è un lavoro a sé, con buona pace dei ministri che parlano di idealisti appassionati.

Brunetta e la disperata motivazione di chi cerca un posto nella PA - Informazione senza filtro

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<p>Altri <strong>dieci giorni di sciopero</strong> dal 21 al 31 ottobre. Li ha proclamati nel pomeriggio di mercoledì la <strong>FISI</strong>, sindacato con iscritti in prevalenza nel mondo della scuola, in prima linea <strong>contro il Green pass</strong>. La sigla è nuova nel panorama nazionale, ed è una di quelle che in questi giorni è stata presente nelle piazze italiane per protestare contro l&#8217;obbligo voluto dal governo Draghi di esibire il certificato verde per tutti i lavoratori.</p>



<p>Ma non è l&#8217;unica sigla che si sta opponendo al Green pass. Nelle piazze in questi giorni sono comparse le bandiere dei <strong>COBAS</strong>; niente di male se non fosse che nel direttivo nazionale della FISI ci sono degli ex candidati di Casa Pound alle elezioni, mentre i COBAS e i sindacati di base si richiamano espressamente all&#8217;estrema sinistra.</p>



<p>Insomma, sembra quasi una riedizione degli <strong>opposti estremismi in salsa sindacale</strong>. Al centro ci sono poi i <strong>sindacati</strong> <strong>confederali</strong> (CGIL, CISL e UIL), che hanno espressamente spiegato come siano a favore dell&#8217;obbligo vaccinale, chiedendo anche che lo Stato, in mancanza di quello, fornisca i tamponi gratuiti ai lavoratori.</p>



<p>Una posizione non sufficiente per la piazza, che ormai non protesta solo contro il Green pass, ma dà sfogo a una <strong>rabbia sociale</strong> maturata in un anno e mezzo di chiusure e restrizioni. Anche le sigle e i movimenti che si sono messi in luce per la battaglia sui Green pass stanno valutando di continuare la loro lotta allargando i temi dei quali si occupano e cercando di inserirsi in un fronte di <strong>opposizione all&#8217;attuale governo</strong>, che a livello sindacale e politico è ormai a tutti gli effetti stato monopolizzato dalla destra e dall&#8217;estrema sinistra.</p>



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<h2 id="h-i-sindacati-confederali-e-la-crisi-della-rappresentanza-c-uno-spazio-sociale-che-faticano-a-intercettare">I sindacati confederali e la crisi della rappresentanza: “C’è uno spazio sociale che faticano a intercettare”</h2>



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<p>Le immagini dei circa <strong>1.500 manifestanti che assaltano la sede della CGIL</strong> hanno fatto il giro dell&#8217;Italia, anche perché in prima fila c&#8217;erano alcuni esponenti di Forza Nuova, Roberto Fiore e Giuliano Castellino. La settimana successiva è arrivata la reazione della CGIL, che ha indetto un <strong>grande sciopero</strong> come risposta, ma già la domenica precedente si sono svolti dei <strong>presidi di solidarietà</strong> nelle singole sedi.</p>



<p>Alcuni militanti sono rimasti sorpresi dal vedere parte dei sindacati autonomi portare la loro solidarietà, ma anche alcuni di questi fischiare all&#8217;indirizzo della Camera del Lavoro di Milano, mentre passavano in un corteo contro il Green pass.</p>



<p>«Ci sono degli iscritti al sindacato – spiega <strong>Walter Montagnoli</strong>, della segreteria nazionale della CUB – che condividono la lotta su questi temi e hanno partecipato alle iniziative no Green pass. Noi ufficialmente non abbiamo partecipato a manifestazioni di questo tipo né le abbiamo promosse. Noi rimaniamo a favore dei vaccini, ma siamo aperti ai dibattiti che riteniamo legittimi. Il problema, come ha dimostrato la nostra manifestazione dell&#8217;11 ottobre, è che all&#8217;interno di queste piazze esiste un <strong>disagio</strong> <strong>che non è solo legato al Green pass</strong>, ma in generale alle politiche del governo Draghi e alla crisi economica. Le file fuori dalle Caritas o da associazioni di volontariato come Pane Quotidiano a Milano sono una realtà davanti agli occhi di tutti.»</p>



<p>C&#8217;è quindi uno <strong>spazio sociale che i sindacati storici faticano a intercettare</strong> e che potrebbe diventare il mare nel quale nuotano molte altre sigle, come nel caso dei lavoratori della logistica, che ormai sono in prevalenza rappresentati dai sindacati autonomi. «La CGIL – continua Montagnoli – e gli altri sindacati non sono più in grado di mobilitare le piazze né hanno il polso di questa situazione».</p>



<p>Eppure per chi è cresciuto alla scuola del sindacalismo di base vedere le proprie bandiere in una piazza dove c&#8217;è una presenza dell&#8217;estrema destra dovrebbe fare impressione. «Questo spazio politico non può essere riempito né dalla destra né dall&#8217;estrema destra. I provvedimenti del governo Draghi vengono condivisi anche da Lega e Fratelli d&#8217;Italia, e fuori da questo perimetro ci sono partiti da “zero virgola”. <strong>Il populismo prova a inserirsi</strong> su tematiche di disagio economico, ma <strong>le loro ricette non attecchiscono</strong>».</p>



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<h2 id="h-che-cos-la-fisi-il-sindacato-anti-draghi-con-esponenti-di-estrema-destra">Che cos’è la FISI, il sindacato anti-Draghi con esponenti di estrema destra</h2>



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<p>Al di là dell&#8217;assalto di Forza Nuova alla sede della CGIL, il tentativo di <strong>far sentire la voce dell&#8217;estrema destra</strong> nelle piazze c&#8217;è, anche se finora si è disperso per <strong>mancanza di numeri</strong>.</p>



<p>Nei giorni che precedevano lo sciopero dell&#8217;11 ottobre si è affermata all&#8217;attenzione pubblica la sigla <strong>FISI</strong>. In molti tra i sindacalisti della scuola e della sanità – settori in cui il nuovo sindacato sembra avere più iscritti – si sono chiesti chi fossero. I temi portanti della loro protesta riguardano soprattutto il <strong>no al Green pass</strong> e <strong>l&#8217;opposizione al governo di Mario Draghi</strong>. A livello organizzativo, pur indicendo diversi scioperi a oltranza e dimostrandosi molto battaglieri, sembrano però avere ancora delle <strong>difficoltà</strong>: molti iscritti hanno faticato a trovare la comunicazione dello sciopero sui canali ufficiali.</p>



<p>Quello che però ha suscitato l&#8217;attenzione degli addetti ai lavori è stata la provenienza politica dei <strong>principali esponenti</strong>, che risulterebbero <strong>legati a Casa Pound</strong>. In una nota riservata, circolata tra i sindacalisti della CGIL, si faceva presente come <strong>Pasquale Bacco</strong> fosse stato candidato alla Camera come esponente di Casa Pound nel 2008, e come sindaco di Bitonto sempre per il partito che si richiama ai valori della destra sociale.</p>



<p>Il primo sciopero del FISI effettivamente si è risolto con un&#8217;<strong>adesione minima</strong> – poche decine di persone – ma il sindacato sembra insistere su questo tasto anche per posizionarsi in settori dove la tematica Green pass è molto sentita.</p>



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<h2 id="h-alessandro-pagano-cgil-lombardia-si-appropriano-dei-flash-mob-serve-una-legge-che-disciplini-la-rappresentanza">Alessandro Pagano, CGIL Lombardia: “Si appropriano dei flash mob. Serve una legge che disciplini la rappresentanza”</h2>



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<p>Da anni, peraltro, il tema della rappresentanza è posto dalla CGIL, che già in passato ha chiesto una <strong>legge che disciplini la rappresentanza dei sindacati</strong> in base al numero degli iscritti, restringendo il perimetro di quanti possono stipulare contratti a livello nazionale.</p>



<p>«L&#8217;articolo 39 – spiega <strong>Alessandro Pagano</strong> di CGIL Lombardia – dice che i lavoratori possono organizzarsi in sindacati con mandato di rappresentanza. È un principio generale che richiama anche alla rappresentatività; è una prescrizione costituzionale che richiede un dispositivo legislativo che dia una struttura organica. Questa legge non è mai stata fatta. Storicamente non è mai stato un grosso problema, perché i confederali sono sempre stati presi più in considerazione. Ma da almeno dieci anni si sono <strong>moltiplicate le organizzazioni sindacali funzionali a sottoscrivere dei contratti</strong>, pur non avendo alle spalle rappresentanze certificate. In molti casi sottoscrivono accordi con associazioni di impresa, a loro volta scarsamente rappresentative, ma in mancanza d&#8217;altro questi contratti assumono valore nazionale».</p>



<p>Il caso che nei mesi scorsi è arrivato all&#8217;attenzione di tutti i media è stato quello del <strong>contratto dei rider </strong>firmato dal sindacato <strong>UGL</strong>. Le sigle sorte alle spalle della galassia Green pass come il FISI, però, per il momento sembrano non preoccupare gli altri sindacati, dal momento che la loro struttura organizzativa è molto limitata.</p>



<p>«<strong>Più che organizzare scioperi</strong> – spiega Pagano – <strong>mettono il cappello su dei flash mob</strong> che nascono spontaneamente. A volte basta emettere un comunicato stampa per dire che c&#8217;è stato uno sciopero, al quale nella realtà non ha aderito nessuno». In molti casi, infatti, gli scioperi proclamati da piccole sigle nel mondo della scuola hanno colto di sorpresa gli stessi dirigenti scolastici, che non hanno trovato riscontro.</p>



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<p><em>Photo credits: terzobinario.it</em></p>


Il Green pass mette in crisi i sindacati: i grandi arrancano, gli autonomi ci provano


<p>Già dal titolo di questo romanzo di <strong>Hiroko Oyamada</strong>, <strong><em>La fabbrica</em></strong> (edito da Neri Pozza), si comprende quanto il tema del lavoro costituisca le fondamenta dell’opera della scrittrice giapponese.</p>



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<h2 id="h-la-fabbrica-lo-straniamento-diventa-un-dramma-anodino"><em>La fabbrica</em>: lo straniamento diventa un dramma anodino</h2>



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<p>Il racconto è condotto da <strong>tre voci narranti</strong>, appartenenti a due uomini e una donna di età ed estrazione sociale diverse, il cui percorso di vita trova uno sbocco comune proprio nell’<strong>impiego nella fabbrica</strong>. Non si tratta, però, di uno stabilimento più o meno esteso come si potrebbe pensare, bensì di uno spazio sterminato, una sorta di mondo a parte, in cui chi vi lavora svolge le mansioni più diverse, con una varietà analoga a quella presente nella società umana.</p>



<p>Yoshio è un <strong>ricercatore universitario</strong> che si trova a lavorare in questo contesto controvoglia, inviato dal proprio ateneo: gli verrà chiesto di occuparsi di un progetto sperimentale di lungo respiro su cui godrà di un’assoluta autonomia decisionale.</p>



<p>Diversa, se non opposta, la natura delle mansioni degli altri due personaggi: Yoshiko, <strong>ventenne di belle speranze</strong>, sarà invece assegnata a un impiego dalle caratteristiche impersonali e meccaniche. Infine, Ushiyama svolgerà compiti di <strong>correttore bozze</strong> in un contesto anomalo, ossia senza nessun feedback e continuità argomentativa e semantica dei testi esaminati.</p>



<p>Al contrario, unico sarà l’approdo di queste esperienze: un progressivo e fagocitante senso di <strong>straniamento</strong> derivato dal lavoro.</p>



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<h2 id="h-l-appiattimento-individuale-degli-operai-si-ci-che-si-fa">L’appiattimento individuale degli operai: si è ciò che si fa</h2>



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<p>Nelle prime fasi del romanzo, l’autrice rende bene il vissuto intriso di novità, l’attesa mista ad ansia e speranza che tutti noi proviamo di fronte a un nuovo impiego. Per i personaggi si tratta di un cambio di pelle che impatta tanto sulla percezione di se stessi in relazione al mondo quanto sulla propria autostima. Come detto, però, gli sviluppi saranno a tinte fosche.</p>



<p>Infatti <strong>l’unica entità vera del libro è la fabbrica</strong>: tempo e spazio nel racconto sono frammentati e dalla precaria concretezza; persino le stesse voci narranti non raggiungono una vera profondità. I loro lavori sono spersonalizzanti, non elevano o valorizzano. Più si procede nella lettura e più è come se gli individui sfumassero, inghiottiti dal corpo immenso della fabbrica che li omologa, annullandone le peculiarità.</p>



<p><strong>Qui si è ciò che si fa</strong>: tutto l’enorme quantitativo di personale è classificato anche visivamente, grazie al <strong>diverso colore dei cordini porta badge</strong>, in base a compito e livello di assunzione. Nonostante la cura degli ambienti e il piacevole aspetto da mondo accogliente e attento alle esigenze dei propri dipendenti, la fabbrica ha elementi in comune con un campo di lavoro che li divide in caste. La persona non è una risorsa, ma un banale ingranaggio di un tutto sconfinato e incredibilmente vario.</p>



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<h2 id="h-una-prosa-monocorde-e-funzionale-al-grigiore-della-fabbrica">Una prosa monocorde e funzionale al grigiore della fabbrica</h2>



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<p>La <strong>narrazione</strong> della Oyamada diventa veicolo e specchio di tutto ciò: è <strong>piatta</strong>, <strong>piana</strong>, <strong>priva di slanci</strong>. Si fa resoconto dei pensieri dei tre personaggi sugli incarichi compiuti e da svolgere, rendendone plasticamente la dimensione di intrappolati in una routine che avvelena. Nei loro asfittici compiti l’individualità non è mai prevista, e quindi non può trovare espressione nemmeno tramite il loro stesso racconto.</p>



<p>Ognuno, prima o dopo, metterà in discussione non solo il senso di ciò che sta facendo come lavoratore, ma andrà oltre. <strong>La fabbrica</strong>, infatti, <strong>mina l’identità nel profondo</strong>, corrodendola goccia dopo goccia in modo inesorabile. Non è un caso se nel libro gli unici segnali di vita sono le pochissime <strong>anomalie</strong> che sfuggono al sistema; si tratta di comparse assai fugaci, a volte contraddistinte da tratti disturbati e disturbanti, ma sufficienti a evidenziarsi per contrasto, rendendo ancora più grigio il quadro generale.</p>



<p>Voluti sono anche la somiglianza e il rimando fra nomi e cognomi dei tre, che rafforzano l’appiattimento del singolo in favore di una massa simile.</p>



<p><strong>Un personaggio fa da collante</strong> alle voci narranti: le sue funzioni di guida, supervisore e coordinatore inizialmente gli consegnano un ruolo autorevole. Anche qui, però, la verità smentirà in fretta questa impressione: egli, attraverso approcci e direttive verso i tre lavoratori, espliciterà, incarnandoli, gli assurdi e grotteschi paradossi della fabbrica.</p>



<p>Assolutamente da rimarcare anche l’uso evocativo e simbolico che la Oyamada fa della <strong>natura</strong>, elemento che sottolinea la coesione dell’universo-fabbrica e che carica ulteriormente il racconto di scollamento dalla realtà.</p>



<p>Parlando dell’esperienza di lettura, durante buona parte della trama <strong>ci si attende sviluppi più concreti della vicenda</strong>; un’aspettativa che resta in parte delusa perché tutto si gioca su un livello diverso, più impalpabile e simbolico. Se, da un lato, questo è funzionale al condurci in una dimensione quasi onirica, dall’altro c’è il rischio di perdersi in un racconto che non decolla del tutto dal punto di vista narrativo.</p>



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<h2 id="h-perch-leggere-la-fabbrica-di-hiroko-oyamada">Perché leggere <em>La fabbrica</em> di Hiroko Oyamada</h2>



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<p>Si tratta di un romanzo che dipinge in maniera fedele le pesanti conseguenze personali e sociali di un mondo eventuale, ma anche inquietantemente futuribile, in cui <strong>l’uomo si trovi a valere assai meno del lavoro che svolge</strong>.</p>



<p>Tramite la loro scarsa caratterizzazione, il libro mostra e restituisce l’immagine desolante di <strong>persone piatte, intercambiabili</strong>, piccole e tremendamente uguali di fronte all’entità della fabbrica che tutto contiene, prevede e conosce. Oyamada tratteggia il processo per cui, accettando un lavoro in un contesto simile, si demanda a un’autorità vaga ma potentissima la totalità della propria esistenza. L’autrice riesce anche a far sentire il lettore totalmente perso come i suoi personaggi, talvolta facendogli porre le loro medesime domande.</p>



<p>Insomma: un libro che richiede la capacità di sopportarne il buio, che crea un universo freddo come avvertimento e ammonimento, affinché quel costrutto narrativo non si realizzi mai del tutto nella vita vera.</p>


Se i romanzi sulla fabbrica sono una fabbrica di romanzi

<p>Da <strong>venerdì 15 ottobre</strong> il ritorno di ufficio di tanti dipendenti della pubblica amministrazione avrà conseguenze sui <strong>trasporti pubblici locali</strong>, dove sarà più difficile mantenere le distanze. Per entrare in ufficio e in quasi ogni altro luogo è necessario munirsi del <strong>Green pass</strong>, tranne che per i mezzi pubblici. La gestione dei flussi e il rispetto del distanziamento si scontrano infatti con un paradosso: è necessario munirsi del certificato verde per i treni a lunga percorrenza, dove è facile limitare i posti prenotabili e dove ognuno ha il suo spazio, ma <strong>non è richiesto per i treni regionali</strong>, quelli utilizzati dai pendolari. Sono i treni più frequentati, soprattutto nelle ore di punta, quando può diventare difficile sedersi, e dove può quindi avere luogo più facilmente il contagio da Coronavirus.</p>
<p>Il motivo di questa differenza è intuibile: sulle tratte brevi, dove a volte non viene controllato nemmeno il biglietto, sarebbe poco pratico richiedere il Green pass a ogni passeggero. Ce lo conferma <strong>Stefano Marchionna</strong>, del Comitato pendolari Gallarate-Milano: “Dopo un anno e mezzo di auto ho iniziato a riprendere il treno dal primo di settembre; <strong>mi hanno controllato </strong>tre volte i documenti,<strong> zero volte il Green pass</strong> e zero volte l’abbonamento”.</p>
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<h2 id="h-il-comitato-pendolari-gallarate-milano-contro-le-incoerenze-di-mezzi-pubblici-e-green-pass">Il Comitato pendolari Gallarate-Milano contro le incoerenze di mezzi pubblici e Green pass</h2>
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<p>Il <strong>Comitato pendolari</strong> esiste da una decina d’anni e raduna i pendolari della principale linea della Lombardia, che unisce le linee che arrivano fino a Domodossola e a Varese. Su quella tratta si muovevano circa <strong>110.000 persone al giorno</strong>, nella situazione pre-pandemica. Il caso lombardo è peculiare non solo per il numero di soggetti coinvolti, ma anche per la presenza di un attore, <strong>Trenord</strong>, società privata detenuta in parte da Trenitalia e presente solo in quella Regione.</p>
<p>“I treni a lunga percorrenza sono a prenotazione e ogni passeggero può essere gestito individualmente, è anche un luogo di lavoro più sereno per i ferrovieri. Sui mezzi a trasporto pubblico locale è molto più difficile, perché si sale e si scende con un biglietto che vale per la tratta, non per il posto”, aggiunge <strong>Andrea Mazzucotelli</strong>, membro del Comitato pendolari, rappresentante del nodo di Saronno.</p>
<p>Il comitato è nato con l’idea di migliorare la situazione dei pendolari tramite la richiesta di un aumento dei treni, essendo una delle tratte più stressate, dove passano anche gli Eurostar che vanno in Svizzera, il nuovo collegamento fino a Malpensa, i treni merci.</p>
<p>Il problema, secondo Marchionna, è che non è più possibile aumentare l’offerta dei treni perché <strong>gli slot di percorrenza sono occupati</strong>. “L’opera del nostro comitato è stata quella di insistere su un progetto di raddoppio della linea fra Rho e Parabiago, per decongestionare la linea attuale”. La pandemia, però, ha esacerbato i problemi relativi alla congestione dei treni, in quanto luoghi di possibile contagio.</p>
<p>“In pre-pandemia, ogni mattina viaggiavo in treno su un singolo piede, col viso a 10 cm da quello del volto di un altro, per oltre mezz’ora e senza mascherina”, racconta Marchionna. “<strong>Tutto quello che poteva aiutare il diffondersi del virus, questa Regione lo aveva</strong>”. Questo potrebbe essere proprio uno degli elementi che hanno fatto della zona di Milano uno dei centri di diffusione maggiori nel gennaio 2020.</p>
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<h2 id="h-trenord-disinveste-dai-treni-perch-gestisce-anche-un-autostrada">“Trenord disinveste dai treni perché gestisce anche un’autostrada”</h2>
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<p>I membri del comitato lamentano dei tagli alle corse, che non sono ancora state ripristinate ai livelli del 2018. Secondo loro, Trenord sta seguendo una <strong>politica di disinvestimento</strong> riguardo i suoi treni: avendo acquistato un anno fa la maggioranza dell’autostrada Milano-Serravalle, per loro decongestionare il traffico ferroviario significa spingere su quello su gomma.</p>
<p>“Non c’è ancora un sovraffollamento come in pre-pandemia, dove la situazione era al collasso”, afferma Marchionna. “Ora solo nell’ultima stazione prima di Milano restano in piedi. Se però avvengono dei <strong>guasti</strong> perché ci sono <strong>treni vecchi</strong>, perché la Regione Lombardia ha abbandonato Trenord a sé stessa, i <strong>sovraffollamenti</strong> sono scontati”.</p>
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<figure class="wp-block-media-text__media"><img loading="lazy" decoding="async" width="498" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/10/immagine_2021-10-18_101436-498x1024.png" alt="" class="wp-image-46767 size-full" /></figure>
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<p>I problemi della compagnia sono dimostrati anche dalle <strong>proteste dei lavoratori</strong>: dall’inizio dell’anno ci sono stati sei scioperi, pare non ci sia dialogo fra azienda e dipendenti. “C’è una contrapposizione totale fra sindacati e Trenord. Noi del Comitato abbiamo parlato con i ferrovieri, perché il problema è della società”.</p>
<p>Con la riapertura delle scuole gli <strong>studenti</strong> sono tornati a prendere il treno, e questo aumenta la percentuale di posti occupati. “Il treno che da Gallarate va verso Milano si svuota a Busto Arsizio, perché c’è un liceo scientifico molto frequentato. Mancano ancora molti universitari. Quando il 15 gli statali torneranno tutti in ufficio si vedrà”, dice Marchionna.</p>
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<h2 id="h-non-vogliono-migliorare-il-servizio-ma-il-costo-del-biglietto-sale">“Non vogliono migliorare il servizio”, ma il costo del biglietto sale</h2>
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<p>Quindi, quale può essere la soluzione? Sappiamo che non è possibile controllare tutti i Green pass, perché sarebbe necessaria una grande quantità di personale su ogni treno. Perché non ricorrere a un <strong>sistema automatico</strong>?</p>
<p>Quelli del Comitato ci hanno pensato: “Il problema è che in Lombardia <strong>in nessun modo viene contingentato l’accesso ai treni</strong>, come invece avviene nella metropolitana. Questa è una cosa che il Comitato sta chiedendo da anni, e avrebbe evitato i disagi di chi non prende il biglietto e porta all’intervento della Polfer, di chi cade o si butta sulle rotaie. Oggi sarebbe stato doppiamente utile per la questione Green pass: sarebbe bastato abbinare il pass all’abbonamento, ma è un investimento che ha dei costi e <strong>loro non vogliono migliorare il servizio</strong>”.</p>
<p>“Ma perché io, pendolare pagante, dovrei <strong>cedere il mio posto a un passeggero a scrocco?</strong>”, si chiede Marchionna. “Perché devo mettere a rischio la mia salute quando la congestione dei treni è causata anche da soggetti che occupano i corridoi perché nessuno controllerà mai loro il biglietto? Tutto questo sarebbe sempre servito, e ora col Green pass ce ne accorgiamo. Eppure non sarebbe difficile, le tessere magnetiche sono ormai ovunque. Ora coi telefoni e la tecnologia NFC non servirebbe neanche una tessera ad hoc”.</p>
<p>Insomma, l’impossibilità di restringere l’uso dei treni unicamente ai possessori del Green pass non è che un effetto della mancata volontà di gestire i flussi. Se fosse stato fatto, ora sarebbe possibile applicarlo ovunque. Ironicamente, <strong>il costo dei biglietti è aumentato</strong>: “Per l’adattamento dell’inflazione, ora il biglietto è aumentato di dieci centesimi. Per andare e tornare da Milano devo spendere 8 euro e 20. <strong>Stanno incentivando tutti ad andare in macchina</strong>”, dice Marchionna.</p>
<p>Inoltre bisogna considerare che i tanto demonizzati mezzi pubblici non sono l’unico luogo a rischio di contagio, e per tutti gli altri sono state prese delle precauzioni. “Non posso negare che i mezzi pubblici siano un centro di pericolo, ma mentre i ristoratori protestavano, quando nei loro locali è indispensabile togliersi la mascherina, i treni e gli autobus avrebbero dovuto ricevere una valutazione più serena”, afferma Mazzucotelli. “Ovviamente c’è un problema, ma l’antipatia recondita degli italiani per i mezzi pubblici ha solo creato più traffico sulle strade”.</p>
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<h2 id="h-la-situazione-dal-15-ottobre-trenord-blocca-le-ferie-per-gestire-i-dipendenti-senza-green-pass">La situazione dal 15 ottobre: Trenord blocca le ferie per gestire i dipendenti senza Green pass</h2>
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<p>Nell’attuale situazione, però, non solo il Green pass non è possibile, ma non è nemmeno auspicabile. Come fa notare il rappresentante del nodo di Saronno, <strong>imporre il Green pass</strong> anche in questi mezzi potrebbe essere un problema perché <strong>disincentiverebbe a usarli</strong>: a quelli che non prendono il treno per paura del contagio si sommerebbero quelli che non riescono a gestire la prenotazione. Su un Frecciarossa, invece, la situazione è completamente diversa.</p>
<p>“I volumi non sono ancora pre-pandemia, ma nelle tratte dei pendolari si stanno già verificando dei casi di affollamento. I casi peggiori sono quelli dei <strong>treni internazionali-regionali</strong> che vanno da Milano a Locarno per alcuni problemi tecnici che portano talvolta al dimezzamento dei vagoni occupabili”, spiega Mazzucotelli.</p>
<p>Quindi, cosa succederà il 15? Quello che sappiamo è che <strong>Trenord</strong> vuole prevenire le assenze dei lavoratori sprovvisti di Green pass, e <strong>ha bloccato le ferie dei dipendenti</strong> per gestirli in modo più libero, così da correre ai ripari in caso di assenze. Difficile dire se basterà: senza ferrovieri i treni non partono e quelli che restano saranno più affollati, il che potrebbe innescare una spirale negativa.</p>
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<p><em>Photo credits: ketk.com</em></p>


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Il Comitato pendolari Gallarate-Milano: &#8220;Green pass? Trenord disinveste da anni, altro che controlli&#8221;

La certificazione verde è richiesta per le lunghe percorrenze ma non per quelle brevi, dove gli affollamenti sono all&#8217;ordine del giorno. I pendolari: &#8220;Treni vecchi e tagli alle corse. Spingono a spostarsi in auto&#8221;.

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Marcello Caponigri

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