In un’Italia dagli stipendi in calo costante dal 2008, l’introduzione del salario minimo potrebbe comportare un aumento della produttività, con importanti differenze tra Regioni e settori produttivi. Analizziamo chi ne beneficerebbe e chi no.
Gig economy, la metà dei lavoratori è invisibile. E solo uno su tre fa il rider
I dati raccolti da INAPP e dal ricercatore dell’Università di Bologna Maurilio Pirone mostrano uno spaccato inaspettato dell’economia basata sulle piattaforme digitali. Il quadro dei lavoratori è composito, ma le necessità sono comuni: nuove norme e maggiore inquadramento.
I dati raccolti da INAPP e dal ricercatore dell’Università di Bologna Maurilio Pirone mostrano uno spaccato inaspettato dell’economia basata sulle piattaforme digitali. Il quadro dei lavoratori è composito, ma le necessità sono comuni: nuove norme e maggiore inquadramento.
Quando si parla di lavoro su piattaforme digitali lo si definisce sempre come “un mondo in costante evoluzione”. Anche la Commissione europea ne ha parlato in questi termini, aggiungendo che è necessario agire per regolamentarlo perché “consente a molte persone, comprese quelle che altrimenti hanno difficoltà ad accedere al mercato del lavoro, come i lavoratori a basso reddito, le donne, i giovani, le persone con disabilità, i migranti oppure le persone appartenenti a minoranze razziali o etniche, di guadagnarsi da vivere o di integrare il proprio reddito”.
È la descrizione che compare nella sua proposta di direttiva, pubblicata lo scorso 20 gennaio, in cui avverte il Parlamento europeo dell’enorme crescita sia in termini di ricavi delle piattaforme, che tra il 2016 e il 2020 sono quasi quintuplicati passando da circa 3 miliardi a circa 14 miliardi di euro, sia in termini occupazionali: oggi sono oltre 28 milioni le persone che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali nell’Unione europea, e si prevede che nel 2025 arriveranno a toccare i 43 milioni.
Ma chi sono questi lavoratori?
Noti e meno noti: i lavoratori della gig economy
Quando pensiamo alle piattaforme, la prima immagine che viene in mente è quella del rider, che con lo zaino cubico e il giubbetto catarifrangente sfreccia per strada o ci porta la cena. Eppure il mondo della gig economy è molto più vario e comprende molte figure professionali che, confinate nel lavoro da remoto, sfuggono alle nostre osservazioni, oltre che alle maglie delle proteste, delle rivendicazioni, della regolamentazione.
In Italia i lavoratori che fanno parte di questo mondo sono in tutto 570.521, pari all’1,3% della popolazione tra i 18 e i 74 anni. A dichiararlo è l’INAPP, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, nel suo report Lavoro virtuale nel mondo reale, elaborato sulle risposte di 45.000 lavoratori. Due terzi lavorano per piattaforme location-based, in cui i compiti assegnati vengono svolti in una località specifica, mentre un terzo svolge attività rese solamente sul web. Sul totale, tre lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto, mentre solo l’11% ha un contratto da dipendente.
Solo il 36,2% rientra nel food delivery. Aggiungendo il 14% che si occupa di consegnare pacchi e prodotti, resta un 50% le cui mansioni sono diverse da quelle dell’immaginario collettivo. Il 34,9% si occupa di esecuzioni di attività online. La percentuale non è ulteriormente divisibile, ma secondo Francesca Bergamante, una delle ricercatrici che hanno curato il report per INAPP, si tratta di lavori come traduttori, copywriter, editor e altro ancora. Il 9,2% svolge invece lavori domestici, e il 4,7% accompagna soggetti con l’auto.
La maggior parte di questi lavoratori, inoltre, non utilizza le piattaforme per arrotondare, ma per svolgere la propria attività principale: si tratta di 274.000 persone, poco meno della metà del totale. Ci sono poi gli occupati che lavorano per la piattaforma come attività secondaria, ossia circa 139.000 persone, e i non occupati o lavoratori occasionali, che svolgono sulle piattaforme attività lavorative occasionali, pari a 157.000 persone.
Dal punto di vista demografico, più dei tre quarti dei lavoratori della gig economy sono uomini. Il 70% ha un’età compresa tra 30 e 49 anni e la fascia d’età tra 18 e 29 anni si concentra sulla categoria dei lavoratori occasionali. Molti di loro, inoltre, sono padri o madri di famiglia: circa il 45% degli intervistati ha infatti dichiarato di essere parte di una coppia con figli. Sono la maggioranza sia fra coloro che usano le piattaforme per il loro lavoro principale, sia per quello secondario. Un quadro che non solo sfata il mito dello studente che consegna pizze, ma restituisce la descrizione di un fenomeno di massa e in crescita, che coinvolge nuclei famigliari senza avere sempre un contratto su cui fare affidamento.
L’identikit impossibile (e le richieste comuni) di chi lavora sulle piattaforme
Per capire meglio il fenomeno della crescita della gig economy abbiniamo all’indagine quantitativa svolta da INAPP le informazioni raccolte dall’indagine qualitativa di Maurilio Pirone, ricercatore dell’Università di Bologna che ha lavorato a un progetto Horizon intitolato Disciplina del lavoro e nuovi processi di sindacalizzazione nell’economia di piattaforma.
Lo studio ha riguardato l’analisi di quattro piattaforme, giudicate esemplificative per i diversi settori: Deliveroo, Airbnb, Uber e Helpling (piattaforma per le pulizie) e i loro lavoratori dislocati in sette città: Barcellona, Bologna, Berlino, Lisbona, Londra, Parigi e Tallin, scelte per avere un quadro per diverse zone dell’Europa. Si è trattata di un’analisi di campo, realizzata intervistando più di duecento lavoratori delle piattaforme nelle sette città. Successivamente sono stati creati dei focus group per ognuna delle città e poi a livello globale. “Lo scopo del progetto era quello di avere la collaborazione dei lavoratori attivi nella gig economy nell’analisi del loro lavoro e nella produzione di policy”, ha detto Pirone.
Questi focus group hanno evidenziato che “non c’è una figura unica di lavoratore delle piattaforme”: quindi un host di Airbnb ha una percezione di sé stesso e una serie di richieste diverse da un rider di Deliveroo. Inoltre, anche nella stessa piattaforma i lavoratori possono avere diverse visioni a seconda del rapporto che instaurano con la piattaforma. Come spiega Pirone, la ricerca ha individuato due macrotipi di lavoratori: chi lo fa in una maniera professionale, ossia come prima attività, e chi in maniera accessoria (cioè chi ha altri lavori o progetti di vita diversi che sostiene tramite la piattaforma, come studenti, artisti e così via).
Fra i lavoratori della gig economy ci sono anche coloro che sfruttano le piattaforme per un’attività vera e propria, come i “property managers” su Airbnb, che gestiscono per conto terzi anche 50 appartamenti. Oppure ci sono coloro che si posizionano su più piattaforme, dai rider che utilizzano diverse app per avere più clienti nello stesso lasso di tempo, oppure host che sono su Airbnb e anche su Booking.
“Questa varietà rende difficile trovare risposte comuni, ma ci sono alcune domande che emergono trasversalmente, come maggiore chiarezza sui funzionamenti delle piattaforme, dell’algoritmo, del controllo, della valutazione, o maggiore attenzione sulle social protection (infortuni e malattie). Spesso questi lavoratori devono pagarle da soli perché sono contrattualizzati come lavoratori occasionali, partite IVA, lavoratori autonomi. Inoltre, tranne per Airbnb, c’è la richiesta di avere un monte ore preciso”.
Orari duttili, paghe basse. Dove servono le nuove normative
Quest’ultimo punto è uno dei più rilevanti, nonché forse l’essenza della gig economy, ovvero l’estrema fluttuazione sia degli orari che delle tariffe.
“Le piattaforme, però, hanno una maniera molto plastica di adattarsi ai contesti”, spiega il ricercatore. “Lo schema di organizzazione del lavoro è simile: lavoro autonomo occasionale, scaricare i costi del lavoro sul lavoratore, utilizzo sistemi di tracciamenti e ranking, ma trovano soluzioni differenti per entrare in un mercato”.
L’esempio migliore è Uber, la compagnia di taxi californiana. In Italia non è legale perché non usa le licenze, quindi per entrare sul mercato ha stretto accordi con le aziende locali. A Bologna ha stretto un accordo con CosePuri, un’azienda di trasporti, che si appoggia all’infrastruttura digitale. “In Portogallo è stata fatta una legge che obbliga ad assumere i driver, però lavorano per società terze, non direttamente per Uber. La piattaforma è quindi molto resiliente rispetto ai contesti normativi”.
Eppure, anche se la piattaforma si adatta e penetra fra i vari passaggi di una filiera di un settore utilizzando vuoti normativi o escamotage organizzativi, trovare risposte normative è essenziale per salvaguardare un settore che ora è arrivato a contare 570.521 soggetti, il 2,25% sulla popolazione attiva del 2020 (pari a 25.369 milioni), e che negli ultimi anni non ha fatto che crescere.
Il caso in controtendenza, anche se solo in Italia, è quello di Helpling, l’app di servizi a domicilio in cui si chiama una persona per pulire casa. Molto sviluppata in Inghilterra e Germania, nel nostro Paese fatica a svilupparsi perché la dimensione informale continua ad avere un grosso ruolo: secondo lo studio, i lavoratori cercano di svincolarsi dalla piattaforma dopo il primo contatto col cliente, perché ha commissioni molto alte.
“Indipendentemente dalla configurazione contrattuale con le piattaforme, c’è una serie di diritti trasversali che andrebbero garantiti”, ribadisce Pirone. “A livello nazionale e locale sarebbe necessaria una serie di tavoli di trattative per rendere operativi questi diritti, non in una maniera astratta, ma secondo l’esigenza di quei contesti, perché è difficile trovare una regola comune”.
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Leggi il mensile 109 “Stipendi d’Italia” e il reportage “Aziende sull’orlo di una crisi di nervi“.
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