Giornalisti e lettori: rapporto tra alieni

«Vengono dalle pareti. Vengono fuori dalle fottute pareti». Questa è una delle frasi più note del film Aliens – Scontro Finale, anno 1986, regia di James Cameron (la scena merita di essere rivista) che riassume alla perfezione il rapporto che oggi, grazie alle nuove tecnologie, si configura tra i giornalisti, interni o esterni alle redazioni, e gli […]

«Vengono dalle pareti. Vengono fuori dalle fottute pareti». Questa è una delle frasi più note del film Aliens – Scontro Finale, anno 1986, regia di James Cameron (la scena merita di essere rivista) che riassume alla perfezione il rapporto che oggi, grazie alle nuove tecnologie, si configura tra i giornalisti, interni o esterni alle redazioni, e gli alieni cioè i lettori. I giornalisti sono i marines che si aggirano nel territorio dei social e del web, a loro sconosciuto, buio e considerato ostile, con segnali contradditori sulla presenza dei lettori, i quali conoscono meglio dei giornalisti questi territori perché li usano quotidianamente e li attendono al varco. Con quella ostilità tipica di chi è rimasto ai margini per anni, nelle pareti, confinato nella rubrica delle lettere, ridotto al numero indistinto della diffusione spesso “approssimativo per eccesso” e che ora, sulla carta, ha la stessa parità del giornalista ed è spinto dal desiderio di rivalsa tipico di chi è stato a lungo escluso.

Dall’altra parte i giornalisti “sparano” verso gli alieni che «vengono fuori dalle fottute pareti» senza nemmeno vederli, senza conoscere l’ambiente nel quale si trovano, definendo il web e i social una discarica, un covo di fake news nel quale è impossibile distinguere il vero dal falso; peccato che poi gli editori facciano il pianto greco ogni volta che Zuckerberg o big G(oogle) modificano un algoritmo, mandando a rotoli in pochi minuti modelli di business redditizi. Insomma, web e social sono posti poco raccomandabili, dai quali è lecito estrarre immagini e video a man bassa – ovviamente gratis, «tanto stanno sul web» e sono prodotti dagli alieni-lettori, aggiungiamo noi – da incorporare nelle proprie pagine, dopo averli brandizzati con i propri loghi, oppure per creare infinite gallerie fotografiche, come quelle del Corriere della Sera che sono diventate oggetti di un piccolo culto.

Conoscere gli alieni

Eppure gli alieni-lettori è possibile conoscerli al tempo del web, ma forse questa è una cosa che spaventa i giornalisti specialmente sotto il profilo dei numeri. Un tempo, circa quindici anni fa quando i due maggiori quotidiani nazionali viaggiavano con una diffusione di copie sopra alle 600mila e ciascuna si moltiplicava questa cifra per tre (su che base si stimasse che ogni copia fosse letta da tre persone, non l’ho mai capito) il giornalista aveva la quasi certezza psicologica di essere stato letto da 1.800.000 persone. Insomma, la mattina dopo, prendendo in mano la copia del giornale con il proprio articolo, c’era da essere soddisfatti pensando che il proprio lavoro sarebbe stato letto da milioni di persone.

Naturalmente non era così, ma non essendo mai stati fatti in Italia studi sistematici di sociologia o psicologia sociale sulla fruizione dei contenuti – né tanto meno sull’impatto delle pubblicità – ci si cullava in questa illusione e ci si cullavano anche gli inserzionisti pubblicitari. L’arrivo del web, e lo sbarco dei quotidiani su internet, ha letteralmente distrutto le certezze trentennali di giornalisti ed editori, rivelando chi sono e cosa fanno gli alieni-lettori. Sul web, ogni pagina vista è una chiamata a un file che da un server arriva a un computer identificato da un Ip unico al mondo e si riesce a sapere quanto il lettore-alieno è stato su quella pagina, dove è andato uscendo dall’articolo – mai e poi mai lo si mandi alla concorrenza – se torna in un momento successivo. Ma, soprattutto il giornalista e l’editore hanno prove certe che magari l’articolo è stato effettivamente letto da 30.000 alieni-lettori. Cifra che rispetto agli 1,8 milioni immaginati prima è un poco diversa. E ciò sui giornalisti ha avuto effetti notevoli.

All’epoca, e ancora oggi, la reazione fu infatti di chiusura, netta.

Nei primi anni 2000, mentre le redazioni web dei grandi quotidiani erano considerate strane sette esoteriche che si riunivano negli scantinati rigorosamente separate dalla “vera redazione”, lavoravo su internet come giornalista e programmatore html e mi ricordo perfettamente la faccia di compatimento dei colleghi quando rivelavo il mio lavoro, con punte di “saggezza” di alcuni che replicavano: «ti capisco, deve essere dura. Il web è così dequalificante». E tutto ciò fino al 2008, anno della grande crisi, quando si iniziò a sentire lo scricchiolio della carta e dei suoi business plan. Ma la resistenza fu forte. Ricordo, ed eravamo già nel 2011, l’illustrazione di una ricerca sul mercato editoriale a un convegno tra editori nella quale si affermava che «il web non sarà un grande problema per l’Italia, perché la nostra popolazione sta invecchiando ed è pertanto poco avvezza all’uso di Internet».

E non eravamo nella preistoria visto che in quell’anno l’iPhone aveva già quattro anni. La realtà è che la popolazione giornalistica italiana sta invecchiando e non innova. Così recita il rapporto “Osservatorio sul giornalismo – II edizione“, realizzato dal Servizio Economico–Statistico dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: «l’analisi sui dati socio–demografici […] è caratterizzato anche da un marcato invecchiamento della popolazione, soprattutto tra i giornalisti dipendenti ma sempre di più anche tra i liberi professionisti e i parasubordinati», e ancora «i giornalisti italiani non sono mai stati, se non in minima parte, degli early adopter delle nuove tecnologie». Se il primo aspetto potrebbe non essere un problema, visto che molti dei protagonisti dell’evoluzione del giornalismo anglosassone verso il digitale sono over 50, la coniugazione dei due aspetti è il detonatore esplosivo del contesto che abbiamo descritto.

Vecchie abitudini per i nativi digitali

Ma anche le testate native digitali non sono esenti da attacchi agli alieni-lettori, a riprova del fatto che il problema non sono le tecnologie, ma l’approccio culturale di editori e giornalisti. L’esempio più evidente è quello de Il Post che alcuni anni fa decise di “porre freno” ai commenti degli articoli, moderandoli. Ossia introducendo un ritardo, anche di ore, tra l’inserimento e la pubblicazione.

Il motivo di ciò non è mai stato chiarito anche perché la comunità dei commentatori de Il Post, (tenete a mente la parola comunità, N.d.R), era una delle migliori del web italiano. Discussioni di qualità, pacate, che contenevano contributi fatti di link e documenti che arricchivano gli articoli al punto che in un articolo di critica su Il Post – sì, i lettori oggi fanno anche articoli di critica dei propri giornali preferiti – uscito su Libernazione, scritto da Dan Marinos (leggetevi il pezzo che trovate qui, perché vale) si legge: «Fino a qualche anno fa una frase tipica dei frequentatori de Il Post era “Lo leggo anche solo per i commenti”. Si era infatti creata una community forte, incentrata su un nucleo di persone educate, intelligenti, esperte e ironiche». E le comunità virtuali, se gli si nega un luogo d’aggregazione, fanno come quelle reali: trovano un altro luogo o lo realizzano di sana pianta. E così hanno fatto gli alieni-lettori-commentatori de Il Post che hanno creato il sito Hooki nel quale si linka un articolo che rimane sul sito originale e lo si commenta su questa piattaforma in piena libertà, senza moderazione, e anche senza pubblicità: il sito fa capo a un’associazione che si regge con l’autofinanziamento.

E così, mentre una comunità si è data un luogo e un’organizzazione dove discutere, Il Post ha perso un poco di pagine viste e visualizzazioni di pubblicità. Il motivo di ciò rimane oscuro. A una domanda specifica, che ho fatto su ciò che è successo a Il Post durante il Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia del 2015, Luca Sofri è stato un po’ evasivo. Il video qui. Rimane comunque il fatto che i lettori, specialmente se aggregati attraverso la qualità, sono una risorsa che sembra essere sconosciuta, o meglio ignorata, da parte di editori e giornalisti. Ma non da tutti.

L’unico public editor

La Stampa, per esempio, è l’unico tra i grandi giornali italiani ad essersi posto il problema e ha ha istituito, unica in Italia, la figura del public editor. «Oggi il rapporto con i lettori è più facile e veloce grazie ai social media – ci dice Anna Masera, public editor de La Stampa. Prima un lettore lo si incontrava occasionalmente al bar, ora commenta sui social e il fenomeno si è intensificato». E ciò che traccia Masera descrivendoci le dinamiche interne alla redazione è interessante e descrive nel dettaglio un mondo che comunque, a fatica, sta cambiando.

«I giornalisti vivono questo rapporto in maniera diversa, come è ovvio – prosegue Masera – Non siamo tutti uguali e sarebbe ora di considerare i giornalisti come una categoria professionale nella quale ci sono grandi differenze. Ci sono colleghi che vivono questo rapporto in maniera buona e che anzi ne approfittano per il loro lavoro, arricchendolo e trovando delle fonti, ma ce ne sono altri che non utilizzano questo canale. La generalizzazione del noi categoria dei giornalisti, contro voi categoria dei lettori, a mio giudizio è sbagliata perché ogni giornalista ha la propria reputazione che può, oltretutto, cambiare nel giro di un istante a causa di un errore».

Chi scrive ritiene che social e web, con tutti i loro frequentatori, siano una ricchezza da utilizzare, compresa l’intelligenza collettiva che possono esprimere. Faccio un esempio. Alcuni anni fa pubblicammo sul portale QualEnergia, che dirigo, una bozza dell’incentivazione per il fotovoltaico in un articolo che vale la pena leggere anche per i commenti: come si fa di solito, mettemmo online il documento in pdf che era su carta intestata del Ministero dello Sviluppo economico. Nella notte furono i lettori ad andare a leggere le proprietà del documento e a scoprire che era stato generato da una signora, MG, identificata tramite una rapida ricerca su Linkedin come una dipendente di Enel. I lettori riportarono, indignati, l’indagine sui commenti – strumento che avevano a disposizione – e lo “scoop”, involontario da parte nostra, finì sulla stampa generalista e nazionale. Il Fatto e Repubblica ripresero lo scoop realizzato dai lettori.

Public editor differenti

«Per quanto riguarda la figura del public editor, devo dire che la differenza rispetto agli Stati Uniti c’è. – continua Masera – Lì, la figura dell’ombudsman (la dizione tradizionale del public editor che è garante del lettore, N.d.R) è talmente presente che esiste persino un’associazione di categoria (la ONO Organization of News Ombudsmen and Standards Editors) mentre qui in Italia sono l’unica. Devo dire però che anche negli Usa non deve essere una passeggiata se una delle migliori public editor, Margaret Sullivan che era al New York Times, ha lasciato ora sia il giornale, sia quel ruolo. E la Sullivan riferiva direttamente all’editore e non, come me, al direttore del giornale. Comunque sia, è sempre un bene che in Italia ci sia un tentativo, anche se con dei limiti, rispetto al non fare nulla».

Il fatto che il public editor anglosassone riferisca all’editore e non al direttore non è cosa da poco. Negli Usa è una figura terza che non è coinvolta nelle dinamiche quotidiane di redazione e quindi ha un potere notevole nel trasmettere le segnalazioni dei lettori.

Sul suo incarico, però, Masera fa qualche puntualizzazione. «Sul fronte del public editor bisogna fare un poco di chiarezza circa il ruolo. Per prima cosa, non è il social media editor che ha un ruolo di maggiore promozione dei contenuti sui social; se dovessi trovare un’analogia, direi che il public editor è un po’ come “l’ufficio reclami” e su questo fronte penso che si debba fare un lavoro anche sui lettori affinchè usino questa figura, ma riconoscendole il giusto ruolo. Alcune volte sono stata indicata come responsabile di errori, ma non è questo il compito. Di solito non si ritiene responsabile per un disservizio l’ufficio reclami di un’azienda ed è da qui che bisogna partire. Si tratta di migliorare il rapporto con i lettori cercando di incrementare la fiducia, ma è un lavoro culturale faticoso e complesso perché c’è da cambiare un modus operandi consolidato, specialmente in un grande giornale come il nostro che ha 150 anni di storia».

Lettori al centro e zero pubblicità

Ma modelli di giornalismo che mettono al centro i lettori, e non li trattano da alieni, esistono. Il più noto è l’olandese De Correspondent che ha un modello di business intermente centrato sui lettori che sono abbonati. Qualche cifra per inquadrarlo. Il giornale è stato lanciato nel 2013, ha ad oggi 56mila abbonati che pagano 58 euro l’anno creando così un fatturato di 3,52 milioni di euro capace di consentire l’impiego di 21 giornalisti full time, 75 collaboratori freelance e soprattutto di evitare pubblicità e indicizzazione dell’utenza, uno dei fattori vincenti nella relazione coi lettori. Ossia il giornale non fa diventare “prodotti” i lettori cedendone i dati a uso pubblicitario, ribaltando così completamente i modelli che vanno oggi per la maggiore.

L’altro aspetto originale è il rapporto con i lettori. Ogni giornalista di De Correspondent gestisce la comunità degli abbonati in riferimento all’argomento di cui si occupa e il lettore si iscrive alla newsletter dedicata agli argomenti a cui tiene. Sembra semplice e banale come concetto, ma per fare ciò bisogna superare due ostacoli notevoli. Il primo è un aspetto culturale/psicologico, ossia quello di cui abbiamo parlato all’inizio circa il considerare alieni i lettori, mentre il secondo è di carattere tecnico e industriale. Ossia come riuscire a inserire la gestione di una comunità (vi avevo detto di tenere a mente il concetto) di lettori esigenti, in quanto paganti, nella filiera giornalistica in maniera sistematica e non spot. «Avere interazioni ricche con i lettori è il loro lavoro, sono assunti anche per questo i nostri giornalisti. Non hanno scelta», mi ha detto a margine del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia 2016 il direttore di De Correspondent, Rob Wijnberg. E su ciò c’è anche l’aspetto tecnologico che è inedito. Il giornale olandese, infatti, si è dotato di un Cms (Content Management System) che è in grado di supportare il giornalista nello stimolare la discussione direttamente all’interno della filiera di lavoro. Ed è una storia di successo. È di pochi giorni fa, infatti, la notizia che De Correspondent varca l’oceano e sbarca con il proprio modello negli Stati Uniti, proprio nel momento in cui l’informazione viene messa in dubbio da Donald Trump e i media statunitensi stanno cercando l’appoggio dei lettori che in quel contesto oggi non è più solo politico, ma anche e soprattutto politico. Si chiamerà The Correspondent.

Local global di successo

Ma anche l’Italia ha il proprio caso di successo basato sul rapporto con i lettori e in questo caso il territorio. È Varese News. Il solito giornalino locale, fatto da quattro amici al bar? Giudicate voi dai numeri. 140mila visite al giorno, 187mila contatti sulla pagina Facebook, una struttura di 30 persone di cui 20 giornalisti e un fatturato annuo di 1,2 milioni di euro. E nel 2017 Varese News festeggia venti anni di attività. «Sia chiaro che questi sono numeri reali e chi lavora da noi è regolarmente assunto», ci tiene a specificare Marco Giovannelli, uno dei fondatori e direttore di Varese News. E il rapporto con i lettori per Giovannelli è essenziale. «Noi siamo informazione locale e spesso il lettore conosce molto bene gli argomenti che trattiamo e anche per questa ragione i lettori sono sia una risorsa, sia un elemento da rispettare». Ma la relazione con i lettori non è, per Giovannelli, solo una questione di policy editoriale. «Abbiamo una comunità di lettori che deve essere trattata con molta dignità e ciò può essere fatto solo se si supera l’aspetto delle lettere e dei commenti, sviluppando un’interazione reale». E qui si apre un fronte inedito per l’Italia che è quello dell’interazione diretta tra il giornalista e i lettori: nel concreto e nella vita reale, perché questo è un dato essenziale per la vita delle comunità.

«Per festeggiare il ventennale di Varese News, stiamo portando il caffè a casa dei lettori. – spiega Giovannelli – Organizziamo serate a casa dei lettori ai quali chiediamo di far partecipare dieci amici e noi ci mettiamo due giornalisti e un esperto. E il caffè ovviamente. Ma questo non è un lavoro spot che facciamo come evento ogni tanto, ma un aspetto continuativo della nostra attività». E infatti Varese News è anche l’organizzatore di Glocal il Festival del giornalismo digitale locale che ogni anno fa il punto sullo stato dell’arte del giornalismo locale via web e quest’anno sbarca anche al sud il 19 e 20 maggio 2017 con Glocal Sud, in Puglia a Corato. Il rapporto con territorio ed enti locali è nel Dna di Varese News. «Nella società editrice abbiamo realtà sindacali, artigianali e di categoria, ma vorrei essere chiaro: noi viviamo di mercato, le entrate da questa compagine societaria rappresentano solo il 6% e questa cosa è un’altra caratteristica vincente del nostro modello. I nostri referenti sono i lettori». E ciò si evince anche dal fatto che spesso le inchieste scottanti di Varese News hanno come argomento realtà molto spesso vicine al giornale, le cui priorità sono, evidentemente, i lettori.

Tornando al lavoro dei giornalisti sui social, anche qui Giovannelli ha qualcosa da dire. «Anche su ciò abbiamo adottato un modello diverso dal solito. – prosegue Giovannelli – Non abbiamo un social media manager che si occupa dei social, con i quali il rapporto è comunque complesso visto che sono sia alleati sia competitor: sono tutti i giornalisti, a turno, a occuparsene. E curare i social significa rafforzare i rapporti con i lettori». Lettori che sono anche la ricchezza, materiale e immateriale di Varese News. La provincia di Varese è la quarta Confindustria d’Italia per volume, ha due Università, un aeroporto internazionale ed è l’undicesima provincia industriale d’Europa», ci tiene a puntualizzare Giovannelli, rimarcando la propria attenzione al contesto che è fatto sì di un tessuto sociale variegato, ma anche impregnato da una cultura d’impresa e del lavoro. «Altre questioni importanti sul fronte del rapporto con i lettori sono l’approccio (o meglio la forma) delle notizie e le iniziative. Abbiamo costruito uno “stile” autorevole e propositivo perché oggi il mondo, anche a livello locale, è sempre più complesso e richiede analisi. Ma non bisogna fermarsi al livello della denuncia negli articoli e occorre arrivare a essere propositivi».

E ciò a Varese News lo fanno anche con iniziative che potremmo chiamare circolari, ossia che partono e arrivano dai lettori e nel quale il media fa da facilitatore. Subito dopo il terremoto di Amatrice, per esempio, una piccola azienda della zona ha messo a disposizione, regalandolo, un box che però non poteva trasportare. Il giornale ha pubblicato la notizia/appello e si è trovata la soluzione nel giro di un giorno. Ed è successo lo stesso per un camper che è stato messo a disposizione da un lettore. Nel giro di poco tempo si è riempito di beni utili alle persone colpite dal sisma ed è partito per le zone terremotate. «Svolgere attività di servizio e propositive è un fattore che rafforza lo spirito di comunità tra il giornale e i lettori», conclude Giovannelli. E fa anche bene ai modelli d’impresa del giornalismo, aggiungiamo noi.

A Varese, e in Olanda, i lettori non sono più gli alieni da combattere ma veri compagni di viaggio, organizzati in comunità, verso galassie dell’informazione forse nemmeno troppo lontane.

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