Gli open space erano solo un brutto sogno

Che cosa resterà di tutto questo smart working? Si va verso una diminuzione degli orari di ufficio: i luoghi di lavoro comune resteranno, ma le aziende sono già pronte a riprogettarli.

6,58 milioni, circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani. Questo il numero di persone che nel 2020 ha lavorato da remoto secondo una ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in un momento in cui questa modalità rappresentava l’unica soluzione possibile.

E oggi? Le stime ci dicono che le persone che continueranno a lavorare almeno in parte da remoto superano i 5 milioni. Un dato confermato da uno studio di Fondirigenti, per cui si prevede un aumento del lavoro da remoto da 1 giornata a 2,4 giornate, fattore che farà diminuire l’occupazione fisica negli uffici da una media dell’83% a una media del 70%.

La domanda nella testa di molti è: servirà ancora l’ufficio? Più di uno studio dice di sì. Il nodo da sciogliere sarà piuttosto quello della sua funzione da qui in poi, in un mondo del lavoro in cui sono cambiate improvvisamente le modalità operative, le relazioni, gli orari, i dispositivi.

Edith Forte, CEO di Fortebis: “Lo smart working ha bisogno di una messa a terra in ufficio”

Edith Forte, imprenditrice e CEO di Fortebis, società di consulenza in architettura, project management e design che opera a livello globale, ci ha raccontato la sua esperienza.

“Le tecnologie dell’informazione hanno consentito l’accelerazione del lavoro in remoto causata dalla pandemia. Chi come me lavorava in smart working da molto tempo si era già accorto che il lavoro a distanza funzionava, e questo ha consentito un’applicazione immediata di questa modalità su larga scala. I risultati del lavoro nel team sono stati valutati nei contenuti qualitativi (risultati) e non più quantitativi (ore lavorate); si è operata una semplificazione delle procedure; si è attuata una formazione e quindi una delega a distanza, operazione mai semplice se fatta in presenza, e invece naturale se cade l’abitudine di vedersi di persona tutti i giorni. Ma lo smart working ha assoluta necessità di una messa a terra in ufficio, di una cabina di regia con spazi di incontro, confronto, scambio professionale. Tanto che Fortebis ha classificato, nei concept di uffici che sta progettando, ben otto tipologie di meeting diverse”.

Uno dei grandi equivoci che lo smart working emergenziale ha portato con sé è proprio il fatto di averlo identificato con il lavoro da remoto. Lo smart working è un concetto più ampio che si fonda su tre asset principali: Behaviours, Bytes e Bricks.

I Behaviours sono i comportamenti del lavoratore e del datore di lavoro, in cui la regola non sono più gli orari, ma gli obiettivi da raggiungere. I Bytes sono la tecnologia, che ci permette di lavorare in modo collaborativo anche da distanti, che rende possibile prenotare la sala riunioni o la scrivania, che consente di monitorare i flussi, gli spostamenti e il dispendio di energia dell’edificio, per ottimizzare i processi e migliorare la qualità dei luoghi. E infine i Bricks, gli spazi fisici del lavoro, che con il loro layout possono facilitare o meno un tipo di organizzazione.

L’ufficio da oggi in poi: uno strumento per incontri e confronti

L’uso dell’ufficio cambierà e l’azienda dovrà riuscire a renderlo un luogo capace di massimizzare il coinvolgimento, l’interazione, la creatività e la produttività. Al tempo stesso gli uffici saranno sempre più uno strumento di identità, capaci di comunicare il brand e i suoi valori a dipendenti e clienti. La sfida sarà proprio quella di creare luoghi in cui le persone abbiano voglia di andare.

Una ricerca condotta da Gensler negli Stati Uniti tra luglio e agosto 2020, intervistando più di 2.300 lavoratori dipendenti, ha rilevato che solo il 19% delle persone vorrebbe continuare a lavorare totalmente da remoto, mentre il 52% vorrebbe un modello ibrido, che unisca il lavoro in ufficio a una certa flessibilità. I punti chiave emersi riguardano la funzione dell’ufficio come luogo di aggregazione per chi vuole confrontarsi, scambiare informazioni e imparare, nella convinzione che le relazioni e la presenza abbiano un impatto positivo sulla carriera. Non stupisce che le generazioni che più si sono sentite penalizzate dal lavoro da remoto siano state Millennials e Gen Z, per la maggiore difficoltà nel ricevere feedback e obiettivi chiari anche in ottica di una crescita personale.

E in Italia? Un’indagine di InvestiRe SGR e Politecnico di Milano su un campione di medie e grandi imprese ha rilevato che il 51% delle aziende riprogetterà i propri spazi di lavoro per adeguarli alle nuove necessità emerse: quelle di un luogo generativo di incontro, confronto e crescita, e insieme sicuro, salubre e confortevole.

Lo spazio del lavoro sarà un luogo in cui scegliamo di andare, uno degli strumenti di lavoro a nostra disposizione: un modello ibrido all’interno di un contesto fluido, che mischia lavoro e benessere per disegnare nuovi comportamenti e spazi. Un ufficio fatto per le persone, per dare valore al contributo di ciascuno, non alla presenza fisica.

Scegliere dove vivere lavorando, o dove lavorare vivendo

Architetti come Stefano Boeri hanno da tempo iniziato a pensare ai borghi come possibili alternative alle periferie urbane. Se la presenza nelle sedi centrali sarà limitata a due o tre giorni lavorativi a settimana, le persone potranno abitare più lontano, in posti meno costosi, con uno stile di vita più a dimensione di uomo.

“La pandemia ha indotto modelli di appropriazione della città e degli spazi di vita e lavoro completamente differenti”, interviene Edith Forte. “Si lavorerà anche in casa e in vacanza, si vivrà in case sempre più periferiche, più grandi e dal layout flessibile, dotate almeno di uno spazio esterno e in un contesto meno antropizzato. Questo ha conseguenze nuove e inaspettate anche sul valore del suolo edificato nelle varie aree urbane, poiché era dall’ultimo dopoguerra che non si assisteva a un riequilibrio dei valori delle diverse aree. Per il recupero degli spazi ufficio rimasti vuoti nei palazzi storici del centro si stanno creando nuovi concetti (coworking, uffici flexi e ibridi) con nuovi standard territoriali e distanze più estese, nella certezza che nulla tornerà come prima. Open space e densità di persone negli uffici e negli spazi pubblici risuoneranno nella nostra memoria come legati a un periodo buio della storia, nel quale in molti ci hanno lasciato, in una guerra contro un nemico invisibile ma potente al punto da cambiare integralmente stili di vita e abitudini, regole sociali, diritto alla libertà”.

Si intravedono nuove necessità al diffondersi del remote working, come quella di avere luoghi adatti al lavoro fuori dalla propria casa, ma vicino a casa. Ciò potrebbe diventare l’occasione per dare valore alle aree più decentrate, nell’ottica di favorire una migliore conciliazione fra vita e lavoro, verso lo smart working – quello vero.

“Quindi, se lavorare a distanza funziona con rientri periodici, condizione che agevola soprattutto il lavoro della donna – sulla quale ricade ancora oggi il costo sociale della famiglia e dei figli – possiamo finalmente scegliere dove vivere (lavorando), o dove lavorare (vivendo)”, riprende Edith Forte. “Occorre solo saper dosare tempo di vita e lavoro, perché i confini non marcati restano decisione dei singoli, e quindi il lavoro esonda continuamente, soprattutto per chi riveste ruoli apicali. Io personalmente ho scelto di vivere in Sardegna, regione in cui la qualità della vita è molto alta. La verità è che lavoro quattordici ore al giorno, e forse mi basta solo il pensiero di sapere che, se voglio, il mare è a un chilometro e ne respiro l’aria dalla finestra”.

Cambiamenti radicali come questi ci metteranno tempo ad attecchire, ma saranno sempre di più le persone che chiedono un modo diverso di concepire il tempo e lo spazio del lavoro.

Photo by Austin Distel on Unsplash

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