I CSR manager e le fabbriche dei bilanci

Mai come oggi il termine “sostenibilità” è sulla bocca di tutti, passepartout sociale che distingue e nobilita, paradigma sempre più abbracciato dalle aziende – con maggiore o minore consapevolezza – di ogni latitudine. Eppure mai come oggi molte di queste aziende sono in difficoltà nel gestire progetti di sostenibilità, perché organizzate storicamente per funzioni. I […]

Mai come oggi il termine “sostenibilità” è sulla bocca di tutti, passepartout sociale che distingue e nobilita, paradigma sempre più abbracciato dalle aziende – con maggiore o minore consapevolezza – di ogni latitudine. Eppure mai come oggi molte di queste aziende sono in difficoltà nel gestire progetti di sostenibilità, perché organizzate storicamente per funzioni. I professionisti della materia si trovano così a fare un grande lavoro di coordinamento e di formazione per “portare a bordo” i colleghi. Il rischio, sempre più forte, è che i progetti si arenino e i CSR manager finiscano in analisi.

 

Se per le aziende la sostenibilità si limita solo alla comunicazione

Il partito di chi riteneva la sostenibilità un cambiamento culturale inarrestabile che ben presto avrebbe contagiato tutti, chi per convinzione chi per sfinimento, non pare aver finora sfondato nel mondo del business. Questo per tre ordini di motivi: impegni troppo timidi, incapacità di collaborare e lentezza nell’agire.

Per imprimere la necessaria sferzata bisogna agire su due fronti. Rispetto al primo bisogna persuadere le aziende che non lo hanno ancora fatto ad aprirsi a questo cambiamento, convincendole del fatto che un approccio sostenibile al business non solo è giusto, ma permette loro di migliorare i conti economici, di ispirare fiducia e in ultima analisi di essere più competitive, come confermano alcune ricerche di Ipsos e Fondazione Symbola.

Rispetto al secondo bisogna rivolgersi alle aziende che già si sono si sono mosse – una piccola parte anche molto bene – e dire loro che non basta. Perché se si vuole restare dentro i limiti fisici del pianeta Terra bisogna passare dalle dichiarazioni di intenti ai target quantitativi assoluti, secondo l’approccio comunemente conosciuto come Science Based Target (a oggi solo Enel e Danieli lo hanno fatto in Italia). La maggioranza delle imprese si limita a dare degli impegni qualitativi o si autoassegna degli obiettivi relativi, come la riduzione della CO2 emessa a parità di prodotti realizzati. In questo senso non aiutano neppure i rating ESG, poiché si basano in maggioranza su analisi di dati limitati al perimetro aziendale, che vengono confrontati con l’andamento storico o del settore di appartenenza. Infatti basta che un’azienda esternalizzi una produzione che le sue emissioni diminuiscono senza alcun effetto a livello assoluto!

Se ne deduce che per le aziende la sostenibilità è ancora un’opportunità di comunicazione sull’as is più che uno sforzo impegnativo nel cercare di ridurre gli impatti e modificare i processi aziendali.

 

Cambiare organizzazione per produrre sostenibilità

Per essere davvero incisive le aziende, oltre a darsi degli obiettivi assoluti e globali, devono cambiare la loro organizzazione. Una recentissima indagine condotta in sette Paesi europei (attraverso le associazioni dei manager della sostenibilità membri dell’EASP, European Association of Sustainability Professionals) conferma come i team di sostenibilità siano ancora sottodimensionati rispetto ai compiti da assolvere e che il loro coinvolgimento nei board, così come il dialogo serrato con i CEO, non siano ancora sufficienti, seppur in costante aumento.

Evidenze che non stupiscono Danilo Devigili, esperto di sostenibilità e partner di Collectibus, secondo il quale “i CSR manager sono da sempre ministri senza portafoglio. Però la risposta non va ricercata solo nella sensibilizzazione dei board o nell’incremento delle risorse di personale della funzione dedita alla CSR, ma introducendo nuovi modelli organizzativi; perché la teoria e l’esperienza ci insegnano che agire sulle strutture organizzative produce cambiamenti in tempi più veloci rispetto ai cambiamenti culturali”.

Poiché gli impatti di molte aziende sono globali e distribuiti lungo tutta la filiera, le aziende devono uscire dai propri perimetri e imparare a collaborare. Devigili prosegue nel suo ragionamento: “Oggi non si vedono ancora aziende e CSR manager impegnati in soluzioni collaborative, perché la cultura dominante è quella della competizione, non della collaborazione. Invece un approccio come quello del collective impact, nato in ambito sociale per risolvere problemi complessi, si può benissimo applicare a temi di sostenibilità. Non a caso stiamo lavorando in quest’ottica con AISM per la massimizzazione degli impatti della ricerca, coinvolgendo associazioni dei pazienti, industria ed enti pubblici”.

 

Il bisogno di collaborazione e la solitudine insostenibile

A conferma che gli aspetti organizzativi sono il tema caldo ho raccolto nelle scorse settimane le confidenze di una CSR manager di una grande azienda – una di quelle ammirate dagli addetti ai lavori per il loro dinamismo e impegno sul fronte della sostenibilità – che mi confermava come la difficoltà maggiore fosse quella di tenere le redini dei progetti e avere dei colleghi collaborativi. Questo perché le aziende sono organizzate naturalmente per funzioni, spesso dei veri e propri silos per non dire orticelli, e la sostenibilità appare almeno inizialmente un elemento che destabilizza equilibri preesistenti. Il CSR manager, che spesso lo diventa per necessità interne, si trova da solo a dover pungolare e a fare sintesi tra funzioni distratte, con to do list già sature, dalle quali lui stesso deve dipendere per portare a casa “il risultato”. Si assiste così a un rapido rallentamento di questa nuova spinta, e la CSR finisce in molti casi per essere l’ennesimo silos in cui si “fabbricano” report e bilanci privi di visione e sfide per il futuro.

“Per scongiurare questo nefasto scenario – sottolinea Camilla Speriani, founder di Collectibus – bisogna produrre soluzioni veloci e realistiche insieme a visioni e impegni di medio lungo periodo, perché la motivazione deve essere alimentata e così i risultati delle aziende. Secondo noi la soluzione può arrivare dalla contaminazione della sostenibilità col modello Agile, nato in ambiente IT per rispondere ad alcune sfide molto simili a quelle della sostenibilità, come gestire la complessità, fondere competenze multidisciplinari e produrre risultati in tempi veloci.”

“Le prime sperimentazioni in azienda ci fanno ben sperare, perché questo metodo di lavoro va ad intervenire su due aspetti critici che finora hanno rallentato il lavoro e minato l’autorevolezza dei CSR manager: la solitudine, derivata dall’essere visti come corpi estranei, e l’inconsistenza figlia di piani pluriennali in cui si fatica a vedere una reale a messa a terra dei progetti. Per sventare queste minacce bisogna costituire dei team che abbiamo al loro interno diverse competenze, anche esterne all’azienda, coinvolgendo la filiera per affrontare in maniera sistemica issues che nascono nel day by day, e che se ben affrontate possono davvero rendere più sostenibile l’impatto aziendale. Ma non basta, è necessario che questi gruppi di lavoro sappiano produrre soluzioni concrete e rapide, migliorabili in futuro con delle revisioni. Perché, se è vero che ci vogliono anni per trasformare delle situazioni insostenibili, è altrettanto vero che servono risultati intermedi per dare coraggio e mettere a tacere i detrattori.”

Viene così da sorridere quando si legge che Confindustria starebbe per mettere a diposizione delle aziende associate – per ora dieci in via sperimentale – dei temporary manager della sostenibilità per un periodo di sei mesi. Un’operazione di indirizzo che può certo calamitare attenzione sul tema, ma che certo non porterà a casa alcun risultato per le ragioni espresse poco sopra. Il tempo delle azioni manifesto pare davvero essere giunto al capolinea e gli stravolgimenti climatici ce lo stanno drammaticamente ricordando. Le aziende devono cambiare velocemente passo, onorando la loro storica vocazione all’innovazione, ma non possono essere lasciate sole dinanzi a questa transizione epocale: la politica ha il dovere di essere al loro fianco.

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