Il giardino organizzativo delle piante

– Sono fatti di carne. – Carne? – Forse sono intelligenze a base di carbonio che passa attraverso uno stadio di carne… – No, nascono carne e muoiono carne. – Niente cervello? – Un cervello c’è, solo che è fatto di carne. – E allora che cos’è che pensa? – È il cervello. È la […]

– Sono fatti di carne.

– Carne?

– Forse sono intelligenze a base di carbonio che passa attraverso uno stadio di carne…

– No, nascono carne e muoiono carne.

– Niente cervello?

– Un cervello c’è, solo che è fatto di carne.

– E allora che cos’è che pensa?

– È il cervello. È la carne che pensa.

– Dovrei credere nella carne pensante?

– Nessun link, tutta carne.

– Impossibile. E i segnali radio? I messaggi alle stelle?

– Usano le onde radio per parlare, ma i segnali non vengono da loro, vengono da macchine.

– E chi le ha fatte le macchine?

– Loro, le hanno fatte. Della carne ha fatto le macchine. 

– È ridicolo. Mi stai chiedendo di credere in carne senziente…

– Queste creature sono l’unica razza senziente del settore e sono fatte di carne.

– Si, carne pensante, carne cosciente. La carne è tutto.

In un video dello scorso anno, Singularity, si dà spazio al dialogo tra due alieni. Guardando la terra dallo spazio parlano con incredulità degli esseri umani, individui fatti di carne, pensante ma deperibile, che pure riescono a produrre macchine.

L’uomo e la macchina

Anche senza essere alieni, dagli esordi della rivoluzione industriale guardiamo alle macchine con un rapporto ambivalente di dipendenza e opposizione che, dal luddismo ottocentesco agli attuali timori di sostituzione – sia fisica che intellettiva – da parte dei robot, esprime molteplici forme di resistenza.

Gli umani resistono alla fatica di produrre le macchine, ma poi anche a quella di tenere il passo con la loro produttività, con la volontà di mantenere la specificità umana. Soprattutto dove i processi elaborativi, basati su algoritmi di costi-risparmi-guadagni, richiedono che gli output programmati non si discostino meccanicamente dall’input inserito. E questo vale non solo per le braccia degli operai impiegate in ritmi calcolati sulle esigenze della produzione, ma anche per gli occhi di coloro che la modernità smart confina dietro un tablet, in una possibile, sovrumana dilatazione dei tempi e degli spazi di lavoro: nel XXI secolo come nell’ottocento, ci sono i corpi umani che – a differenza delle macchine – avvertono l’usura, la malattia, il caldo e il freddo.

Eppure, storicamente abituati a contrapporre all’“umano” il “meccanico”, o il “divino”, tralasciamo di considerare proprio l’alternativa che – dopo gli studi sull’intelligenza collettiva degli stormi, degli alveari e dei formicai – potrebbe oggi diventare l’esempio di riferimento per i sistemi di organizzazione aziendale: le piante. Proprio gli organismi vegetali – che conoscono il territorio, sono flessibili, non sono sottoposti a un controllo centrale e danno al termine “resistenza” un significato diverso – potrebbero fare da guida per gestire la moderna complessità dei sistemi produttivi.

La lezione delle piante

Il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale dell’Università di Firenze, che delle piante studia l’intelligenza – intesa come capacità di risolvere problemi –, attraverso il suo direttore Stefano Mancuso sostiene che prendere ad esempio il mondo vegetale significherebbe fare un salto nel futuro, non solo dal punto di vista tecnologico e scientifico, ma anche organizzativo aziendale.

Il mondo vegetale è il nostro vero opposto su due dimensioni fondamentali: lo spazio e il tempo. Gli animali sono veloci, le piante lente, gli animali consumano, le piante producono, gli animali lavorano nell’ottica della concentrazione e della specializzazione, le piante in quella della distribuzione. Ma, soprattutto, gli animali si muovono. Le piante invece sono radicate, e da qui origina il diverso modello di organizzazione: dove gli animali possono fuggire dai problemi, le piante li devono risolvere.

Proprio perché non possono scappare, sono molto più sensibili rispetto agli animali: il loro modo di resistere è capire quel che succede con grande anticipo, in modo da potersi adattare e modificare per tempo. Comunicano tra loro attraverso segnali chimici di attrazione o di allarme e si aiutano a vicenda quando una pianta della stessa specie è in difficoltà.

Dato che i loro movimenti sono limitati, affidano agli animali alcuni compiti: durante l’impollinazione attraggono insetti, uccelli e rettili con le sostanze chimiche che producono e questi, dopo essersi cibati, trasportano il polline, permettendo la riproduzione vegetale.

La loro struttura corporea non ha un centro e non ha organi specifici per le varie funzioni. Dunque non si possono uccidere eliminandone solo una parte: il resto si svilupperà da solo. Gli organismi vegetali sono quindi realizzati in una maniera componibile; un’architettura modulare, cooperativa, distribuita e senza centri di comando, in una modalità di funzionamento simile a quella del web.

La loro struttura e organizzazione si presta meglio di quella animale a rispondere alle sfide complesse della modernità, dove, per dirla con Bauman, lo spaventato essere umano contemporaneo ha sussunto la retrotopia – banale idealizzazione del passato – come orizzonte futuro.

Quasi tutto quello che finora abbiamo costruito – in termini di ordinamenti sociali e organizzazioni – replica la nostra morfologia di esseri umani: la testa che comanda, vari organi preposti a funzioni specialistiche, le braccia che eseguono con reattività, ma spesso con rigidità di fronte ai cambiamenti. Le piante, invece, possono offrire un modello diverso di organizzazione: diffusa, democratica e distribuita; attenta al territorio e al contesto; reattiva ai cambiamenti; radicata e fatta per durare, ma capace di sentire dalle radici e da ogni propaggine la necessità di mutamento.

Una struttura così ramificata può davvero offrire nuova linfa per prosperare a lungo e in armonia con l’ambiente.

 

Photo Credits © Mirtylla. M / CC BY-SA 2.0 (via Flickr)

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