Il lavoro, che travaglio

Come si è evoluto e stratificato il senso della parola “lavoro” nelle lingue europee, dalla concezione originaria di “pena, fatica” a quella attuale, che evoca nobiltà e dignità individuale.

Quando dalle nostre parti – nella nostra piccola porzione di mondo cosiddetto benestante – pensiamo al significato della parolalavoro”, ci destreggiamo tra due estremi: da un lato evoca fatica e dispiacere, dall’altro la nobiltà che dovrebbe garantire all’uomo.

Di certo i suoi numerosi e spesso contrastanti significati, a seconda dei contesti e delle epoche, rimbalzano dal concetto di maledizione a quello di benessere, fino a significare anche occasione di redenzione. Come mai? Proviamo ad approfondire.

L’etimo del lavoro, una storia di sofferenza

Già dal punto di vista dell’etimologia, quella parola appare un’arma a doppio taglio.

Nella cara vecchia Enciclopedia Einaudi si spiega bene quello che intendiamo: «“Lavoro” in italiano, labour in inglese, travail in francese, trabajo in spagnolo…: questi sono i termini in alcune lingue europee. “Lavoro” e labour derivano dal latino labor che significava “pena” “sforzo” “fatica” “sofferenza”…». In Francia, «nel XII secolo, insieme a labeur era apparso ouvrier, dal latino operarius “uomo di pena”» (il nostro “operaio” di oggi).

Sorprendentemente – ma forse no, come vedremo – nelle lingue anglosassoni e slave pure altre parole che significano “lavoro” derivano da radici che suggeriscono fatica e sofferenza: è il caso di arbeit in tedesco (dal protogermanico arbaidiz, “servitù”), di work in inglese (dalla radice indoeuropea *werg, *worg, “fatica”) e di rabota (in origine “lavoro forzato”) nelle lingue slave (da cui nasce la parola “robot”, il nome con cui lo scrittore ceco Karel Čapek, nel dramma fantascientifico R.U.R. del 1920, definisce gli automi che lavorano al posto degli operai).

È molto interessante anche la storia del termine francese travail, usato per “lavoro” a partire dalla fine del XV secolo: in quel periodo «assume il significato moderno di “opera da fare”… Bisogna attendere la fine del XVII per vedere infine apparire travailleur» (“lavoratore”). Travail fu “importato” nell’Italia medievale per diventare la parola “travaglio”. In varie lingue o dialetti neolatini ha mantenuto il significato “lavorativo”: dallo spagnolo trabajo al portoghese trabalho, dal sardo traballu al genovese travaggiu, dal travagghiu in Sicilia al travai in Piemonte e al travagghiare in Salento.

In italiano “travaglio” oggi è usato quasi esclusivamente col significato di pena, sofferenza, afflizione, guarda caso anche riferito ai dolori della partoriente. Il bello è, si fa per dire, che la parola travail in Francia era comparsa già a partire dall’XI secolo: per designare uno strumento di tortura chiamato in latino medievale tripalium, “composto di tre pali”. «Travailler significava quindi torturare per mezzo del tripalium e il travailleur non era la vittima, ma il boia», si legge nella Einaudi. Finché è diventato “lavoratore”, in generale.

Il lavoro nella Bibbia

Le parole usate per “lavoro” in varie lingue lasciano dunque intravedere un’atavica coercizione, piuttosto che la salvezza.

Questa circostanza ricorre anche nell’Antico Testamento, comune a tutte le religioni monoteiste (ebraismo, islamismo, cristianesimo).All’inizio del libro della Genesi, Dio è il primo lavoratore, orgogliosamente impegnato nella creazione. Nella Bibbia cattolica si legge che il Signore, «nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro». Fa parte dell’essenza del divino: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona».

Peccato (inteso come quello originale) che Adamo ed Eva, nonostante si stessero godendo il ruolo di amministratori delegati del Paradiso terrestre loro attribuito dall’Onnipotente, non resistettero alla tentazione della famosa mela proibita. Risultato: la coppia fu licenziata in tronco e nella Bibbia il concetto di “lavoro” viene subito dopo sostituito dalla parola “fatica”, intesa come necessità di lottare contro la natura divenuta ostile, tra difficoltà e sfinimento.

«Con il sudore del tuo volto mangerai il pane», decreta l’Onnipotente rivolgendosi a Adamo. Detto fatto, «il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché́ lavorasse il suolo da cui era stato tratto».

Il lavoro nobilita l’uomo, ma come ci si è arrivati?

La condanna divina è uno dei due estremi, quello negativo, cui ci riferivamo all’inizio. All’estremo opposto c’è un celebre modo di dire: “Il lavoro nobilita l’uomo” (non per caso il Festival lanciato da FiordiRisorse e SenzaFiltro si chiama Nobìlita). Quel modo di dire è spesso attribuito a Charles Darwin, padre della teoria dell’evoluzione, anche se non esistono prove documentali. Si tratta di un concetto molto moderno, considerando che il lavoratore normale per decine di secoli nel mondo occidentale si è ammazzato di fatica senza avere alcuna garanzia, e in gran parte del pianeta va ancora così.

Di certo, il significato di quel modo di dire è chiaro e noi contemporanei ce lo sentiamo ripetere fin dall’infanzia: l’uomo diventa migliore, eleva la sua dignità, soltanto quando lavora.

Ovviamente oggi si ritiene che, per sentirsi nobilitati, occorra lavorare nel modo giusto, con la corretta retribuzione, con il giusto contratto, nel rispetto dei doveri e dei diritti, in sicurezza, senza subire i soprusi del datore di lavoro o del capo di turno. Infatti è difficile che si senta “nobilitato” chi – con contratti più che precari e a termine – deve passare ore e ore rispondendo per telefono a utenti imbizzarriti o deve correre senza tutela per portare pizze qua e là; oppure chi – in nero e per pochi euro – deve trascorrere giornate sotto il sole in estate o al gelo in inverno, per raccogliere i nostri pomodori o mandarini.

Per illustrare l’evoluzione del rapporto col lavoro da parte del genere umano occorrerebbe molto spazio: la strada è stata lunga, partendo dalla maledizione biblica contro Adamo ed Eva (o, più laicamente, dal primo utensile impugnato dalla specie Homo sapiens) per arrivare, dalla fine del Settecento in poi, a rivoluzione industriale, capitalismo, marxismo, movimenti operai e contadini, socialismo, sedicenti “paradisi dei lavoratori” di matrice comunista, fino alla nostra ottimistica Costituzione (articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro») e alle conquiste sociali e sindacali raggiunte dei Paesi liberal-democratici durante la seconda metà del Novecento, come il nostro Statuto dei lavoratori (la legge 20 maggio 1970, n. 300).

Sicuramente, le conquiste sindacali e politiche che hanno garantito ai lavoratori una serie di diritti (assieme ai doveri), sono un traguardo raggiunto a partire dagli ultimi 150 anni, per lo meno nei Paesi di matrice occidentale. Frattanto molte conquiste sono state minacciate o cancellate. Conquiste minate – Italia in testa – dalla precarizzazione divenuta la regola, grazie a vari politici compiacenti e a molti imprenditori che li hanno sostenuti. È il caso, in Italia, del progressivo smantellamento dello Statuto dei lavoratori a colpi di contratti depotenziati e diritti mutilati (il cosiddetto Jobs Act renziano, parzialmente censurato dalla Corte costituzionale, ne è stato un esempio).

Lavoratori di tutto il mondo, nobilitatevi

Resta il fatto che il dualismo tra lavoro come pena e il lavoro come realizzazione personale è ancora oggi irrisolto; è non risolto nonostante l’emergenza pandemica abbia fatto emergere l’era luccicante dello smart working, che vorrebbe farci apparire trendy ciò che è spesso solo vecchio sfruttamento e nuova precarietà in salsa informatica (per non parlare dei moltissimi lavoratori stranieri e italiani sfruttati, nel vecchio stile, in tante nostre campagne).

Come restituire alla parola “lavoro” la nobiltà che merita? Occorre, tra l’altro, contrastare la narrazione in base alla quale esistono “imprenditori buoni” costretti a subire la presunta mancanza di lavoratori all’altezza delle loro aspettative e ad “assumere” ragazzi che non avrebbero voglia di lavorare; quando semmai troppe aziende sono così incolte e destrutturate da non sapere trovare la manodopera, se non a colpi di impieghi sottopagati e precari.

Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Karl Marx affermava che «il lavoro fa dell’operaio una merce», partendo dal presupposto che «diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce»; ben 178 anni dopo, nell’era digitale, una marea di lavoratori rischia troppo spesso di riconoscersi ancora in quell’affermazione e anche nelle radici ataviche dell’etimologia della parola: lavoro come sofferenza e non come realizzazione personale.

È ora di nobilitarsi e di mobilitarsi. Sul serio.


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